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Una notte da film
Citofonai all’abitazione dei Leotta intorno alle sette e mezza di sera, ma non c’era nessuno. Non sapevo cosa fare, pensai che forse avrei dovuto semplicemente farmi gli affari miei e andarmene in pizzeria coi miei amici.
Poi ricordai che non lontano dal B&B i Leotta avevano la disponibilità di un attico, di proprietà di un cugino emigrato in America (o qualcosa del genere). Per quel che ne sapevo, lo utilizzavano saltuariamente come casa-vacanze da affittare oppure per delle serate di poker organizzate da Pino. Ci andai, sospinto dall’intuito che forse li avrei trovati lì, che forse i finanzieri lì non li avevano ancora cercati.
Citofonai, pigiando sull’anonimo pulsante in alto a destra. Il portone si aprì, senza che nessuno avesse risposto al citofono. Salii per le scale, gli ascensori vecchi mi hanno sempre incusso un certo timore. Mi aprì Cinzia. Era una casa enorme e vuota. I Leotta non avevano figli, gli spermatozoi di Pino andavano come le auto in fila ad un casello autostradale in una domenica d’agosto. Cinzia era sola e non era la solita Cinzia. Dimessa e struccata, mi accolse con una predisposizione d’animo che mai aveva manifestato nei miei confronti, o almeno così mi parve. Si vedeva che aveva pianto, il suo viso era di cartapesta.
Andammo in soggiorno, mi fece accomodare su uno degli sgabelli che arredavano la cucina all’americana. Senza dire nulla, prese del vino bianco freddissimo e lo versò in due bicchieri. Era vestita con un pantacalze aderente e una maglia a maniche corte, da cui s’intravedevano i capezzoli d’un seno prosperoso e ancora turgido, nonostante i suoi cinquant’anni. Non avevo mai fatto caso al suo aspetto, assurdo che succedesse in quel frangente.
Era la classica femmina di quartiere, una che fa sangue (si dice da noi), statura media, in carne ma non troppo, capelli scuri con sfumature di rosso, sguardo intenso e chili di trucco che evidentemente qualcosa o qualcuno quel giorno s’era portato via.
“Che succede, Cinzia? Perché sei qua e non a casa?”. “Tu perché sei venuto a cercarci qua?”: era la risposta più eloquente che una domanda potesse contenere. “Dov’è Pino?”, le chiesi. Cinzia trangugiò il suo vino. “Se n’è andato!”, disse fissando il bicchiere che faceva rotolare tra le mani senza smalto. Sobbalzai, e anche vistosamente. L’indefinitezza di quelle parole fu reboante quanto la loro cruda asciuttezza.
“Che vuol dire ‘se n’è andato?’ Dove? Che succede, Cinzia? Parlami!”.
Non mi resi conti di avere alzato la voce. Lo fece anche lei e in quel tipico dialetto liberatorio che nelle nostre donne riecheggia stentoreo: “S’inniu!”. “E scapp …”. Non finii di dirlo, che mi mise la mano sul braccio, attirando l’attenzione dei miei occhi sui suoi. Erano vitrei, mentre portava l’indice sulla punta del suo naso intimandomi di tacere. Mi guardai intorno, capii tutto e non capii niente. Evidentemente temeva che potessero esserci delle cimici, evidentemente neanche lì si sentiva del tutto al sicuro.
Si alzò, come una panterona mezz’addormentata, tipo Zalayeta a fine carriera (quello della Juve, lo ricordate?). La seguii. Attraversammo la camera da letto (un po’ troppo baroccheggiante per i miei gusti) e ci immettemmo in una specie di stanza degli armadi. Ne aprì uno, destinato a poche scatole e a delle vecchie scarpe da donna che rilasciavano uno greve odore come di richiuso. Mi ci ficcò dentro, quasi spingendomici. Io non fiatai. Entrò pure lei e si chiuse dentro assieme a me. Non la vedevo, sentivo solo il suo odore che sfumava nella fragranza di un profumo messo la mattina e si mischiava al suo alito vinaccioso.
