La storia del doping è vecchia quanto lo sport: ripercorrerla, riviverla, serve, spero, a tenere presente quanto sia devastante questa pratica, quanti danni faccia alla salute e allo sport; e pure quanto, a volte, sia stata strumento di prevaricazioni, vessazioni, errori più o meno involontari, macchinazioni di sistema più o meno sospette. 

Il termine
Partiamo dal nome. 
Sono varie le possibili origini della parola doping. Una è il lemma doop, bevanda alcolica usata come stimolante nelle danze cerimoniali nel XVIII secolo nel sud dell'Africa. Un'altra teoria è che il termine derivi dall'olandese doops (una salsa densa), che entrò nello slang americano per indicare la bevanda con la quale i rapinatori drogavano le vittime, mescolando tabacco e semi della Datura stramonium o erba del diavolo o stramonio, che contiene alcuni alcaloidi del tropano e causa sedazione, allucinazioni e confusione mentale (è il veleno usato da Giulietta e Romeo e  forse anche quello somministrato da Circe a Ulisse e i suoi compagni nell'Odissea).

Fino al 1889 la parola dope era usata relativamente alla preparazione di un prodotto viscoso e denso di oppio da fumare e durante gli anni novanta del XIX secolo allargò il significato fino ad indicare qualsiasi sostanza narcotico-stupefacente.

Nel XX secolo “dope” veniva anche riferito alla preparazione di droghe destinate a migliorare la prestazione dei cavalli da corsa.

Il termine "doping" si diffuse ai primi del 900 nei cinodromi e negli ippodromi, per indicare la stimolazione illecita degli animali durante le gare. Il termine venne poi esteso anche in campo umano e precisamente il Doping in campo sportivo equivarrebbe a "uso di sostanze illecite"


La storia
Il doping è davvero vecchio quanto lo sport. 

Già nell’antichissima mitologia norvegese troviamo tracce di sostanziale propensione all’espediente per primeggiare: si tramanda che i leggendari Berserkers (i guerrieri ispirati da Odino) aumentassero la loro forza combattiva usando la bufoteina, un farmaco ottenuto dal fungo Amanita muscaria, i cui effetti duravano per un giorno ed erano seguiti da un forte senso di stanchezza e di debolezza.

È documentato invece che nella Grecia classica, culla della democrazia e delle Olimpiadi, esistevano modi per gareggiare in condizioni di vantaggio rispetto agli altri concorrenti e, come oggi, venivano puniti con la squalifica (e non solo). Del resto, in una società dai valori competitivi, qual era quella delle poleis, la vittoria era la prova del valore fisico e sociale. Nulla di più lontano dall'etica greca era l'idea decoubertiana: l'importante, per i greci, non era affatto partecipare, era vincere, ma farlo correttamente. Costituivano “doping", più che sostanze da assumere, espedienti da attuare: alla base, però, c'era lo stesso principio antisportivo della vittoria ottenuta con l’inganno. Vittoria che era di vitale importanza: chi non la riportava provava una tale vergogna, scrive Pindaro, da tornare a casa «per obliqui sentieri nascosti»; e in quest'ottica era indispensabile garantire che la gara fosse vinta da chi era veramente il migliore. Come dimostra quel che accadde quando, nel 720 a.C., durante la quindicesima Olimpiade, la tunica di Orsippo di Megara si aprì in piena  corsa e questi, più libero nei movimenti degli altri concorrenti, vinse la gara; all'Olimpiade seguente, racconta Pausania, tutti i corridori, per dileggio, si presentarono nudi.

Ma vi erano atleti che, a differenza di Orsippo, i vantaggi se li procuravano volontariamente. Bisogna tener conto, tuttavia, del fatto che a quei tempi magia, dei e uomini s'intersecavano facilmente e questo valeva anche per lo sport e tutto ciò che lo concerneva. Nella «Teogonia» di Esiodo Ecate, la dea della magia è la dea che concede la vittoria agli atleti, dunque, se un atleta ingeriva una sostanza che poteva migliorare le sue prestazioni (infusi a base di erbe o funghi), non aveva violato le regole: a suggerirglielo poteva essere stato un dio; a meno che non si fosse trattato di semi di sesamo, che erano considerate sostanze assolutamente proibite e comportavano, perciò, la squalifica, se non addirittura pene corporali.

Ippocrate, dal canto suo, non faceva mistero delle sue conoscenze "al limite" e suggeriva agli atleti di bruciare funghi secchi sul loro fianco sinistro, immaginando di aumentare la loro reattività.

Ad ogni modo, medicina o dei, funghi o sesamo, è certo che il problema fosse sentito: pare che esistesse un giuramento olimpico anche a quel tempo, a cui si sottoponevano atleti e allenatori, che vietasse esplicitamente l’uso di sostanze dirette a modificare le prestazioni atletiche durante le gare.

In epoca romana, Plinio il Vecchio racconta di come i cavalli da corsa venissero “dopati” e di come i gladiatori fossero soliti bere per tre giorni un bollito di asperella (una pianta ruvida); o, peggio, come fossero soliti bere il sudore dei compagni vincitori assieme a una mistura di sabbia e sangue lasciati durante il combattimento (era un rito propiziatorio). Per non parlare di Galeno di Pergamo (130-200 D.C.), il quale descrive nei suoi scritti le sostanze che gli atleti romani assumevano per migliorare la loro prestazione: erbe ergogene, funghi e testicoli di toro (forse il primo uso al mondo di ormoni di origine animale); in palestre e ginnasi erano i Gymnastai a provvedervi. 

Il “doping” nel medioevo non esiste (o quasi) … e neppure lo sport. 

