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Il portiere d’albergo (o giù di lì)
Iniziava l’Estate, Palermo cercava di risvegliarsi dal lungo torpore di un lockdown finalmente finito. I vaccini funzionavano (o così pareva), i No vax protestavano, il Covid stava arretrando (gli stadi di calcio ne erano testimoni), il turismo ripartiva. E con esso il B&B del mio amico Pino, ma non per il turismo.
Pino Leotta gestiva un B&B in piazza Principe di Camporeale, a due passi dal tribunale e dai mercati storici palermitani. «A due passi da tutto»: c’era scritto così nei dépliant informativi e nella didascalia descrittiva del sito. Non era proprio a due passi da tutto, però non era difficile da lì raggiungere il centro storico e le principali attrazioni museali della città; a pochi minuti di camminata dal castello della Zisa, a pochi minuti di taxi dalla cattedrale e dal palazzo reale, a pochi minuti dalle vie più centrali e nobili della città. Insomma, l’ideale per una vacanza culturale nella capitale del mediterraneo. Solo che ultimamente quel B&B era diventato l’approdo discreto di scappatelle extraconiugali. La pandemia aveva infatti spinto l’azienda a una specie di riconversione. A farne le spese era stata la moglie annoiata dell’eclettico amico mio d’infanzia, il quale non gradiva che la moglie diventasse anche la testimone di corna o la ruffiana di sesso sfrenato. Era uno all’antica, Pino; anche la sua consorte, Cinzia, era all’antica, una tutta casa e chiesa. Va bene trasformare il B&B in un’alcova a noleggio, ma nessuno della famiglia Leotta, molto stimata in zona, si sarebbe immischiata in quella cosa lì.
E Pino pensò a me. Sapeva della mia situazione e ritenne di farmi un favore e farsene uno a sua volta. Un lavoro a provvigione, il 25% degli incassi e avrei dovuto occuparmi di tutto: prenotazioni, colazione, check-in e check-out. Avrei dovuto anche gestire la donna delle pulizie (ironia della sorte), chiamarla ogni volta che gli ospiti lasciassero la stanza e prima che la stessa venisse nuovamente occupata, controllarne l’operato, pagarla, impazzire appresso alle sue assenze ingiustificate e (se andava bene) comunicate all’ultimo momento, eccetera eccetera. Accettai il lavoro di buon grado, l’idea della provvigione mi faceva sentire un po’ meno impiegatuccio sfigato e un po’ più intraprendente.
La prima settimana fu dura, anche perché non ebbi il benché minimo aiuto né da parte di Pino (troppo impegnato nella sua principale attività, due centri scommesse) né dalla castissima moglie, che si teneva ben lontana dall’attività scabrosa, nemmeno fosse il bordello di vicolo Marotta. Ce la feci, certo non senza imprevisti (come quando non trovai la doppia chiave della stanza n 3, che avrei dovuto lasciare sul desk perché la ragazza la prendesse senza esser vista e, entrando, trovasse il suo lui già in stanza); non senza lamentele (uno dei rari ospiti solitari, a Palermo per lavoro, imprecava per un accoppiamento troppo rumoroso); e non senza dover affrontare a muso duro la prima buca di Anita. Ce la feci, e cominciò pure a piacermi. Ero indipendente, ero padrone del mio tempo e delle mie azioni, guadagnavo bene e avevo quasi del tutto risolto il problema dell’indipendenza abitativa. Visto che una delle sei stanze rimaneva quasi sempre vacante, praticamente mi trasferii lì, portandovi gran parte del mio guardaroba, i miei libri e il computer, perché a scrivere non rinunciavo: hai visto mai che ti divento uno scrittore famoso, mi dicevo. Dissi a Pino che lo facevo per essere più presente, ma era una mezza scusa.