Eravamo l’uno a mezzo metro dall’altra, forse anche meno. L’abbraccio avviluppante d’un silenzio durato qualche secondo, poi il tuono d’un sussurro: “Che minchia ci sei venuto a fare qua?”. Anch’io sussurrai: “La Guardia di finanza ha chiamato al B&B, cercano Pino. Ho capito che è una cosa importante, ti ho cercato a casa, poi sono venuto qui”. “E che t’hanno detto?”. Il buio fitto di quel minuscolo spazio non oscurava la furia dei suoi occhi, dei suoi lineamenti, dei suoi muscoli. Io mi feci tentennante: “Niente, Cinzia, cercavano Pino e mi hanno raccomandato di dirglielo appena lo avrei visto o sentito”. “T’hanno raccomandato di dirglielo appeno lo vedevi o ti rissiru ri vinillu a ciiccari?” Eccola, la mafiosetta del quartiere Capo che aveva sposato il mio amico d’infanzia, facendolo diventare un uomo rispettato (forse anche troppo).
Mi venne solo voglia di uscire da lì, cominciava a mancarmi l’aria, ma sfiatai sicumera: “Se mi avessero chiesto di venire a cercarlo, ti avrei detto che mi hanno chiesto di venire a cercarlo. Adesso mi dici che cazzo succede?” Cinzia aprì l’anta dell’armadio e uscì. Io feci altrettanto. “Vatinni - mi ordinò - pensa al B&B e fatti i cazzi tua”.
Non potevo andarmene così, volevo risposte. “Insisto, Pino è mio amico”. Cinzia non batté ciglio, mi cacciò via con un semplicissimo ed eloquentissimo gesto del dito. Niente risposte.

Uscii da quella casa con l’animo appesantito ed il sudore che chiazzava la mia camicia all’altezza delle ascelle. Presi il cellulare, chiamai Pino. Staccato. Andai al B&B, trafelato e preoccupato. Camminare mi ha sempre aiutato a riflettere, anche se in realtà c’era poco da riflettere, era chiaro che il mio amico si fosse dato alla macchia e che anche la moglie stesse meditando di farlo.
Ma perché era scappato? Certo, doveva trattarsi di qualcosa di grosso, visto il timore d’essere spiati financo tra le mura di un appartamento che non risultava essere di loro proprietà. Chi era Pino? O chi era diventato? Per chi lavoravo? Avrebbero sequestrato tutto, lo fanno sempre, me lo sentivo. Come per un sortilegio, ero consapevole solo di questo, tutto il resto tornava ad essere confuso, precario, instabile. Era stato troppo bello per essere vero. Mentre entravo nel B&B, mi resi conto del fatto che di Pino non m’importava, odiavo sua moglie e lui non era nemmeno stato tutto questo granché d’amico. M’importava solo di non perdere il lavoro, la mia nuova casa, i miei guadagni, il mio B&B. Mi feci una doccia, mangiai qualcosa, due scatolette di tonno e dei crackers, feci per rivestirmi e andare… andare dove? Dai miei. Sì, avevo voglia di tornarmene a casa, la mia vera casa, probabilmente era un modo per esorcizzare la paura matta che avevo di perdere quel posto. O forse era solo paura, per qualcosa che solo intuivo. Forse Cinzia aveva ragione, forse mi aveva dato il giusto suggerimento: occuparmi del B&B e restare fuori da quella storia, di qualunque cosa si trattasse. Forse Cinzia voleva, a suo modo, proteggermi. Forse Cinzia non era poi così malvagia. Forse.
Avrei lasciato che il tempo sbrogliasse il groviglio di tutti quei forse e nel frattempo avrei fatto come aveva detto lei. Domani però. Quella sera volevo andarmene da lì, volevo rifugiarmi nel solo e unico vero rifugio dai miei casini. Erano passate le nove, la famigliola trevigiana ancora non era rientrata. Chiamai mia madre per dirle che avrei dormito a casa … “Ho già mangiato”, l’anticipai mentre prendevo le chiavi della macchina e mi dirigevo a passi decisi verso la porta. La porta principale del B&B si aprì prima che l’aprissi io.
Mi tatuai un sorriso istantaneo tra le labbra secche, dovevano essere i Prester, di rientro dopo una lunga giornata passata a camminare, a fotografarsi e a ingerire ogni tipo di schifezze che certo street food propina a inconsapevoli turisti.