Il primo caso
Quello di Thomas Hicks, fu il primo caso accertato e non sanzionato di doping nel ‘900.
Maratoneta statunitense, si mise al collo la medaglia d’oro ai Giochi di St. Louis del 1904, dopo che per due volte, lungo il tragitto, il suo allenatore gli aveva somministrato, tramite iniezioni, del solfato di stricnina (uno stimolante particolarmente diffuso in quegli anni che oggi, in quantità maggiori, viene usato come veleno per topi). Nonostante il palese utilizzo di uno stimolante in gara, Hicks non andò incontro ad alcuna squalifica: allora non esisteva ancora l’antidoping e non si parlava di sostanze proibite.

La partita del 1954
Berna, 4 luglio 1954. È la finale del campionato del mondo, tra Germania ovest e la formidabile Ungheria. Risultato finale: 3-2 per i tedeschi. Nacquero subito mille sospetti su quella vittoria inaspettata e sulle strepitose condizioni atletiche dei vincitori, capaci di crescere agonisticamente nel finale, proprio mentre i magiari, spossati dal torneo, crollavano.

Si parlò di doping, ma gli interessati smentirono categoricamente, sdegnati. Solo che qualche settimana dopo quella finale accadde un fatto singolare: ben cinque giocatori della nazionale germanica (Fritz e Ottmar Walter, Max Morlock, Helmut Rahn e il portiere di riserva Kubsch) vennero colpiti da uno strano morbo itterico dalle pesanti conseguenze: profondamente prostrati nel fisico, furono costretti all’abbandono temporaneo dell’attività. Il dottor Loogen, medico ufficiale della spedizione germanica, asserì che il microbo dell’itterizia sarebbe stato attaccato ai giocatori tedeschi durante la loro permanenza a Spiez sul lago di Thun; il direttore dell’Hotel Belvedere, dove alloggiarono i tedeschi, protestò energicamente, chiedendosi come mai solo alcuni giocatori tedeschi e nessun cliente o impiegato dell’albergo avessero contratto l’infezione.

Inoltre, dopo quel fatidico 4 luglio i campioni non seppero più ripetersi a quei livelli.

La voce sul doping si diffuse a macchia d’olio, ma trovò anche fieri oppositori. Uno, italiano, fu Gianni Brera, che così scrisse: «Mi picco di essere stato il solo o comunque uno dei pochi a intuire che la finale avrebbe avuto un esito di origine agonistica più che tecnico-tattica. I magiari mi hanno dato ragione infilando subito i tedeschi e confermando di non sapersi difendere. I loro schemi sono pervenuti a creare non meno d’una decina di palle gol ma quasi tutte sono finite addosso al portiere Turek, che ci ha fatto la figura del campionissimo. In realtà, gli ungheresi boccheggiavano: giunti a concludere, non avevano più né lucidità né forza per indirizzare la palla. Conclusi i mondiali 1954, i tedeschi sono tutti finiti all’ospedale con l’epatite: è voce comune che si siano drogati come cavalli secondo dettami biochimici allora ignoti agli altri comuni mortali. Sta di fatto che la loro vittoria aveva sorpreso troppa gente per non sembrare anche un furto. Sullo slancio di quella, però, i tedeschi seppero mirabilmente restare alla ribalta del calcio mondiale. Andassero dunque pianino, i malevoli e gli invidiosi, a pigliarli per ladri di titoli e di onori internazionali. Qualità di vivaio e civiltà sportiva garantiscono per loro». 

E questo è in effetti un dato di fatto: nel 1954 comincia una sorta di “ciclo” che con rare eccezioni mantiene i tedeschi ai vertici del calcio mondiale fino ai giorni nostri.

Altro fiero oppositore alla teoria del doping fu Friederbert Becker, direttore della rivista “Kicker”, il quale nel marzo del 1955 scrisse: «Sull’origine dì questa epidemia, negli ambienti stranieri ostili ai tedeschi, si sono sparse voci ridicole. S’è detto che è la conseguenza dell’eccessivo uso di droghe. Se la cosa non fosse così seria, ci sarebbe da riderci sopra».

Ma il sospetto rimase, aleggiando inquietante sullo sport tedesco e sulle sue prestazioni.

Ad ogni modo, quella dei tedeschi “aiutati” dall’assunzione di droghe rimase una voce, meglio, una ridda di voci, appunto però non univoche, e nessuno fece niente. 

In Italia negli anni '60
Quasi niente. In italia, dove si era cominciato a parlare del fenomeno già proprio in quegli anni ‘50, nel luglio del 1960 era nato il Comitato italiano di studio per la lotta contro il doping, con sede nella città di Milano e in stretta collaborazione con altri centri europei, tra cui quelli inglesi e francesi.

Martedì 6 settembre, tra le pagine del Corriere della sera, apparve questo titolone: IL DROGAGGIO DEGLI ATLETI VA COMBATTUTO CON OGNI MEZZO>.

Nel 1961 fu aperto a Firenze il primo laboratorio europeo di analisi anti-doping

DDR: il primo “doping di Stato”
Anni, quelli, in cui i Paesi dell'Est sembravano imbattibili e sbandieravano spesso le strabilianti prove dei loro campioni, per dimostrare la superiorità del sistema comunista. Ma dietro c’era un Sistema-doping gestito da organi statali e sportivi. Era un vero e proprio doping di Stato. Ciò accade segnatamente nella Ddr, dove il sistema fu portato ai massimi livelli, con il cosiddetto "Piano di Stato 14.25", il più massiccio, metodico, disinvolto ed efficiente piano di doping di Stato mai attuato da una Nazione nei confronti del proprio popolo, a partire dagli adolescenti, se non dai bambini (bambine, in particolare). I massicci aiuti farmacologici ebbero gravi effetti sulla vita di decine di uomini e donne che confessarono le devastanti conseguenze fisiche su se stessi o i loro figli. 

