Eh no, Sinner! La Nazionale è sacra è tu hai commesso un’eresia

Dire no all’Italia vuol dire rinnegare la tua Patria (lo è?), i tuoi colori, la tua gente. Vuol dire non avere alcun senso di appartenenza, come un agnostico senza fede, un apolide senza Stato, un senzatetto senza dimora (come un altoatesino annesso?). Vuol dire sbattere la porta in faccia a quella Federazione che ti ha fatto crescere, ti ha performato, ha creduto in te. Vuol dire mancare di rispetto agli altri “compagni” azzurri. Vuol dire non avere senso di responsabilità verso un movimento sportivo, che, anche grazie a te, è cresciuto, ma che deve mantenersi a questi standard e, per farlo, abbisogna di una Nazionale che vinca in giro per il mondo.
Sì, perché le vittorie danno credibilità. Le vittorie spargono semi d’entusiasmo sul fertile terreno delle future generazioni. Le vittorie qualificano lo sport di un Paese, rendendolo sempre più organizzato, sempre più strutturato. Le vittorie qualificano un Paese.  E sono il sale che insaporisce il palato di noi tifosi.

Noi, Sinner. Poi ci siamo noi, tifosi Italiani. 

Vedi, i tifosi siamo una razza a parte, una specie particolarissima, per nulla in via d’estinzione (sebbene mettiate a dura prova la nostra resistenza, con le vostre intemperanze da campioni viziati). Siamo litigiosi, focosi, spesso sommari, ci dividiamo su tutto, soffriamo di campanilismo, vediamo le cose a modo nostro, andiamo a naso e di pancia e un po’ (ma soltanto un po’) di testa, scommettiamo, siamo super competenti, abbiamo sempre ragione, litighiamo sui social, questioniamo al bar, ci nutriamo di disquisizioni e teorie. Ma quando scende in campo la Nazionale, di tennis piuttosto che di calcio, piuttosto che di pallavolo, piuttosto che di basket, ci mettiamo là, sugli spalti o davanti alla tv e, di botto, come per magia, ci trasformiamo in un popolo unito che tifa per l’azzurro e si riscopre patriottico. 
Tifare per l’azzurro non è una cosa da poco, non è mai banale: forse è questo che tu non hai ben compreso, altrimenti non diresti no alla Nazionale; non lo comprendi tu, come non lo comprendono gli altri atleti che, ciclicamente, si macchiano di una simile onta. 
Tifare per l’azzurro non è solo godere di una vittoria sull’avversario e non è l’estemporanea soddisfazione per il fatto che un nostro connazionale ce l’abbia fatta. 

È di più. 

È avvertire un brivido lungo la schiena quando le note di Mameli ci accomunano in univoche sillabe d’orgoglio.
È sentirci tutti dalla stessa parte, senza che “né soldi, né donne, né politica” possano dividerci. 
È scendere in campo anche noi, al fianco di chi sta lottando, non per un obiettivo personale, ma per il prestigio di una Nazione.
Tifare per l’azzurro è camminare per un sentiero, lungo 3 set o 90 minuti o 4 periodi, sperando di arrivare fino in fondo, perché laggiù vinciamo tutti, vince l’Italia.
La nostra Italia. Nostra, Sinner. Anche la tua. La nostra Patria.
Sai cosa vuol dire questo termine? Sai cos’è il patriottismo?
Anche nello sport ne abbiamo un gran bisogno, come nelle cose dello Stato. Abbiamo bisogno che esso non si disperda tra le maglie, invisibili eppur fortissime, del relativismo culturale che ammorba la nostra società, specie nelle sue più giovani leve. Leve sociali, leve culturali, leve sportive: fa tutto parte del medesimo tessuto connettivo, sono tutte articolazioni d’un solo grande Paese, è un’unica tela dal tricolore un po’ troppo sbiadito. 

E tu, col tuo no, te lo sei messo sotto i tacchi, quel tricolore.

Ma forse non è tutta colpa tua, forse sei solo figlio dei tempi. 

