Ieri mattina mi sono alzato più o meno al solito orario. Il sole s’insinuava tra le fessure della serranda della stanza da letto, i clacson delle auto erano il respiro affannato del mondo che girava a pieno ritmo. Io dovevo ancora connettere, ero ancora mezzo stordito dal sonno disturbato di quei giorni difficili da dire.
Ancora seduto sul letto, mi sono passato le mani sul viso, adombrato dalla svogliatezza d’un risveglio lento: cercavo di ravvivare le sinapsi. 
Ero certo, anche quella mattina lo ero, di avere sognato, solo che non ricordavo nulla. Non era stato un incubo, no. Quelli mi scuotono in piena notte, facendomi sobbalzare dal letto; di quelli mi ricordo sempre.
Fissavo il comodino, il lampadario, le tende, le lenzuola, il pavimento, il Capodimonte e mi chiedevo quale forza esercitasse il tempo su queste cose e mi chiedevo chi le avesse costruite e mi chiedevo se mi stessero osservando e mi chiedevo cosa, in fondo, me ne importasse. Non me ne importava nulla, non m’importava niente.

Dovevo alzarmi: uno sforzo che ogni mattina mi costa la stessa fatica del respirare, del trascinarmi la pesantezza d'un elefante trasparente che mi schiaccia il petto, del cibarmi di scatolame e noia.
Finalmente mi sono alzato, dopo un sospiro profondo quanto lo sforzo che ho dovuto produrre per issarmi sulle gambe anchilosate.

Richiamate a gran voce dalla vescica, le gambe mi hanno condotto al bagno: sapevo che ci avrei incontrato il mio peggior nemico, ma non potevo fare altrimenti. Una soluzione, in realtà, c’era: fracassargli la faccia e sfigurarlo per sempre; ma la scaramanzia, a cui avevo affidato i miei ultimi scampoli di falsa speranza, me lo impediva. E così, anche quella mattina l’ho affrontato: l’ho guardato con odio, cercavo di mostrargli sicumera, gli ho sputato in faccia, un’altra volta, e ho veduto il viscidume del mio sentimento scivolare giù in un rigagnolo di malessere infermo.
Sono andato di là, in soggiorno. Mi aspettava la morbidezza ipnagogica del divano. Maledetto divano, benedetto giaciglio d’autocommiserazione! Non gliel’ho data subito vinta, ma già sapevo che era questione di tempo, che presto o tardi sarei sprofondato nella quotidiana assuefazione alla sua sofficitá. 

Subito, presto, tardi… sono concetti senza senso. 

Il tempo. Il tempo per me è mera astrazione, non mi rincorre e non lo rincorro, non ha misure, non scandisce altro che il vuoto trascorrere d’una giornata come le altre, è solo un gigante pennarello con cui Dio si diverte a colorare il cielo.
Non lo guardo quasi mai, il cielo. Lui si diverte ad accendersi e a sfumare, filtrando dalle finestre e da ogni possibile varco che la mia casa solitaria fornisce, mio malgrado.
Quanto a Dio, non è che le cose vadano bene tra noi.

Quella era proprio una mattina come le altre. Le finestre del soggiorno erano chiuse; i balconi, piazzole di sosta per piccioni avidi dei rimasugli di tovaglie sventolate dai piani superiori; le tende, veli neri calati sul lutto del mio umore. Il televisore era acceso e senza volume: evidentemente, ero andato a coricarmi un’altra volta senza spegnerlo. Il piccolo riquadro del tg24, all’angolo basso del televisore, segnava le 10,27. 
Il divano mi guardava, mi richiamava alla sua infida immobilità, alla sua anestetizzante comodità, all’inedia di un caffè amaro sorseggiato tra le labbra screpolate e il palato inaridito, all’infallibile coniugio col televisore, suo insolente dirimpettaio.