Fu Manfred Ewald, maggior dirigente sportivo del Paese (condannato nel 2000) a ideare negli anni '60 l'organizzazione del sistema tendente a dimostrare la superiorità di una nazione e il trionfo della metodologia germanica. Ewald pianificò i trionfi olimpici della DDR tra le provette, con il fondamentale contributo di Manfred Höppner, vicedirettore del Laboratorio centrale del doping di Kreischa, vicino Dresda. Un lavoro sistematico di doping forzato di massa, meticolosamente pianificato che, tra le Olimpiadi di Monaco '72 e di Montreal '76, verrà codificato appunto nel Staatsplanthema 14.25.

La gallina dalle medaglie d’oro è il Chlorodehydromethyltestosterone: formula chimica C20H27ClO2, nome commerciale Oral-Turinabol. E’ un potentissimo steroide anabolizzante, studiato all’Istituto per la cultura fisica e lo sport di Lipsia (il famigerato Fks) e prodotto, fino a 5 tonnellate all’anno, dall’azienda di Stato Jenapharm, il cui fatturato alla fine degli anni Ottanta arriverà a superare i 250 milioni di marchi, circa 150 milioni di euro l’anno. Il Laboratorio centrale del doping di Kreischa è invece incaricato di verificare che non resti traccia dello steroide alla vigilia di competizioni ufficiali (basta interromperne la somministrazione alcuni giorni prima), bloccando eventuali atleti positivi con la scusa d'improvvisi malanni fisici e riuscendo, così, ad evitare squalifiche. La spietata Stasi, la polizia segreta, provvede a far sì che tutto avvenga senza problemi e, soprattutto, che nulla trapeli all’esterno. Come nulla, del resto, sfugge alla stessa, che controlla gli atleti 24 ore su 24, cronometrandone anche i rapporti sessuali.

Un sistema perfetto! Un sistema concepito in maniera che gli atleti venissero sistematicamente dopati senza che nessuno sapesse nulla: il segreto assoluto a tutti i livelli, dal più piccolo al più grande. Si può dire che in Germania è avvenuta una cospirazione sportiva a fini politici. Un sistema a piramide: le decisioni erano politiche e venivano date disposizioni molto accurate ai medici sportivi, agli allenatori. Tutto questo perché gli atleti e le atlete dovevano assolutamente vincere, era questo l’ordine che arrivava dall’alto. Non trapelava nulla all’esterno: a chi gareggiava veniva detto che si somministravano delle vitamine mentre invece, in realtà, veniva dopato.

Dall'atletica al nuoto, dalla ginnastica al ciclismo, in piena guerra fredda la Ddr trionfava in tutte le gare individuali nelle principali manifestazioni, con un bilancio impressionante: 160 medaglie d'oro alle Olimpiadi e 3.500 titoli internazionali tra il 1961 e l'87. Dopo la caduta del Muro, plurimedagliati del nuoto o di altri sport rivelarono però il bilancio vero, quello fatto di tumori, problemi di sterilita', aborti, devastazioni psicologiche.

La platea era vastissima, si parla di oltre 10mila atleti arrivati alle scuole di Sport di Lipsia e Dresda, gli istituti statali dove ci si nutriva di allenamenti ma soprattutto di steroidi e ormoni: "Ci allenavamo sino allo stremo, poi ci imbottivamo di pillole blu", avrebbero confessato poi decine di campioni di fronte a un tribunale incaricato di giudicare gli anni del "doping di Stato".

Il sistema fu adottato, con maggior o minor successo, in tutti i Paesi del blocco comunista, come la Cecoslovacchia. A quanto emerso, l'80% degli atleti cechi ai mondiali di atletica leggera '83, a Helsinki, avrebbe fatto uso di sostanze dopanti. L'Unione Sovietica, non era da meno: all'inizio degli anni '70 compì in gran segreto uno studio completo sugli effetti dell'uso degli anabolizzanti sugli atleti, aprendo così la via al sistematico doping di Stato. E la storia si ripeterà ai giorni nostri.

Tornando alla DDR, tristemente simbolico fu il caso di Heidi Krieger, campionessa europea nel lancio del peso e, a furia di ormoni, diventata Andreas a fine carriera.

Andreas Krieger è nato nel 1966 a Berlino e fino al 1997 era una donna, Heidi Krieger. Come Heidi Krieger aveva gareggiato agli europei di atletica del 1986 e ai Giochi olimpici del 1988, con la nazionale della Germania Est. Come molti atleti suoi connazionali, Krieger era pesantemente dopata. Aveva cominciato ad assumere steroidi fin all’età di 16 anni e in gran quantità. Soltanto nel 1986 assunse quasi 2.600 milligrammi di steroidi (una quantità spropositata). Le sostanze dopanti assunte per anni trasformarono il suo corpo e le diedero grandi problemi di salute, tanto da costringerla, nel 1997, a sottoporsi a un intervento chirurgico, cambiare sesso e diventare uomo. Lo stesso Krieger ha detto che i farmaci assunti sono stati determinanti nel definire la sua identità sessuale (oggi esiste un premio “Heidi Krieger” che viene assegnato ogni anno in Germania a chi si batte contro il doping. 

Ma lei/lui era solo una delle innumerevoli vittime: è proprio sulle giovani atlete che il doping di Stato della DDR si accanisce maggiormente; migliaia di donne, tra cui tantissime minorenni, venivano virilizzate chimicamente a loro insaputa con pillole di questo tremendo steroide anabolizzante androginico (ce le davano come fossero caramelle…”) ; e poi, problemi psichici e tentativi di suicidio, crepe nella struttura ossea, tumori, deformazioni, alterazioni metaboliche, calcificazioni cardiache, sterilità, aborti o figli nati con malformazioni, blocchi renali, danni epatici irreversibili. Si calcola che, in quegli anni, le vittime del doping di Stato della DDR siano state tra le dieci e le quindicimila: per due terzi donne, sulle quali il Turinabol produce effetti maggiori.