Il patriottismo è ormai solo una parola, svuotata, svilita e sfruttata, anche. Utilizzata da chi ne fa terreno di conquista d’un sentiment ideologico ed estremamente identitario, che distingue i territori dai suoli, la sicurezza dal caos, i muri dai ponti, la preservazione dall’integrazione; e produce consenso. Per altri, invece, esso è pura retorica, oppio per nostalgici e revanscisti, marmellata di frasi fatte su cui affondano dita puntate. Poi c’è la maggior parte della gente, a cui non frega niente di identità e storia e che sorride al solo udire questa parola: se provi a dare a un tuo coetaneo del “patriota”, è molto probabile che vi ci facciate sopra una mezza risata, infarcita d’incomprensione, superficialità e miscredenza.

Tutto sbagliato, tutto relativizzato, tutto dato in pasto al qualunquismo imperante. 

Oggi purtroppo i “valori” sono ciò che si comunica, ciò che si consuma e ciò che è edonisticamente utile. È una deriva iper-individualista, in cui condividere è ormai diventato il mero “spolliciare” su un cellulare e in cui comunità sono solo microcosmi interconnessi da asettiche chat di gruppo; e dove tutti sanno tutto e parlano di tutto. 

Forse è proprio qui, in questo “mare magnum d’incoscienza civica” che s’è disperso il vero significato del patriottismo; forse è qui che il tuo diniego affonda le sue radici (o le affonda altrove? Dalle tue parti?).

Ma il patriottismo è tutt’altra cosa, molto più nobile. Ed è attuale. É assolutamente necessario che esso sia attuale, in un momento storico in cui l’Europa è attraversata da forti e pericolose spinte nazionaliste, oltrechè lambita da una guerra che non accenna a smettere, e in cui da contraltare interno fa un sentimento massificato di opposizione al Sistema e di sfiducia nelle istituzioni.

Il patriottismo è appartenenza a una storia, a delle radici, a una cultura, a delle origini.

È cantare l’inno perché ogni singolo suo verso ti fa vibrare le corde dell’anima. È sventolare il tricolore con la fierezza di chi ostenta le proprie origini, con l’enfasi di chi non potrebbe fare altrimenti, non potrebbe vivere da nessun’altra parte al mondo. È riconoscersi nelle tradizioni, rispecchiarsi nelle quotidianità, anche le più banali, è vivere in Italia, vivere Italia, vivere per l’Italia.

Come te, Sinner. Che vivi in Italia, che sei un italiano … con la racchetta in mano (parafrasando il compianto Cutugno), ma non un italiano vero. E già! Proprio tu, altoatesino, hai perso un’occasione per opporti alla vulgata secondo cui dalle tue parti vi sentite un po’ meno italiani degli altri. O non è solo una vulgata? Beh, voce di popolo voce di Dio e tu, col tuo no, a questa voce hai dato eco.

Sia chiaro: per me, tutti i tuoi conterranei, te compreso, sono miei compatrioti e per voi faccio il tifo, con voi condivido la stessa e identica territorialità, siamo tutti fratelli d’Italia. E non voglio certo accomunare tutti i tuoi corregionali al diniego tuo. Che è tuo! 

Il problema è ciò che senti tu. Tu non sei (o non ti sei comportato da) italiano vero. Non lo sei, altrimenti non avresti rifiutato la Nazionale e non è neppure la prima volta e e neppure la seconda e neppure la terza. 
Ma questa volta hai oltrepassato il limite, perché ci sono rifiuti più rifiuti degli altri. Questo tuo rifiuto si porta appresso la puzza dell’indifferenza anche alla storia: giocavamo contro il Cile, quello stesso Cile contro cui, nel 1976, ci giocammo la finale e la dignità d’Italiani; quando mezzo Paese non voleva che i nostri andassero, quando Augusto Pinochet usava quello stesso luogo (il complesso dello Stadio nazionale) come campo di concentramento per gli oppositori politici, quando Adriano Panatta indossò con coraggio una maglia rossa, quando lui, Bertolucci, Barazzutti e Zugarelli trionfarono. 

Tu non eri neanche nato, ma erano tempi difficili quelli, sai?  Il dissenso costava molto più di quanto non costi adesso. E lo si praticava non certo dalla comfort - zone di un tweet: per farlo, dovevi scendere in piazza  o scendere su un campo da tennis. 