Quella sistemazione era l’ideale per me e piaceva anche a Ciccio, al quale avevo raccontato che la struttura fosse mia. Andava bene, avevo il mio microcosmo, mi sentivo nascosto al mondo e ciò mi faceva entrare in totale empatia con le coppiette che ospitavo, soprattutto con quegli uomini che al momento di pagare mi lasciavano le dieci\venti euro in più, per assicurarsi un silenzio che in realtà già avevano garantito. Dopo il primo mese decisi anche di liquidare Anita. Era una ragazza di colore, non so da dove provenisse, so solo che aveva la lamentela incorporata, la sveglia malfunzionante, troppi figli da accudire e non era neppure brava a fare il suo lavoro. Volevo cacciarla via, avrei provveduto personalmente alla pulizia delle stanze, del resto ero un mancato uomo delle pulizie, no? E poi ci avrei tirato su un altro mezzo stipendio. Volevo guadagnare il più possibile e sbattere i soldi in faccia a quella stronza di Angela. Così, prendendo al balzo la palla di una lagnanza per lo strato di polvere sotto il letto, la rimproverai con un tono che l’avrebbe certamente indotta a un’accesa discussione. La cacciai, potevo farlo. Pino era contento del mio operato e dei soldi che ogni settimana gli consegnavo. All’inizio veniva lui a prenderli, poi lasciò che se ne occupasse la moglie. Dovevo solo avvisarla che non ci fossero ospiti.
Quando venne la prima volta, Cinzia rimase colpita dalla mia disinvoltura, era trascorso poco tempo, eppure mi muovevo come fossi lì da sempre. Si presentò agghindata di tutto punto, stile Maronna à Miccè, cioè con tanto di quell’oro addosso da far concorrenza, appunto, alla Madonna della Mercede, cui tutto il quartiere del Capo (Cinzia inclusa) era devoto. “Ti sei sistemato bene!”, notò con l’aria furbesca dipinta in faccia. “Faccio del mio meglio, tuo marito mi ha dato un’opportunità e non voglio sprecarla”. Non c’eravamo mai piaciuti fino in fondo, l’isolamento di quella mattina fece riemergere un’antipatia sempre sottaciuta, quasi inconscia. Cominciò a gironzolare per le stanze vuote, io rimasi dietro il banco della reception, fingendo di lavorare al computer, mentre in realtà contavo, a uno a uno, i suoi passi. Sapevo essere, il suo, un modo per marcare il territorio, per ricordarmi che era tutta roba sua, che era lei la padrona. E che io ero solo un impiegato. Si soffermò nella stanza dove m’ero sistemato in pianta stabile, ma non disse nulla, non ce n’era bisogno. Poi se ne andò, con quel sopracciglio maledettamente inarcato e l’aria soddisfatta. “Buon lavoro, Giuseppe”. “Buona giornata a te, Cinzia”, le risposi con gli occhi sul computer, fintamente indaffarato. Rimasi solo per tutta la mattinata, aspettavo una coppia per il pomeriggio. E per tutta la mattinata rimasi turbato, perché sapevo che quelle visite di riscossione sarebbero divenute una consuetudine settimanale e il suo atteggiamento non mi era affatto piaciuto, e non soltanto perché era Cinzia e s’era comportata esattamente da Cinzia, cioè una pidocchiosa malvagia, finta e arrogante. Non lo so, ma non mi era piaciuto. Magari mi stavo trasformando in un misogino che proiettava sul sesso femminile l’odio per l’ex moglie.

Macché misogino! Semplicemente eravamo, io e quello femminile, due pianteti che al momento ruotavano intorno a due soli opposti. Tutto qui. Non andavo a letto con una donna da diverso tempo e preferisco omettere il tipo di sesso che ogni tanto mi concedevo. Non dipendeva dalla mia volontà, anzi, mi mancava l’odore di due vere mammelle sulla faccia e mi mancava tutto il resto. Semplicemente, non c’erano state occasioni e non me le andavo a cercare. Del resto, uscivo poco, non frequentavo nessuno. La mia ultima fiamma, Ottavia, era stata un bollente rapporto extraconiugale su cui avevo gettato un secchio d’acqua fredda in piena guerra fredda con Angela. Durante la nostra relazione, Ottavia non aveva aspettato altro che il crollo definitivo del mio matrimonio, solo che non aveva saputo aspettare abbastanza. Mentre io stavo cercando di salvare la mia famiglia, lei si andava facendo sempre più insistente, probabilmente incoraggiata proprio dai continui litigi con Angela, di cui ingenuamente le avevo sempre fatto un dettagliato resoconto. Voleva vedermi, voleva stare con me, voleva me e io, durante una delle sue infinite requisitorie uterine, l’avevo mandata bruscamente a fare in culo francobollandola come un’isterica rompiballe. Nonostante fossero trascorsi mesi dalla spedizione a quel paese, forse, chiamandola, avrei potuto riaverla, però desistevo. Ottavia non era comunque l’unico triangolino sul mio radar. Nella rubrica del mio cellulare non mancavano fiamme e fiammelle, alcune anche da poter riaccendere; mancava a me il coraggio, temevo per il due di picche. Avevo sempre avuto un discreto successo con l’altro sesso, fin da ragazzo, ma adesso si trattava di rispolverare donne con cui avevo avuto a che fare da adulto, cioè nel pieno delle mie funzioni di uomo in carriera e inconsciamente attribuivo a questo, più che al mio charme, la capacità di collezionare squallide avventure fuoriporta; un “No” sarebbe risuonato sul mio labile stato d’animo come l’ennesimo echeggiare dell’odioso verdetto: non sei più nessuno. Quindi, al momento era meglio darsi all’autoerotismo. E concentrarsi sulle cose da fare.