Le Olimpiadi del 1960: la prima morte 
Nonostante tutto, i tempi per una seria presa di coscienza del fenomeno, e della necessità di contrastarlo, cominciavano a diventare maturi. Il primo frutto cadde definitivamente dall’albero quando un atleta cadde dalla bici. E morì! È il ciclista danese Knud Enemark, morto durante i Giochi olimpici di Roma del 1960.

Il 26 agosto del 1960 a Roma era una giornata molto calda, con punte di 42 °C: si correva la 100 chilometri a squadre. Intorno a metà prova, in località Casal Palocco, Enemark perse l'equilibrio e cadde, vittima di un'apparente insolazione, fratturandosi il cranio. Subito apparso in gravi condizioni, con un ematoma frontale e febbre oltre 40 °C, venne trasportato d'urgenza all'Ospedale Sant' Eugenio di Roma, ma entrò in coma e venne dichiarato morto tre ore dopo l'incidente. L'autopsia mostrò che la causa della caduta non era stata una semplice insolazione, bensì un'intossicazione dovuta all'assunzione, per via endovenosa, di una dose troppo forte di stimolanti, aggravata chiaramente dallo sforzo fisico cui l'atleta era sottoposto durante la prova. Anche Jørgen Jørgensen, un altro dei componenti della selezione danese per la cronosquadre, trascinato nella caduta da Enemark, fu vittima "più fortunata" della presunta insolazione.

Poco dopo il decesso di Enemark, un giornale pubblicò una confessione dell'allenatore della squadra danese, che dichiarava che i suoi atleti avevano effettivamente assunto una sostanza, per la precisione un medicinale svizzero (il Ronicol), atto a migliorare la circolazione sanguigna, e che i medici della formazione sapevano di queste pratiche. Tale versione venne sostenuta anche dal presidente della Federciclismo danese, ma venne poi ritrattata dallo stesso allenatore. Dall'esame tossicologico vennero comunque trovate tracce di diversi tipi di anfetamine; ciononostante, i tre medici che diversi mesi dopo effettuarono l'autopsia refertarono che la morte era stata causata dalla frattura del cranio, conseguente al colpo di calore, senza menzionare le sostanze dopanti trovate nel suo corpo; e alla famiglia del povero ciclista fu dato un risarcimento di 1 milione di lire.

La prima squalifica 
Fu così che nel 1967 il Comitato olimpico (Cio) decide d’istituire una commissione medica e di iniziare i controlli antidoping nei successivi giochi, quelli invernali ed estivi del 1968.

E proprio a Città del Messico il CIO applica la prima squalifica per doping: lo svedese Hans LilJenwall sarà ricordato come il primo atleta nella storia dei Giochi olimpici ad essere escluso per uso di sostanze illegali. Gareggiava nel pentathlon e fu trovato con una quantità eccessiva di alcol nel corpo. Lui si giustificò dicendo che aveva bevuto due birre per stemperare la tensione, ma dovette comunque restituire la medaglia. La squalifica di LilJenwall valse il bronzo alla squadra atletica della Svezia.

La prima legge e i casi eclatanti
Nel 1971 fu emanata la prima legge italiana che puniva sia chi facesse uso di sostanze proibite, sia chi le distribuisse agli atleti. 

Nello stesso anno, il 1971, il Comitato Olimpico Internazionale pubblicò una prima lista di sostanze proibite, periodicamente poi aggiornata.

Ma tutto questo non arrestò l’ascesa delle tecniche dopanti e il ricorso ad esse: per gli sport di durata, negli anni Settanta, era stata introdotta, nello sci di fondo e nel ciclismo, l’autoemotrasfusione. Obiettivo di tale metodica era proprio l’aumento della massa eritrocitaria, quindi del trasporto di ossigeno verso i muscoli. È l’ormone della crescita (GH), il cui utilizzo si è accompagnata ad un notevole incremento di farmaci e supplementi alimentari che stimolano la produzione e il rilascio dello stesso, come certi aminoacidi e i beta-bloccanti.

E si moltiplicarono i casi e le squalifiche, alcune delle quali eclatanti, come quella di Ben Johnson, campione olimpico dei 100 metri a Seul 1988, squalificato perché trovato positivo agli steroidi.

Oppure, come quella di Diego Armando Maradona, squalificato due volte per doping: la prima volta nel 1991, quando fu trovato positivo alla cocaina e fu squalificato per due anni; la seconda volta durante i mondiali di calcio del 1994, trovato positivo all’efedrina, una sostanza stimolante.

La WADA
Fu così che nel 1999 il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) e le federazioni sportive nazionali fondarono l’Agenzia Mondiale Anti-Doping (WADA, World Anti-Doping Agency), un organismo che, insieme al CIO, finanzia e collabora con le nazioni impegnate a sviluppare dei programmi per il rilevamento e il controllo del doping atletico.

Il 10 novembre 1999 la WADA varò il Codice mondiale antidoping che fu poi accettato dalle federazioni sportive nazionali.

Pantani e Schwazer (due casi a parte)
In quello stesso anno scoppia il caso Pantani. Il ciclista italiano Marco Pantani, vincitore di un Giro d’Italia e di un Tour de France, viene escluso dal Giro del 1999 a causa di un valore di ematocrito nel sangue superiore alla soglia consentita, riscontato nei consueti controlli svolti dai medici dell'UCI. Pantani viene sospeso per 15 giorni, trovandosi costretto a lasciare la gara, in via cautelativa. Il valore dei globuli rossi era di poco superiore al margine di tolleranza dell'1%, segnalando la possibile assunzione di eritropoietina (EPO).

