L'eterno giovane con un futuro roseo alle spalle
Trovare un lavoro a quarantasei anni è come vincere al Gratta e vinci, trovarlo all’uscita da una pandemia è come vincere al Superenalotto, trovarlo dalle mie parti è un miracolo. Lavoretti se ne trovano, certo, ma sono cose precarie, che durano da Natale a Santo Stefano, ti metti qualcosa in tasca ma non ci campi la famiglia.
Avevo 46 anni e una famiglia alle spalle: una moglie, un figlio. Mia moglie mi aveva lasciato da qualche mese, mio figlio aveva lasciato sul comò della mia vecchia stanza un pezzo di carta con su scritto: «Ti voglio bene, papà». Dovevo volermene anch’io, dovevo ricomporre la mia vita e riacquisire quello straccio di dignità che mi avrebbe consentito di non sentirmi così piccolo al cospetto del mio piccolo.
Dovevo trovare un lavoro, dovevo finalmente avere una vita normale: gli orari, la fatica, la paga a fine mese, i weekend, le festività e tutto il resto. È vero, non c’è nulla di normale in un quarantaseienne, padre, senza arte né parte, che torna a vivere con gli anziani genitori; ma avrei rimesso a posto anche quel tassello, mi sarebbe bastato trovare un lavoro, a quel punto avrei preso un miniappartamento e tutto si sarebbe sistemato.

Cercavo lavoro, qualsiasi cosa, purché sapesse di ordinario e avesse il senso della sistemazione. Cercavo, giravo.
Ero entrato anch’io nel maledetto setaccio della sorte, che sballotta carne, respiri e tribolazione generando pochi privilegiati e moltitudini di rassegnati. Che poi passano al prossimo setaccio e all’altro ancora e all’altro ancora. Cercavo, paziente.
Infilavo le mani levigate del mio atavico far nulla in una borsa piena di cianfrusaglie, sperando di trovare una chiave, qualunque essa fosse, qualunque porta aprisse. Vagavo in un buio fitto, senza un indirizzo, una meta. Internet era un mare tempestoso in cui naufragavo di continuo. Il passaparola non era un’opzione praticabile, dal momento che me ne stavo chiuso in casa, solo et pensoso nella mia vecchia cameretta, ricolma di ricordi e ombre di glorie appena sfiorate.
Mia moglie, avida di mantenimento, artigliava sulle carni flaccide della mia inconcludenza e di tanto in tanto mi gettava in pasto un colloquio della speranza, ma erano quelle cose precarie che durano da Natale a Santo Stefano. Non ci campavo la famiglia e non ci pagavo nemmeno gli alimenti, cui comunque non ero obbligato, dal momento che, dei due, l’occupato non ero io.
Un giorno ci andai, era un colloquio per un posto di rider, cioè quanto di più distante potesse esserci da me. Probabilmente, dal suo punto di vista, era il modo poco subliminale per dirmi: “non vali niente”. Ma ci andai lo stesso, dovevo fare qualcosa; e poi m’illudevo di dispensar grandezza dietro un gesto umile. Il tizio esaminante purtroppo mi riconobbe, non credeva ai suoi occhi e non fece nulla per dissimularlo. Io non avevo la più pallida idea di chi fosse, la fisiognomica non è mai stato il mio forte; mi fece una gran festa, ma gli lessi chiaramente negli occhi la soddisfazione di vedermi finalmente dall’altra parte della scrivania ad elemosinare ciò che in tanti avevano a me chiesto col cappello in mano e gli occhi da piatuso (a Palermo l’implorante, un po’ ruffiano, lo chiamiamo così).
Insomma, l’ennesima imbeccata farlocca da parte del mio ex angelo di nome Angela.