Le cose comunque stavano decisamente migliorando. Angela non mi stava più col fiato sul collo, mio padre e mia madre mi trattavano senza più il filtro della compassione, quella che vela di zucchero impalpabile ogni parola, ogni gesto, ogni espressione. Vedevo mio figlio più spesso, a dire il vero quasi ogni giorno. Al calcetto lo avevo sempre portato io, nonostante l’idiosincrasia, neppure troppo dissimulata, verso i genitori dei futuri Messi che se la prendevano col malcapitato mister, reo di avercela sempre e solo con la stellina di casa; in compenso, mi divertivo come un matto a vedere il mio Ciccio sentirsi Messi e sognare di poterci un giorno diventare. Adesso provvedevo io anche ad accompagnarlo a scuola, evitandogli così la follia delle mattinate concitate della mia ex moglie, durissima ad alzarsi e arraggiatissima nel suo lottare contra ogni maledetto secondo che la separava dalla fatidica beggiata in ufficio.
Cosa vuol dire arraggiatissima? Immaginate un cane rabbioso in gabbia, che morde furiosamente l’inferriata per uscirne e abbaia. Ecco: la gabbia è l’orologio che fa tic tac nella testa di un’impiegata d’ufficio, madre di un bambino da accompagnare a scuola; l’inferriata sono i minuti di ritardo che probabilmente accumulerà (“se il bambino non si sbriga con sto latte, con lo zaino, a pettinarsi … dai, sbrigati!”), minuti che si disegneranno, a uno a uno, sulle espressioni caleidoscopiche del capo-ufficio, minuti che dovrà recuperare fottendole parte del pomeriggio; i morsi furiosi sono il ticchettio nervoso dei suoi passi per la casa; il cane è la mia ex moglie e altroché se abbaiava.
Ciccio cominciava ad abituarsi alla separazione, era più sereno e gli piaceva da matti stare al B&B, ai bambini le novità piacciono sempre. Gli avevo predisposto uno spazio tutto suo nella camera numero 4, che ormai non affittavo più a nessuno, ormai era casa mia. Era già capitato un paio di volte che il bambino dormisse lì durante la settimana e non solo dal venerdì alla domenica. Angela non protestava, non avrebbe potuto, Ciccio respirava dai miei polmoni e comunque a lei non dispiaceva. Amava suo figlio, era una mamma premurosa. Ma era una mamma di ultima generazione, cioè ammorbata da quell’insana voglia di dedicarsi un po’ a sé stessa, di avere i suoi spazi, “l’aperitivo con le amiche è sacrosanto”, “il secondo? Anche no” e stronzate simili.
Ad ogni modo, andava bene così. Quella parte di lei, di donna moderna o eterna ragazzina (punti di vista), che sempre avevo detestato, adesso era il mastice migliore tra me e mio figlio. Quando stavo con lui non mi mancava niente ed ero felice nel constatare che dentro quella camera di B&B, con la console di gaming e tutte le sue cose, non mancasse niente a lui. Madonna Cinzia, dopo la sua consueta perlustrazione, un giorno mi chiese conto e ragione di quella sistemazione che aveva manifestamente perso ogni parvenza di provvisorietà, io farfugliai qualcosa che doveva essere una spiegazione, ma sapevo che sarebbe tornata alla carica. Non me ne preoccupavo, le attestazioni di compiacimento di suo marito mi bastavano. E a Pino bastavano i conti, sempre in attivo; e poi saranno state decine le volte in cui m’aveva raccomandato di non far caso a sua moglie. Potevo fare quello che volevo, o quasi. Madonna Cinzia non avrebbe mollato l’osso (a proposito di cani), io ero pronto.