Pantani non sarà mai squalificato per doping, ma il propcesso mediatico s'era ormai consumato, consumandolo dentro.

Si è sempre difeso, urlando la sua buona fede. E c'è chi ha gridato a un complotto della Mala di Vallanzasca, architettato per pilotare le scommesse clandestine. La vicenda si arricchirà negli di episodi, voci, pressioni mediatiche e ritorni in pista. Ma l’episodio segnerà di fatto la fine della carriera ad altissimi livelli del Pirata, che avrà poi grandi problemi di depressione, morendo il 14 febbraio del 2004 per un’overdose di cocaina.

Questo per sottolineare come la lotta al fenomeno non sia stata sempre limpida, sempre equa e sempre giusta. Anzi, talvolta è stata strumento di distruzione di un atleta, senza possibilità di riscatto alcuno.

È quanto è accaduto ad Alex Schwazer, marciatore altoatesino, campione olimpionico, squalificato per doping fino al 2024, nonostante l'archiviazione in Italia nel 2021 del procedimento penale per doping a carico dell'atleta, che non è stata accettata dalla giustizia internazionale e dall'Agenzia mondiale antidoping.

La sua storia è un film di spionaggio internazionale o un legal-thriller, se preferite; purtroppo però, nell'uno e nell'altro caso, senza un lieto fine all’americana.

Il 6 Agosto del 2012 viene annunciata la positività dell'atleta all'eritropoietina ricombinante. Alex, in conferenza stampa, confessa in lacrime e arriva la squalifica di anni e 6 mesi; non solo, ma essendo un reato penale, arriva pure la sospensione dall’Arma dei Carabinieri e la pena di 8 mesi patteggiata con una multa di 6.000 euro; inoltre, nel 2015 il Tribunale Nazionale Antidoping del Coni, per violazione dell'articolo 2.3 delle norme sportive antidoping, gli aggiunge altri 3 mesi di squalifica, per aver eluso, all’epoca dei fatti, il prelievo dei campioni biologici in combutta con la pattinatrice Carolina Kostner (allora sua fidanzata), alla quale aveva chiesto di negare la sua presenza in casa e che per questo viene a sua volta squalificata per 1 anno e 4 mesi.

Alex resta perciò fuori dalle gare quindi fino al 29 aprile 2016.

Nell'aprile del 2015, ancora sotto squalifica, torna ad allenarsi sotto la guida del Maestro dello Sport Sandro Donati e la supervisione di uno staff di professionisti, allo scopo di partecipare ai giochi olimpici di Rio de Janeiro del 2016. Il problema è che tra lo “scomodo” Donati e la WADA (è proprio il caso di dirlo) non corre buon sangue.

Il 24 settembre del 2015 il settore tecnico della Federazione Italiana di Atletica Leggera gli permette di svolgere un test individuale di 10 km, presso il campo sportivo di Tagliacozzo (AQ), che si rivela un successo per l'atleta.

Al termine della squalifica (29 aprile 2016), esordisce in gara, nella marcia 50 km, l'8 maggio del 2016, direttamente in maglia azzurra, in occasione dei campionati del mondo a squadre di marcia, organizzati a Roma; gara che vince con il tempo di 3h39'00". Il risultato sembra spianare le porte al miracolo di partecipare alle olimpiadi di Rio de Janeiro. Macché!

Il 21 giugno del 2016 viene diffusa la notizia della positività di un campione di sue urine, prelevato il 1º gennaio (a Capodanno, sì!), risultato negativo ad una prima analisi di normale procedura. Valutazioni sul rapporto del testosterone portano a un successivo test più approfondito, che rivela la presenza nelle urine di metaboliti di testosterone, accertando quindi l'effettiva positività. I collaboratori di Schwazer si difendono affermando che il testosterone era in quantità minime e non in grado di avere effetti dopanti. Nella conferenza stampa, convocata lo stesso giorno, questa volta non ci sono lacrime e non c’è nessuna confessione, ci sono l'atleta e i suoi collaboratori che respingono le accuse di doping, definendole "false e mostruose", e annunciano una denuncia contro ignoti, perché risulterebbero delle incongruenze nel controllo antidoping.

Ma è tutto inutile: l’8 luglio del 2016 la IAAF (la Federazione internazionale dell'atletica leggera) sospende con effetto immediato e in via cautelare il marciatore azzurro, dopo che anche le controanalisi danno esito positivo al doping. Il legale di Schwazer annuncia che farà ricorso, denunciando una manipolazione esterna sul campione di urine prelevato il 1º gennaio (a Capodanno, sì). Ma Alex non si arrende e corre contro il tempo, perché deve fare ricorso e le olimpiadi iniziano il 5 agosto.

Schwazer parte lo stesso per il Brasile, senza sapere se potrà gareggiare oppure no, perché intanto le Olimpiadi sono iniziate e il verdetto sul ricorso non è ancora giunto L'8 agosto 2016 stesso, in sede olimpica a Rio de Janeiro, viene discusso il ricorso sotto l'arbitrato del TAS; due giorni dopo il ricorso viene respinto e Schwazer viene squalificato per 8 anni. La squalifica cancella anche i suoi risultati del 2016, vale a dire la vittoria nella 50 km dei campionati del mondo di marcia a squadre di Roma ed il secondo posto ottenuto nella 20 km del meeting di marcia di La Coruña.

Schwazer se ne torna in Italia, senza possibilità alcuna di coronare il sogno di gareggiare nuovamente alle Olimpiadi, inseguito a forza di sacrifici e rinunzie al limite delle umane facoltà.