Come fecero i nostri ragazzi: campionissimi, che in Cile rappresentarono la parte migliore del nostro Paese. Quella che non ha paura, che non si gira dall’altra parte e che fa il suo dovere, senza accondiscendere, senza abbozzare, ma con la schiena dritta e il petto infuori. Avevano una finale da giocare e se non fossero andati l’Italia avrebbe perso più che una coppa, avrebbe abbassato il capo al cospetto del regime, perché “il Bene trionfa quando affronta il Male e lo sopraffà, non quando lo evita per pretesa superiorità morale”. Non sono parole mie, ma di papa Ratzinger.

Ecco, Sinner! Questo è giocare per la tua Nazionale. Non è una partita e basta, è molto di più. È impersonare una Nazione, incarnarne lo spirito, i valori, la storia, un popolo intero.
Quei valori che sono stagliati nella nostra Costituzione. La Carta che ti dà la sacrosanta libertà di dire quel no. E che dà a me la libertà di manifestarti, qui, tutta la mia contrarietà.

Ma sì, che ti frega? Del resto, di cosa ti sto parlando? Patriottismo, Italia, appartenenza, orgoglio, Costituzione … Sei nato e cresciuto dentro i circoli, giocando probabilmente a tennis per la maggior parte delle tue giornate, il mondo là fuori non è altro che un pianeta lontano. Lontano dai tuo ace, lontano dai tuoi sogni, dai tuoi allenamenti, dai tuoi obbiettivi, da tutto quello che è stata la tua vita. 

Ma oggi sei un campione planetario (di questo mondo!) e avevi una grande responsabilità, rappresentare il tuo Paese, a cui ti sei sottratto. Imperdonabile! 

Mi sia perdonato l’accostamento, ma è un po’ come quando i calciatori non cantavano l’inno, prima della partita: sapevamo che avrebbero dato tutto per quella maglia, ma mancava qualcosa, era come se fossero semplicemente degli atleti prestati alla causa di un risultato. Poi arrivò Carlo Azeglio Ciampi, Presidente della Repubblica, a impartire una magistrale lezione di educazione e coscienza civica: chiese, garbatamente pretese, che i calciatori cantassero l’inno. “Perché - disse - quelle non sono solo patite di calcio, sono prove che un’intera Nazione deve affrontare”.

Ecco cos’è il tuo rifiuto. Quelle non sono solo partite di tennis! 

Ad ogni modo, sai cosa penso? Che probabilmente sto tediando i quattro gatti che avranno la pazienza di leggere queste righe, ricolme di concetti che forse non c’entrano un bel niente con questa storia. Sia chiaro, lo ribadisco: lo sport col patriottismo, Nazione, Costituzione e simili c’entra, eccome, quando a scendere in campo è la Nazionale. È solo che, mentre sto qui, a scrivere fiumi di “pensieri arrovellanti”, mi rendo conto che la questione sia ben più spicciola, che il tuo rifiuto abbia una genesi più terra terra, sia cioè riconducibile a quel difetto che molti campioni (non tutti) hanno: la mancanza di memoria, che diventa ingratitudine.

Se non fossi numero 7 del mondo e non avessi in programma di vincere slam e masters, ti comporteresti alla stessa maniera con la tua Nazionale? 

Se sei quello che sei, lo devi a madre natura, certo, ma lo devi anche al tuo Paese,che, nei suoi interpreti e nelle sue strutture, ti ha formato, ti ha allenato, ti ha educato, ti ha tirato sù, insomma.

La memoria. La riconoscenza. 

Magari tra le siepi e i campi e le piscine di quel circolo, tra una sgambata e l’altra, qualcuno avrebbe dovuto raccontarti la storia di Androclo e il leone. Te la racconto io, può insegnarti tanto; e non so se te l’hanno spiegato, ma nessuno smette mai d’imparare, neppure un super campione, ricco ed osannato… lo diceva Socrate, me lo diceva mio nonno. 

È mitologia romana.