Ma non erano loro, era Cinzia. La porta si chiuse alle sue spalle, io rimasi lì, davanti a lei, con le chiavi dell’auto in mano e tutta l’aria di uno che vuol darsela a gambe. “Te ne vai?”, mi chiese asettica. “Sì, stavo andando dai miei. Qui è tutto a posto”. La donna non disse nulla, ammiccò mentre entrava nella mia stanza, vale a dire la camera del B&B di Leotta Giuseppe, che io avevo trasformato in mia nuova casa. In realtà, lì dentro non c’era nulla di mio e presto me ne sarei reso conto. La seguii. Ci risiamo, pensai, e sperai che questa volta mi avrebbe dato delle risposte. Entrato nella stanza n 4, la vidi seduta su uno dei due letti singoli. Aveva lo stesso aspetto disforico di prima, ma lasciava adesso intravedere un maggiore self control. E continuava a guardarmi come mai aveva fatto, senza quella sostenuta ruvidezza con cui tante volte aveva invece ghermito il mio sguardo. “Chiudi la porta”: questa volta me lo chiese, non era un ordine.
Chiusi la porta. Lei si tolse le scarpe, aveva addosso gli stessi leggings e la stessa maglietta che indossava qualche ora prima. Si distese sul letto, di fianco, le mani a cuscino, gli occhi umidi a fissare il silenzio che ammantò tutta la stanza. “Vado a prenderti qualcosa? Hai mangiato?”. Glielo chiesi, anch’io spoglio d’ogni arma invisibile che contro di lei avevo sempre brandito. Mi rispose di no con la testa. Io feci per andarmene e lasciarla riposare. Forse era venuta solo per quello, per trovare un po’ di pace, lontana dall’inferno presumibilmente micro-spiato ch’erano diventate casa sua e, forse, pure la casa del cugino. Era stata una giornata lunga. 
“Mettiti accanto a me”, quasi m’implorò. Il mostro si era improvvisamente trasformato in un essere umano. Esitante, mi sedetti sul bordo del letto, in un equilibrio precarissimo tra un pezzetto di morbido materasso e l’infinita crudezza del momento. Non sapevo cosa fare, non feci niente e mi limitai a fissare un milione di punti tra il tetto e le pareti, che sembravano stringersi su di me. Anche i suoi occhi fissavano qualcosa, fissavano me. E non c’era nel suo sguardo nulla della signora Leotta che avevo sempre conosciuto.
Mi faceva tenerezza, aveva perso Pino, aveva perso tutte le sue certezze in un attimo. Svuotato d’ogni resistenza, le misi timidamente una mano sui capelli. Erano corti, morbidi e profumavano di lacrime e lacca. Lei afferrò la mia mano e la portò alla sua bocca, baciando le punte delle dita. Io la ritrassi, ma la sua presa era determinata. E poi mi piaceva. Incredibilmente la mia mente fu subito sgombra, sentivo pulsare le mie voglie per troppo tempo sopite, il cuore bussò di desiderio. Entrai. Si sollevò, mi baciò intensamente, la baciai intensamente. Si spogliò e mi spogliò. Facemmo sesso in un piccolo letto e in un mare di voluttà, lo facemmo di un’intensità che ci sfiancò. Ma non abbastanza per toglierci il gusto di farlo una seconda volta. Senza dircelo, c’eravamo sempre odiati; senza saperlo, c’eravamo sempre desiderati.
Sfinita, si voltò dall’altra parte e si addormentò, senza dire niente. Io mi alzai, quasi vergognandomene la baciai sulla fronte e, incurante del fatto che forse non sentiva, le dissi: “Ci sono io qui, stai tranquilla”. Andai di là. Chiamai mia madre per dirle di aver cambiato idea. Mi misi al desk, bevvi una Coca cola zero, navigai in internet, accolsi garbatamente quegli scassacazzi dei Prester, mandai un paio di WhatsApp a Ciccio e uno alla mia ex moglie, per informarla che l’indomani avrebbe dovuto accompagnarlo a scuola. Lei protestò, io semplicemente la ignorai.
Feci queste cose con meccanicità, la mia mente era ancora obnubilata dall’odore di Cinzia, la sua pelle, la sua bocca, la sua intimità. La stranezza di una situazione paradossale. Non capivo niente, non esisteva niente, giravo su me stesso e sulle mie sollecitazioni sensoriali, come se fossi in un Tagadà impazzito. Non volevo niente da lei, volevo solo che succedesse ancora.