“Sì, pronto …”.
Squillò il telefono, risposi di scatto. L’orario era insolito, le sette di sera, e quasi nessuno chiamava al fisso. La stragrande maggioranza delle prenotazioni, quelle clandestine, avveniva perlopiù via WhatsApp, da un secondo numero e nome falso ovviamente. Del resto, per quel tipo di soggiorno non chiedevamo documenti, ci bastava solo che arrivassero, pagassero e poi se ne andassero. E uno come me, che quasi evitava di alzare lo sguardo quando arrivava qualcuno, era perfetto per un posto come quello. Ero un fantasma muto, sordo e cieco ed ogni mio respiro, ogni battito di ciglia tra quelle mura lo sottolineava. Per questo la struttura aumentava il suo volume d’affari, in città s’era sparsa la voce di un posto pulito, elegante e discretissimo. Diversa ovviamente era la procedura, e di conseguenza il mio atteggiamento, per gli ospiti dell’altro tipo, ma quella era ormai quasi una copertura, anche se con l’approssimarsi dell’Estate le richieste di soggiorno vacanziero aumentavano e di tanto in tanto le accettavamo. Per copertura le accettavamo, pur perdendoci: niente servizi extra e stesso prezzo per un soggiorno intero, pernotto e prima colazione, che altrimenti sarebbe durato due o tre ore al massimo; in più, la seccatura delle recensioni negative, che dovevo arginare pagando Filippo, un nerd di 13 anni, mezzo genio e mezzo secchione.
“É il bed and breakfast A due passi da tutto?”.
La voce dall’altro capo del telefono era sostenuta, aveva un nonsoché di ufficiale. Non mi piacque. “Sì. Chi parla?”.
“Lei è il signor Leotta?”.
“No, sono un impiegato del B&B. Ma chi parla?”.
“Guardia di Finanza. Lei è il signor?”, mi chiese perentorio. Deglutii.
“Giuseppe Mend …”.
“… Dove possiamo trovare Leotta Giuseppe? Al cellulare non risponde e neppure la moglie ...”. Deglutii ancora, non sapevo cosa rispondere. La Guardia di Finanza che cerca un imprenditore delle scommesse (e, temetti, d’un B&B che fa molto nero) è una cosa abbastanza prevedibile, una ricerca così insistita e urgente no. E poi noi palermitani una certa connaturata propensione alla reticenza, specie se al cospetto di una divisa, ce l’abbiamo; non si tratta di omertà e neppure di cultura delinquenziale, tantomeno di avversione agli sbirri, non per me almeno; è più un modo d’essere, una spira del nostro DNA e non possiamo farci niente.
“Guardi - risposi, incerto - non lo so, qui non viene mai … non so che dirle”.
Dall’altro capo del telefono si udì un sospiro, ma se avesse detto “ne ero certo” avrebbe avuto lo stesso suono.
“Va bene, signor Mendola. Se lo vede o sente, riferisca che lo stiamo cercando”.
“Senz’altro, buonasera”.
Il finanziere mi chiuse letteralmente il telefono in faccia, lasciandomi addosso un senso di smarrimento che proprio non riuscivo a inquadrare. Temevo per il mio amico? O per me? Non avevo riflettuto, fino a quel momento, su quanto la mia sorte fosse ormai legata a quella di Pino e di quanto l’amicizia fosse un concetto sopravvalutato. Aspettai che gli ultimi ospiti di giornata finissero di consumare un pomeriggio di sesso e costosissimo champagne, che avevo provveduto a far trovare nella stanza numero 1 in un suaglass pieno di ghiaccio (avevano chiesto anche della coca, ma niente droghe nel mio B&B). Quelli della stanza numero 3 erano un’innocua famigliola in vacanza, padre, madre e due ragazzini: erano usciti dopo pranzo, sarebbero tornati verso cena o anche dopo. Quella sera avevo la pizza con gli amici del padel, non ci andai.
Andai a casa di Pino, invece. Dovevo riferire e soprattutto dovevo capire.  
Sarebbe stata una lunga serata. Lunghissima... fino all’alba.

 

continua ...