Ma non si arrende. Quel campione prelevato l’1 gennaio (a Capodanno, sì!), è stato manipolato e lui ha tutta l’intenzione di dimostralo. Nel 2019 ottiene una vittoria, non in pista (l’unica che avrebbe voluto), ma in aula: nuove analisi, portate avanti nell'ambito dell'indagine penale per doping, dal perito nominato dal GIP, il comandante del RIS di Parma, Giampietro Lago, rivelano un'alta concentrazione di DNA all'interno dei campioni di urina risultati positivi, il che, secondo la difesa dell'atleta, dimostrerebbe i presunti interventi di manipolazione, finalizzati a screditare la credibilità dell’atleta e di Donati; mentre per la WADA non ci sarebbe stata alcuna stranezza, in quanto l'altoatesino avrebbe sempre avuto valori altissimi di DNA nelle urine; Lago insiste che una tale concentrazione "non corrisponde a una fisiologia umana" e che "i dati confermano quindi un'anomalia", conclusione pesantemente contestata dal consulente della WADA.

Si arriva alla decisione finale ed è, finalmente, un trionfo per Alex e per Donati: Il 3 dicembre del 2020 la Procura di Bolzano chiede l'archiviazione del procedimento penale; il 18 febbraio del 2021 il Gip del Tribunale di Bolzano dispone infine l'archiviazione del procedimento penale per "non aver commesso il fatto", ritenendo "accertato con alto grado di credibilità razionale" che i campioni di urina "siano stati alterati allo scopo di farli risultare positivi e, dunque, di ottenere la squalifica e il discredito dell’atleta come pure del suo allenatore, Sandro Donati".

La WADA, in un comunicato stampa del 2021, contesta le conclusioni riportate nelle carte processuali. Nello stesso mese i legali di Schwazer presentano richiesta di sospensione della squalifica al tribunale federale svizzero, nel tentativo di permettere all'atleta di partecipare ai Giochi Olimpici di Tokyo, ma viene incredibilmente respinta dal tribunale elvetico.

Una vicenda triste, dai molti lati oscuri, che s’intreccia con un altro clamoroso scandalo, quello dell’atletica sovietica, e che dà il segno di quanto, a volte, sia sottile il confine tra perseguitato e persecutore e di come non sempre la verità stia dalla stessa parte.

“Doping di Stato” parte II
“Rocky” aveva ragione: Ivan Drago si dopava di brutto.
Già negli anni immediatamente successivi alla Guerra fredda c’erano stati pesanti sospetti sulla gestione dello sport in Russia. Ma quello che è emerso in questo ultimo decennio è raccapricciante. 

Un sistema segreto di somministrazione di sostanze dopanti e di copertura dei risultati ai test antidoping, messo in atto da diverse infrastrutture, statale e sportive, e applicato ai loro atleti. Una prima indagine intensiva del fenomeno, pubblicata nel dicembre del 2016, stimò che nel solo periodo intercorso tra il 2011 e il 2015 più di mille sportivi russi avessero beneficiato di questo sistema. Un sistema su larga scala, che coinvolgeva a vari livelli le varie infrastrutture statali e veniva, perciò, paragonato allo Staatsplanthema 14.25, messo in atto dalla Germania Est già dalla fine degli anni '60.

Tutto è emerso grazie a un documentario della TV tedesca ARD, a firma del giornalista Hajo Seppelt, che venne mandato in onda il 3 dicembre del 2014. Esso è incentrato sulle testimonianze portate da Vitalij Stepanov, dipendente dell'Agenzia antidoping della Russia (RUSADA), e di sua moglie, la mezzofondista Julija Stepanova; in esse i coniugi rivelano una vasta e strutturata rete fatta di atleti compiacenti, allenatori senza scrupoli e dirigenti corrotti. In cambio di una percentuale dei guadagni di un atleta, infatti, i funzionari della All-Russia Athletic Federation (ARAF) fornivano sostanze vietate e, con la cooperazione di altri funzionari nella struttura di controllo antidoping, offrivano copertura ai test. Nel documentario sono incluse delle telefonate segretamente registrate dalla Stepanova con alcune sue colleghe, che confermano sia gli aiuti ottenuti che il pagamento di ingenti somme di denaro.

La WADA approfondì e le reazioni furono durissime. Fu revocata l’abilitazione del laboratorio di Mosca (accreditato presso la stessa WADA). Contemporaneamente, si raccomandò al Ministro dello Sport russo l'allontanamento del dottor Grigorij Rodčenkov (direttore del laboratorio nazionale russo di antidoping) e alla IAAF di sospendere l'ARAF, con la conseguenza che gli atleti russi non avrebbero potuto prendere parte ad alcuna competizione internazionale nel 2016 e che i campionati del mondo a squadre di marcia 2016 e i campionati del mondo Under 20 di atletica leggera 2016, precedentemente assegnati alle due città russe di a Čeboksary e Kazan, sarebbero stati riallocati. In un percorso fatto di carte bollate e lungo nel tempo, la RUSADA fu dichiarata non più conforme agli standard del codice mondiale antidoping con effetto immediato. Venne inoltre sancita l'impossibilità per i funzionari e i rappresentanti del governo russo di far parte del consiglio di qualunque organo firmatario del codice WADA o di assistere a edizioni di Giochi olimpici, paralimpici e campionati del Mondo. Con la possibilità per gli atleti russi risultati estranei ai fatti a prender parte a dette competizioni, unicamente sotto insegne neutrali, senza inno, bandiera o altro emblema nazionale russo.  

Violentissime le reazioni russe, a partire da quelle di Putin in persona. Una bruttissima vicenda, che si interseca poi con la guerra e con le conseguenze anche sul piano sportivo e che non ha ancora conosciuto la parola FINE.