Non accettai quel lavoro, ma non per lagnusia. Lo ammetto, un po’ pigro lo ero sempre stato, tuttavia non era più tempo di pigrizia, non era più tempo di massimi sistemi e dei grandi disegni su cui la matita delle mie inquiete ambizioni, temperata e ritemperata, s’era ormai consumata; non era più tempo di parvenze e apparenze. Era il tempo di mettere sogni, pruriti, orgoglio e obiettivi in un cassetto, chiuderlo a chiave per sempre e darsi da fare.
La paga per quel lavoro era a dir poco indecente, perlomeno per i miei standard abituali, ma non era questo il problema (meglio di niente); il problema era il mio problema con le due ruote. Nulla di fatto, tra le innumerevoli cose che avrei potuto essere, e che non sono stato, non c’era il rider.
Me ne tornai a casa, ancora una volta sconsolato e appesantito. Vi avrei trovato i miei genitori, che non riuscivano a togliersi dalla faccia quel maledetto ghigno compassionevole e leccavano continuamente le ferite dei miei fallimenti.
Concedetti a mia madre la finta allegrezza d’un uomo disperato e il finto entusiasmo per la cena pronta. Mascherato d’una forza che non avevo, videochiamai Francesco, il cui candore zavorrava il mio umore quasi soffocandomi. Quindi, mi ritirai in buon ordine tra le mura nemiche della mia cameretta. Guardai la tv, mi drogavo di tv; gli inutili salotti televisivi sul calcio riuscivano ad attirare la mia pigra attenzione quando si parlava dell’Inter, il che avveniva abbastanza di sovente. La spensi ch’era mezzanotte e accesi il lume torreggiante sullo stesso comodino, che continuava ad accogliere i bigliettini di mio figlio, quando la domenica sera ci separavamo, zuppi di lacrime trattenute e singhiozzi sfrontati. Presi il cellulare, scorsi col dito le notizie di calciomercato.com, aspettando che le mie palpebre annunziassero l’arrivo del sonno, agognato come l’ultimo treno di sola andata verso la terra di nessuno e di nessun patema.
E così fu. Sognai, non ricordo cosa, ma feci un bel sogno, perché l’indomani mi svegliai come un indomito esploratore di soluzioni e terre promesse. E la terra promessa apparve all’orizzonte. Inaspettata, mischiata tra le nubi dell’imprevedibile, impensabile terra di opportunità.  

In casa dei miei, quella era la mattina dedicata alle pulizie. Vi provvedeva una signorotta tarchiata, dai fianchi larghi, le mani ruvide e una ferrea forza di volontà. Nadia lavorava in casa nostra da parecchi anni, due volte a settimana, dalle otto all’una, sette euro l’ora. In nero. Una di fiducia, quasi di famiglia, tanto da dividersi il resto della settimana tra la mia ex casa della mia ex moglie e quell’arpia di mia sorella Ludovica.
Stavo facendo colazione col caffè da caffettiera e, privilegio extraconiugale, il ciambellone con gocce di cioccolato. Guardavo distrattamente il telegiornale, mentre ascoltavo, indolente, i soliti commenti monosillabici di mio padre, che ce l’aveva col governo incompetente, col Palermo in lega pro e col tempo infame di una strana primavera palermitana.
Poi, la voce di Nadia tuonò sulle mie sinapsi con prepotenza. Che strano! Quella donna per me non era mai esistita, i pochi secondi di considerazione che in tutti quegli anni le avevo dedicato si erano concretati in pensieri penosi, in tentativi arroganti d’immedesimazione e nello stesso interrogativo che sussurravo a me stesso con banale superficialità: che vita è la sua? 
Eppure, quella mattina disse qualcosa che mi fece drizzare le orecchie: Non ho un buco, posso chiedere a mia cognata, ma vuole la messa in regola però”.
Era una qualche risposta a una qualche sollecitazione da parte di mia madre. La questione rimase sospesa come il Virgilio di Dante, ma intanto un’idea folle attecchì sul terreno aridissimo della mia mente, nelle cui profondità evidentemente c’era ancora dell’acqua.