Androclo era uno schiavo fuggito da Forum Cornelii (l’odierna Imola). Rifugiatosi in una caverna, in Africa, venne a contatto con un leone. Questi, sofferente ad una zampa per causa di una spina di rovo, trovò sollievo nelle cure dello schiavo, che riuscì ad estrarre il corpo estraneo dall'arto ferito. Vissero insieme, aiutandosi a vicenda, fino a che Androclo, stanco della vita selvaggia, si fece catturare dai soldati romani, venendo rimpatriato e condannato al supplizio ad bestias. Fatto entrare nell'arena, si trovò di fronte il suo amico leone, che era stato catturato a sua volta. Il felino riconobbe Androclo e non gli fece alcun male, anzi, gli si prostrò ai piedi leccandogli le mani, in segno di riconoscenza. L'imperatore graziò Androclo.

 

Scegli tu, Sinner, se essere lo schiavo o il leone. C’è sempre tempo per affrancarti dal tuo errore e, ripeto, non si finisce mai d’imparare, anche l’arte della riconoscenza. 
Noi aspettiamo il tuo ravvedimento, ma fino a quel momento sappi che quando scenderai nelle tue arene, ci sarà sempre una parte della tua coscienza che ti ruggirà dentro, cercando di ricordarti che prima di essere Sinner, sei Jannik, un ragazzo italiano che ha imparato a giocare a Tennis sognando la coppa Davis.

Perché l’hai sognata l’Insalatiera, no? Tutti la sognano. Quale ragazzino che gioca al pallone non sogna di vincere il mondiale? Quale pilota in erba tra le piste di go-kart non sogna di trionfare in un Gran Premio con la Ferrari? Quale giovinetta che fa ginnastica artistica non trasogna di vincere l’oro e salire sul podio col tricolore sul petto? 

Quale ragione possa mai esserci dietro il diniego alla propria Nazionale? Proprio non lo capisco.

Te ne racconto un’altra, di storia. Questa è una storia vera, recentissima. È la storia di un dream team, i ragazzi della Nazionale italiana di basket con Sindrome d Down, che pochi giorni fa si sono confermati campioni d'Europa. Nella finale di Padova, dopo un torneo che li ha visti imbattuti, la squadra guidata da coach Giuliano Bufacchi si è imposta nettamente contro la Finlandia, con il punteggio di 32-18.  La formazione: Stefano Barollo, Stefano Borgato, Alex Cesca, Andrea Durante, Raniero De Fusco, Alessandro Greco, Francesco Leocata e Davide Paulis. Allenatore Giuliano Bufacchi, assistenti Mauro Dessì e Francesca D'Erasmo. 

Poche volte, come in queste occasioni, adoriamo lo sport e le sue infinite strade. Poche volte, come questa volta, ci siamo sentiti orgogliosi di essere italiani. Italiani veri! 

Al prossimo no, Sinner, pensa a loro, ad ognuno di loro. E mortificati. Almeno un po’, soltanto un po’.

E mortificati nel considerare che nel box azzurro, ieri, sedeva un altro top player, Matteo Berrettini: infortunato, indisponibile, ma presente, per dare il suo supporto alla squadra, per essere squadra. Perché quella era una partita da dentro o fuori e la squadra aveva bisogno di tutta la sua forza possibile e immaginabile. La vera forza d’una squadra è l’unione. Quella fa più punti di una volée, fa più vittorie di un campione solitario.

Già, un campione solitario: è questa l’immagine che ora ho di te. 
Da ieri ancor più solitario. 

Ti do una brutta notizia, Sinner: l’Italia ce l’ha fatta, anche senza di te; ed è, per questo, una vittoria che, scusa tanto se te lo dico, ha un sapore ancora più dolce. Una nave deve comunque giungere in porto, ma se lo fa nonostante l’ammutinamento del suo marinaio migliore, quell’approdo è più piacevole, sa di rivincita e lezione impartita. 

Grazie Matteo Arnaldi. Grazie Lorenzo Sonego. Grazie Lorenzo Musetti. 3-0 e cileni a casa. 

E grazie lo stesso, Sinner. Abbiamo fatto da noi. Del resto, tutti siamo utili e nessuno è indispensabile… questa, Socrate, non mi pare l’abbia detta, ma mio nonno sì.