 

Tutti i dopati del mondo 
E poi ancora, Lance Armstrong, Marion Jones, Barry Bonds, Kim Jong Su, Maria Sharapova, Edgard Davids, Angelo Peruzzi, Pep Guardiola, Kostas Kenteris, Ekaterini Thanou,Simona Halep, Maria Sharapova, Kim Jong Su …. Mille atleti, mille discipline, mille sostanze, mille modi, mille motivazioni, mille scuse. Per una carriera che deve per forza andare a 1000 all’ora … e buonanotte a de Coubertin.

Il doping amatoriale
De Cubertain dovrebbe avere accesso facile tra gli amatoriali, lì dovrebbe esserci spazio solo per il sano sport e il piacere di una competizione che non vada al di là di qualche piccola soddisfazione personale. Eppure, non è affatto così. 

Un fenomeno “a latere”, che preoccupa tanto quanto, se non di più, è il doping amatoriale. Il doping infatti è tracimato in centri fitness e società sportive minori, diventando una piaga sempre più diffusa, un’abitudine per tanti frequentatori assidui delle palestre (e campi sportivi) e perfino per i ragazzini alle prime gare. Un doping ancor più pericoloso, perché praticato, appunto, in contesti senza controllo.

Secondo un recente report del Centro Nazionale di Informazione Tossicologica (Cnit): «Il doping amatoriale è del tutto sottostimato perché avviene nelle palestre, ambienti chiusi dove c’è connivenza fra chi assume le sostanze e chi le consiglia. Possiamo solo registrare i casi delle persone che arrivano in Pronto soccorso ammettendo uso di sostanze dopanti, ma si tratta ovviamente della punta di un iceberg, perché tanti tacciono e anche con gli esami tossicologici non riusciamo a individuare ciò che è stato assunto».

Il fenomeno, è “aiutato” da internet e questa è un’altra aggravante: la maggior parte degli “sportivi della domenica” acquista i farmaci on line, per cui all’illegalità dell’uso senza prescrizione medica si aggiunge l’incertezza della qualità del prodotto, che spesso non si sa bene quali molecole contenga davvero. Il doping amatoriale è inoltre difficile da monitorare, lo si può fare solo attraverso i referti dei Pronto soccorso. Gli accessi denunciano sintomi che nella metà dei casi sono a carico del sistema nervoso (come agitazione psicomotoria, quadri psicotici, convulsioni, mal di testa, vertigini e tremori), ma si registrano anche problemi cardiaci (con tachicardia, ipertensione, shock cardiogeno) e c’è una discreta percentuale che arriva con un’epatite acuta da steroidi. Non pochi accessi sono dovuti a un’overdose vera e propria di anabolizzanti o stimolanti, mentre negli altri casi i dosaggi non sono eccessivi: si tratta comunque di sostanze che possono dare eventi avversi consistenti, soprattutto se prese senza che ce ne sia una reale necessità clinica, ed è per questo che portano guai anche se nella singola somministrazione non si esagera col dosaggio.

Si tratta, perlopiù, di stimolanti per ridurre il senso di fatica, soprattutto caffeina pura in polvere, ma anche amfetamina, cocaina, ecstasy o efedrina. In tanti assumono aminoacidi e proteine, per esempio la creatina: sostanze comunque meno problematiche perché meno dannose (ma pur sempre proibite o ai limiti della liceità). E poi ci sono quelli che prendono steroidi anabolizzanti, per aumentare la massa muscolare: qualcuno finisce in Pronto soccorso per gli effetti collaterali acuti.

Gli effetti collaterali possibili sono molteplici: si va dalla ginecomastia alle lesioni muscolari (perché a furia di aumentare la massa del muscolo questo si può danneggiare o si può rompere qualche tendine), dalla psicosi alla tossicità epatica che può portare perfino alla necessità di un trapianto di fegato; senza contare lo sconquasso ormonale associato all’uso di ormoni steroidi che impattano moltissimo, per esempio, sull’apparato genitale.

Ma il doping uccide, non lo scordiamo mai. Il fatto è che la morte spesso non viene ricondotta a esso. Un cancro, un infarto … sono morti spesso causate dalle sostanze dopanti, che subdolamente si nascondono dietro altro sintomi e concause. E questo avviene sopratutto tra i dilettanti e gli hobbisti.

 

Il doping secondo il Ministero
Le sostanze e le pratiche dopanti sono oggi molteplici e dagli svariati effetti collaterali. Meglio affidarsi all’elencazione dettagliata stilata dal Ministero della Salute.

La lista di sostanze biologicamente e farmacologicamente attive è molto lunga. Si possono raggruppare in tre categorie principali: farmaci non vietati per doping, ma utilizzati per scopi diversi da quelli autorizzati; farmaci vietati per doping; integratori.

Per quando riguarda i farmaci non vietati per doping, ma utilizzati per scopi diversi da quelli autorizzati, è opportuno ricordare che la loro somministrazione a persone non malate è sempre pericolosa in quanto priva di finalità terapeutica, scopo fondamentale di un medicamento. Tra i farmaci più usati, gli antinfiammatori non steroidei e i farmaci omeopatici. Come effetti negativi, la possibilie comparsa di gravi reazioni avverse.