“Mamma, cos’è sta storia dell’indiano?”, le chiesi non appena Nadia si concentrò sulla stanza da letto, portandosi fuori dal nostro campo visivo e, forse, anche uditivo (il forse è d’obbligo, trattandosi di un’impicciona dalle orecchie lunghe).  
“Il direttore della banca ha chiesto a tuo padre se conosce qualcuno da mandargli a casa”. Tutto chiaro: mia madre, su richiesta di mio padre, si stava prodigando a trovare qualcuno che sostituisse l’indiano tuttofare di casa Pirrone, il direttore della filiale di banca dov’era canalizzata la discreta pensione della discreta carriera da funzionario comunale del mio discretissimo vecchio.
Non dissi più nulla e, quasi senza accorgermene, vagai per casa, inseguendo i passi di Nadia. La osservai, la studiai per un po’, nel sottofondo di quelle parole che non smettevano di echeggiare tra gli angoli più nascosti delle mie più ottuse e improbabili elucubrazioni sul da farsi: non ho un buco, posso chiedere a mia cognata, ma vuole la messa in regola però.
Quella giornata si riempì di ore vuote e lente. Una giornata immobile, sciatta, come tante altre negli ultimi mesi, come i pungiglioni incolti d’una faccia non rasata, come i capelli scarmigliati, come il pigiama che mi portavo dietro per seconda pelle.
Non feci nulla, non dissi nulla, non pensai a nulla. Lasciai solamente che quella strampalata idea s’arrampicasse sui muri scrostati della mia mente e aspettai. Aspettai che Nadia desse a mia madre la risposta. Aspettai che il signor Pirrone trovasse qualchedun altro. Aspettai che il destino muovesse i fili degli assurdi pensieri e che i pensieri si trasformassero in coraggiosi manichini, spogli d’orgoglio e preconcetti, finalmente liberi.
E il destino mi convinse che doveva andare così. E poi era perfetto per me: avrei potuto fare quel lavoro di nascosto al mondo, unici testimoni del mio fallimento sarebbero stati la famiglia Pirrone e i miei genitori. Senza dover subire la costante mortificazione di mancata stella precipitata in una stalla piena di sterco, senza dover affrontare le domande, gli sguardi, le accorate recriminazioni e i commenti alle spalle. Tentennante, ne parlai coi miei, sfidando l’impronosticabile loro reazione. “Va bene”, mi disse mia madre, affidando al palmo della mano una lacrima senza tempo. “Domani mattina vado in banca e parlo col direttore”, sussurrò mio padre con la sua proverbiale durezza, mentre mi metteva una mano sulla spalla. Stavo per correggerlo con una delle mie dissertazioni sui ricorrenti errori alla palermitana, come quello di usare il verbo al presente per dire ciò che faremo domani, ma questa volta glissai e mi godetti quella mano sulla spalla, che sentii essere d’ammirazione. Da tanto tempo non avvertivo la magia istantanea che ti trasmette l’approvazione di un padre. E mai avrei creduto che me la sarei riguadagnata diventando l’uomo delle pulizie.        

“L’eterno giovane con un futuro roseo alle spalle, ecco chi ho sposato!”. Ricordo ancora quando andai via da casa, mentre Angela mi vomitava addosso quella frase, così studiata, così spontanea. Era stato l’ennesimo litigio, nemmeno ricordo per cosa, se per soldi o per il calcetto di Ciccio o se per la partita di padel o per gli ottavi di Champions da comprarci il biglietto e andare a Milano. La verità è che ormai era diventato tutto un pretesto, mi detestava. O forse detestava il fatto che tutto ciò che avevo rappresentato per lei s’era di colpo smaterializzato. Si era innamorata dell’idea di me, non di me, e la delusione le aveva ammorbato l’anima, il cuore, la mente, ogni cellula. Era diventata la donna più cattiva del mondo, forse meritavo la sua scelta di lasciarmi, ma non quella cattiveria. In fondo, quale crimine avevo commesso? Quale sbaglio? Ero stato il marito e il padre più normale che potesse esistere. Già, troppo normale. Ecco il crimine: le avevo promesso una vita straordinaria e mi ero ridotto a giorni di ordinaria apatia, agli aiutini a fine mese dei miei, a ore sul divano e sveglia alle nove, a un’assenza totale di prospettive.