Andai a letto, stanza numero 6 (quella al piano di sopra, la meno utilizzata). Accesi la tv, rassegnato a diverse ore di girarrosto sul lettone matrimoniale. E invece presi subito sonno. Il mio sonno durò poco. Sentii, infatti, bussare con veemenza e un vociare indistinto dietro la porta, all’inizio credetti di sognare.
Mi destai. Non era un sogno, qualcuno stava davvero bussando. Guardai l’orologio del cellulare, erano quasi le due di notte. Imprecai contro l’idiota che aveva pensato di presentarsi a quell’ora per una stanza. Poi realizzai e un nodo di terrore si strinse alla mia gola, strozzandomi. Con le gambe rammollite dal panico, mi alzai alla svelta e andai a vedere chi fosse, scendendo la scala interna del B&B come una goffa lepre in fuga. Il vociare dietro la porta si faceva sempre più distinto, i trilli del campanello si facevano incalzanti: “Guardia di finanza, aprite!”.
Passai davanti la stanza numero 4, la porta era chiusa. Pensai a Cinzia, doveva essere spaventata. Andai ad aprire, cos’altro potevo fare? Una pattuglia di uomini armati quasi mi surclassò, mentre avanzavano decisi all’interno del mio mondo, fino a poche ore prima perfetto.
Non mi dissero nulla, era come se non esistessi. Sapevano dove andare e cosa fare. E chi cercare, cercavano Cinzia. Ne ebbi conferma quando uno di loro, aprendo la stanza numero 2, la chiamò a gran voce, non ottenendo però null’altro che un uomo sulla porta della stanza accanto, il quale, smarrito ed impaurito, chiese cosa stesse succedendo. “Entri dentro, signor Prester, e non si muova. È tutto sotto controllo”: conoscevano persino l’identità degli unici turisti in quel momento ospiti del B&B. Il signor Prester si chiuse dentro e, dai rumori che udii provenire dalla sua stanza (una matrimoniale adattata a quadrupla con l’aggiunta di due lettini per i due figli adolescenti), compresi che stavano facendo le valigie in fretta e furia.
La ricerca proseguì, scandagliarono tutte le stanze, tuttavia senza successo. “Dov’è finita?”, mi chiesi. Me lo chiesero anche loro: “Dov’è Cinzia Mannino?”. Il tono e la faccia con cui il più graduato dei cinque mi rivolse quella domanda cristallizzarono il mio sangue in microscopici miliardi di granuli salini. Balbettando (e non ero certo un balbuziente) risposi dicendo la vile verità, che l’avevo lasciata dormiente nella stanza n 4. L’impercettibile ghigno sulla faccia del capitano tradì una certa consapevolezza, forse ci avevano ascoltati ansimare mentre facevamo sesso e questo mi fece sentire imbarazzato, vergognato, violato nella mia sfera più intima e privata. Una sensazione che avevo già provato tante altre volte nella mia precedente vita, quando parlavo al cellulare ed ero certo che l’astratta entità dalle orecchie lunghe (il famoso maresciallo), ascoltasse; mai però, come in quella circostanza, avevo avvertito il fastidio di un estraneo autorizzato ad entrare nei nascondigli della mia vita.
Non era comunque il momento di lasciarmi distogliere dalle sensazioni, dovevo concentrarmi sul capitano, il quale continuava a guardami torvo. 
“Qui non c’è. Questo bed and breakfast ha un’altra uscita?”. “No, solo quella principale”. Il capitano si appoggiò al desk, con tutto il peso di un uomo corpulento e autoritario. “Mendola, dov’è la Mannino?”, mi chiese di nuovo, questa volta a bassa voce, protendendosi verso di me, che me ne stavo lì dietro, con i sudatissimi palmi delle mani premuti sul banco. “Le ho detto tutto quello che so, io non c’entro nulla con questa storia… non so neanche quale sia la storia”. Era la verità e lui lo sapeva benissimo. Loro sanno sempre tutto: un altro mantra palermitano, in parte veritiero e in parte condito col pepe della dietrologia popolana. “Ha una piantina dell’edificio? - continuò imperterrito - Questa è un’antica villa ristrutturata, dico bene?”. “Devo cercare”, risposi confuso, mentre mi abbassavo e prendevo il raccoglitore con tutti i documenti della struttura. Sotto lo sguardo attento del capitano, scartabellai fogli e cartacce, ma non trovavo ciò che mi era stato chiesto e le mani mi sudavano ancora.