Tra i farmaci vietati per doping, la Eritropoietina (EPO) e i suoi derivati, gli anabolizzanti e gli stimolanti. La EPO è una glicoproteina prodotta dal rene che agisce stimolando la proliferazione e la maturazione di globuli rossi. Il suo uso in medicina è relativo al trattamento dell'anemia nei pazienti con insufficienza renale cronica. Per questo motivo, ossia per la sua capacità di regolare la produzione dei globuli rossi e dunque di aumentare l’apporto di ossigeno nel sangue, è molto diffusa tra ciclisti e maratoneti, costretti a prestazioni atletiche di lunga durata. Il ricorso all'EPO comporta rischi non trascurabili per la salute dell'atleta, correlati all'aumento della viscosità del sangue e della pressione arteriosa, come ictus, trombosi e infarto del miocardio. Nella pratica sportiva, l'utilizzo di steroidi anabolizzanti accresce lo sviluppo muscolare, potenziando la forza fisica e la resistenza allo sforzo. Gli effetti negativi includono tossicità a carico del fegato, degli apparati cardiovascolare e endocrino, sviluppo di tumori e disturbi psichiatrici. Gli stimolanti (ad esempio amfetamine, cocaina, efedrina, pseudoefredina, caffeina) sono impiegati ad uso doping in quanto aumentano il livello di vigilanza, riducono il senso di fatica e possono aumentare l'agonismo e l'aggressività. Altri effetti negativi comprendono disturbi cardiovascolari, fino ad aritmie anche mortali, e veri e propri disturbi neurologici e psichiatrici.

Gli integratori alimentari sono alimenti che costituiscono una fonte concentrata di sostanze nutritive, come vitamine e minerali, o altre sostanze ad effetto nutritivo o fisiologico. Sono presentati in forme predosate, come capsule, pastiglie, compresse, pillole, liquidi contenuti in fiale, flaconi a contagocce e altre forme simili di liquidi e di polveri, destinati ad essere somministrati in dosi unitarie. In ambito sportivo vengono spesso usati con la speranza d’incrementare la massa muscolare, ridurre il grasso corporeo, aumentare la velocità, migliorare la resistenza ed avere un recupero più rapido. Sono facilmente reperibili, in quanto presenti anche sugli scaffali dei supermercati. Dal punto di vista legale, non essendo considerati farmaci, non sono sottoposti ad una rigorosa regolamentazione. Per quelli ad uso sportivo è prevista l'autorizzazione ministeriale, per altri la semplice notifica presso il Ministero, ma ve ne sono innumerevoli altri ancora, che vanno sotto il nome di prodotti salutistici (dai prodotti erboristici e dietetici a quelli omeopatici, dagli antiossidanti alle tavolette energetiche).

Metodi proibiti Le pratiche di doping più diffuse sono: il doping ematico; e le manipolazioni chimiche e fisiche dei campioni di urina.

Nel primo caso, all'atleta vengono somministrati, per via endovenosa, sostanze di sintesi correlate all’EPO che migliorano il trasporto di ossigeno nel sangue. Un'altra pratica è quella dell’autotrasfusione: l'atleta, cioè, si sottopone a un prelievo di sangue, che, dopo essere stato adeguatamente conservato e non appena i globuli rossi sono tornati a livello normale, gli viene trasfuso nuovamente, ottenendo così un incremento del numero dei globuli rossi. I rischi connessi al doping ematico includono reazioni allergiche, possibile trasmissione di malattie infettive, sovraccarico del sistema circolatorio e shock metabolico. Per manipolazione farmacologica di urina, chimica o fisica, s’intende l'uso di sostanze e di metodi in grado di alterare l'integrità e la validità dei campioni di urine utilizzati per i controlli antidoping. Le manipolazioni vanno dallo scambio dei campioni di urina alla diluizione con altri liquidi, fino all'inserimento nella vescica, tramite catetere, dell'urina altrui. Possono inoltre essere usati i diuretici, chiamati non a caso mascheranti, perché in grado di eliminare più velocemente, favorendo la diuresi, le sostanze proibite rintracciabili ai test antidoping. Inoltre, la prima cosa che si esamina nei campioni di urina è il pH, in quanto è possibile facilitare l'eliminazione di farmaci vietati alcalinizzando o acidificando l'urina; la seconda è la densità, nel senso che un’urina con basso peso specifico può indicare una manipolazione finalizzata ad abbassare la concentrazione di un farmaco al di sotto della soglia di rilevazione.

Pogba
La sostanza trovata in corpo a Pogba è il testosterone, ormone androgeno secreto soprattutto dalle cellule interstiziali del testicolo. Stimola la sintesi proteica e di conseguenza aumenta la velocità di accrescimento di tutti i tessuti. Da qui la definizione di “steroide androgeno anabolizzante”, che può essere naturale (prodotto dall’organismo) o sintetico (prodotto in laboratorio). Al di fuori dell’uso prettamente terapeutico, gli steroidi anabolizzanti sono sostanze che producono effetti sulla prestazione sportiva: gli atleti che li assumono, infatti, generalmente riescono a compiere prestazioni più intense con maggior frequenza. 

Il doping secondo le nostre leggi
"Costituiscono doping l’assunzione o la somministrazione di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e l'adozione o la sottoposizione a pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche e idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell'organismo, al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti". È quanto cita l'art. 1 della Legge 14 dicembre 2000, n. 376, che disciplina in Italia la tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta contro il doping. Il doping è un reato penale, punito fino a tre anni di reclusione (che possono diventare di più se insorgono danni effettivi per la salute o se ad essere indotto ad assumere sostanze vietate per doping è un minorenne o se, a distribuire le sostanze, è un dipendente del CONI).

Solo in presenza di condizioni patologiche dell’atleta, documentate e certificate da un medico e verificata l’assenza di pericoli per la salute, è consentito un trattamento specifico con sostanze vietate per doping e la possibilità di partecipare ugualmente alle competizione sportiva. Ma anche in questo caso il trattamento deve rispondere a specifiche esigenze terapeutiche e la documentazione deve essere conservata e tenuta sempre a disposizione dall'atleta. Il controllo anti-doping vero e proprio sulle competizioni e sulle attività sportive spetta ad alcuni laboratori accreditati dal Comitato Internazionale Olimpico.

 

“Il doping? ..: Beh, mia madre mi faceva le tagliatelle. E ancora oggi mi fa tourtel e tourtlon” Alberto Tomba