Ero diventato una nullità, ai suoi occhi e, quel che per lei era peggio, agli occhi del mondo.
Quel giorno ci incontrammo davanti a un bar del centro di cui ero stato un habitué ed era l’ultimo posto dove avrei voluto avere un appuntamento: quel piccolo bar era il ritrovo della grande borghesia, al cui cospetto, ormai spoglio del mio status, mi sentivo un nano guardato dall’alto.
Pensai che Angela l’avesse fatto a posta, a darmi appuntamento lì, sicura che non avrei protestato per non tradire insicurezze. E infatti ci andai. Era pomeriggio, il cielo di vaniglia scoloriva all’imbrunire, non c’era un filo di vento, tra di noi non c’era uno straccio di niente. L’avevo scelta tra mille, ma forse non l’amavo più (e cavolo se l’avevo amata!). Non volevo più saperne, di lei, delle sue certezze, le frecciatine, i giudizi, l’acidità dei suoi sguardi superbi, il fiele di quell’ultima frase confittami sulle spalle, mentre col cuore sotto i tacchi andavo via da casa mia, dalla mia famiglia, dalla mia vita.
Me ne resi definitivamente conto quell’apatico pomeriggio e trovai un certo sollievo. Dovevo darle del denaro. Angela era un funzionario delle Poste, non aveva alcuna necessità, ma pretendeva ugualmente che contribuissi alle spese per Francesco. Avrei voluto obiettare che lei aveva quel lavoro grazie a me e che al momento non chiedermi nulla sarebbe stato il minimo; tuttavia, preferivo non scadere nell’esercizio miserabile del rinfaccio e poi c’era il mio orgoglio o quel che n’era rimasto. Ci salutammo con gli occhi, rimanendo davanti a quel maledetto bar, coi piedi ben piantati su un di un grigio marciapiede maculato di chewing gum pestate e sulle nostre distanti posizioni. Non la vedevo da una ventina di giorni, la trovai bella come sempre, stronza come non mai. “Come te la passi?”, mi chiese asettica. “Ok”. Alzò in alto i suoi occhi da cerbiatto carnivoro, le labbra strette, le mani nelle tasche di quei jeans che tante volte le avevo sconsigliato d’indossare, le spalle raccolte in un disagio che l’assenza di parole rese palese e ingombrante. Anch’io infilai la mano in una tasca. “È tutto quello che posso darti, non è molto ma …”.
Avevo chiesto a mia madre trecento euro, sarebbero bastati per la seconda retta della scuola calcio del bambino e per comprargli qualcosa. Lei afferrò i soldi con stizza e allora capii che quel denaro non serviva per Francesco, era il tributo dell’odio. Li contò, sfacciata. “Fa’ che siano di più la prossima volta”. Non mi arrabbiai, perché sarei sconfinato nel rinfaccio, avevo tante cose da poterle rinfacciare.
Le dedicai solamente un eloquente sorriso ferino: “La prossima volta vedremo …”. “Eh buonanotte, Giuseppe!”. “Non cominciare!” “Macché cominciare, abbiamo finito!”. E se ne andò, lasciandomi lì, con la voglia di non essere astemio per entrare in quel bar e bere qualcosa, col desiderio di spaccare tutto, con l’insano impulso di urlare alla sfortuna, a Dio, a me stesso.
Non feci nulla di tutto ciò. Mi rifugiai in macchina, parcheggiata lì davanti, e misi subito in moto. Non volevo che qualcuno s’accorgesse della lacrima sorniona, che lentamente percorse le spontanee increspature d’un viso senza rughe e senza gioia.

Continua...