I finanzieri, nel frattempo, stavano letteralmente mettendo a soqquadro il B&B, mi sembrava di vivere la scena di un film. Il capitano sbuffò, si stava spazientendo. Abbozzai una frase senza senso: “Posso provare …”. “… No, lasci perdere! Dia le sue generalità al collega e torni a dormire”. E andò via, seccato, seguito dai suoi subalterni, che gli avevano intanto fatto segno che lì dentro non c’era nessuno. Ed era evidente che non se ne capacitassero. Lasciai le mie generalità al più giovane della truppa (l’unico in divisa) e, quando anche quest’ultimo se ne fu finalmente andato, corsi in bagno: mi s’era smosso lo stomaco. E anche la mente.
Dov’era finita Cinzia? Erano trascorsi diversi giorni da quella notte cinematografica e tutto sembrava essere tornato alla normalità, eccezion fatta per l’assenza di Pino e Cinzia. Anche lei si era volatilizzata. Quella sera si era nascosta sotto il letto matrimoniale dei Prester, inaspettati complici di una fuga rocambolesca.
Più volte mi ero chiesto come mai quel distinto padre di famiglia del nord (talmente distinto da non destar sospetti e non indurre i finanzieri a cercare a fondo nella sua camera) si fosse prestato a un’azione così pericolosa. Chissà, magari Cinzia aveva portato sotto quel letto uno dei due figli, puntandogli un coltello alla gola o forse li aveva minacciati che suo marito li avrebbe trovati e sgozzati come maiali se non le avessero retto il gioco; d’istinto mi prefiguravo una scena da film americano, frutto del trauma che avevo vissuto quella notte.
Seppi poi che le cose erano andate un po' diversamente, che non c’era stata nessuna costrizione nei confronti dei Prester. Ad ogni modo, Cinzia l’aveva fatta franca, era uscita dal B&B solo l’indomani mattina, dietro un mio “via libera” sussurrato con le labbra, e da quel giorno non ne avevo avuto più notizia. E non ho mai compreso perché i finanzieri non fossero andati a prenderla a casa sua o come mai non avessero arguito che potesse trovarsi nell’attico del cugino americano, loro che sanno sempre tutto. Cavoli loro. A me non era rimasto che continuare il mio lavoro.
E così feci.
Mettevo da parte i soldi dei Leotta, pur non sapendo se e quando avrei potuto darglieli, per il resto facevo quello che avevo sempre fatto: il padrone in casa d’altri, al momento scomparsi nel nulla. Una situazione teoricamente ideale, in un certo senso mi sentivo ancor più libero, ancor più padrone del B&B, eppure una sensazione di precarietà arrugginiva gl’ingranaggi delle mie giornate, era come se tutto dovesse, presto o tardi, franare sotto i miei piedi.
Ciò che in effetti accadde, e presto anche. Molto presto.
Era un soleggiato sabato mattina, lo ricordo bene perché quel giorno sarei dovuto andare alla partita di Ciccio, peccato che due finanzieri (ancora loro) mi notificarono un provvedimento di sequestro della struttura. Alla partita di mio figlio andai ugualmente, perché Ciccio non me l’avrebbe perdonata e Angela me l’avrebbe fatta pagare (anche letteralmente), ma avevo il petto sigillato e negli occhi l’immagine dei sigilli apposti al B&B. Fine della storia, era stato troppo bello per essere vero. Tornavo ad essere l’eterno giovane con un futuro roseo alle spalle e con quel che rimaneva degli ultimi guadagni (miei e dei Leotta) in tasca. Smettevo di essere il portiere d’albergo (o giù di lì), una definizione che mi divertivo quasi a stornellare quando non riuscivo a schivare la più scontata delle domande, che pure dovrebbe porsi con cautela: e tu che lavoro fai? Un lavoro non ce l’avevo più.
I Leotta erano ricercati per aver messo in piedi una mega truffa assicurativa, falsi sinistri e ossa spaccate a povera gente dietro poche centinaia di euro. Sul loro conto lessi e sentii cose da raccapriccio, ma l’unico raccapriccio che riuscivo a provare era per i maledetti canarini, che avevano messo i sigilli al B&B e buttato me nuovamente in mezzo alla strada. 

Continua...