Il caffè è ormai l’unico balsamo umorale che mi concedo, con la goduria del dipendente cronico; la caffettiera mi fa compagnia, è il mio cucciolo, costantemente desiderosa delle mie manipolazioni, ansiosa di riempire quella sua strana pancia ottagonale di polvere nera profumatissima. Quando borbotta, sembra una puerpera quieta che geme brusii mentre dà alla luce le mie dosi di caffeina. È uno dei pochi momenti buoni della giornata: non c’è alcun dolore, alcun sentore strisciante, non c'è alcun pensiero, fulmineo o fisso che sia, da affrontare; tutto è lontano, come il pennacchio di fumo d’una nave all’orizzonte. Io sono lontano! Lontano anni luce da qui, da me stesso, da tutto ciò che mi circonda e a cui dono indifferenza. Ma è giusto un momento, che svanisce col tintinnio della tazzina di porcellana posata distrattamente sul primo ripiano disponibile. Poi ritorna, quel mostro silenzioso che dimora tra le stanze invisibili dell’anima e l’ammorba. Subdolo e scaltro, ritorna, mascherandosi dietro mille motivazioni, spiegazioni, ragioni, ricordi, rimpianti e lacrime a stento trattenute. Ritorna, guardiano severo che mi tiene in catene, prigioniero della mia condizione di perenne dormiveglia. Ritorna, angelo d’una morte lenta che m’inietta gocce di dolore, così talmente lieve che nemmeno lo sento; eppure c’è, è lì, scende giù, silenzioso come la neve, sedimentandosi in ogni mia molecola. Ritorna, quel mostro torna sempre! 

Ieri mattina, come ogni mattina, mi sono infine arreso al divano e al suo catodico dirimpettaio. Mi son messo seduto, lui mi ha accolto emettendo una specie di sbuffo soddisfatto, come a dirmi: “Sei mio!”. Non è me che possiede, ma il mio giorno, le mie speranze, i mie ardori, i miei umori, i ricordi, i rimpianti, le sere nere, i pomeriggi lenti, le mattine disoccupate. 
Ogni giorno, tutti i santi giorni, quel divano si prende tutto. Ma i miei occhi no: quelli sono proprietà esclusiva dei ricordi che si materializzano in nitide immagini, sono fonte di luccichio melanconico e sono ostaggi della Tv.
La vedo senza guardarla e la tengo spesso imbavagliata, la faccio stare zitta: é la mia piccolissima rivincita contro quel demone, che mi avvolge con le sue spire multicolor e mi trasporta in mille mondi e tonnellate di vani stimoli.
Vani, sì, perché è ormai defunto l'interesse per le cose del mondo. Il torpore è la mia condizione abituale: mi attraversa le vene, mi cristallizza la mente, m’inchioda il cuore costringendolo a battiti forzati. E m’inchioda d’avanti a quella tv, per ore di semi catatonia e qualche raro barlume di concentrazione.
Ogni tanto, infatti, succede che una luce di attenzione insperata riaffiori dalle spelonca della mia totale strafottenza.

Com’è accaduto ieri mattina, quando, nel serpentone che scorre nella parte bassa del teleschermo, è apparsa la notizia di un calciatore ventiduenne del Nizza che minacciava di suicidarsi.
Lo sport non lo seguo più, almeno non con il trasporto di un tempo, ma è una delle poche cose che mi distolgono dal nonsenso.
Alexis Beka Beka era il suo nome, calciatore professionista, la pelle scura come lo zaffiro del Madagascar, un fisico atletico, tutta una carriera davanti, tutta una vita davanti. 
Ho scosso il capo, quando il serpentone lasciava inoltre scorrere parole in libertà, di quelle che solitamente si utilizzano in circostanze come questa, per spiegare il motivo del gesto. Delusione amorosa: c’era scritto così. È strano come l’umanità cerchi di esorcizzare il più feroce e infido dei suoi nemici, dandogli un nome, una forma, una sostanza, che in realtà non ha. 

Che ne sapevano loro, che ne sa la gente? Che ne sa di cosa sia quella pressa, tanto poderosa quanto invisibile, che si piazza sulla bocca dello stomaco e ti tira giù, sempre più giù? Di cosa sia quella strana, perdurante sensazione di apatia che fluttua nell’aria circostante e non va via? Che ne sa la gente del buio? Che ne sa la gente dell’origine delle nostre lacrime, se non le ha mai piante?
Credo sia puro istinto di sopravvivenza, perché un nemico, se lo conosci e lo individui, fa meno paura, t’illudi addirittura di sconfiggerlo; però, se lo sottovaluti …
Mi sono chiesto come fosse possibile che un ragazzo del genere potesse arrivare a un gesto così estremo. 
Quando era capitato a me, ero un uomo sulla quarantina, in balia della ludopatia, senza più una moglie e un figlio che vedevo di rado, di simile al pallone la mia vita aveva solo che rotolava inesorabilmente verso un burrone senza fondo; allora desistetti, ma solo perché non ne ebbi il coraggio, fu la codardia il guizzo poco nobile che tenne accesa “la fiamma della candela”. 

Nel momento stesso in cui mi ponevo quello stupido interrogativo, mi sono reso conto di non essere diverso dagli altri, che neanche io ero stato immune dalla estemporanea superficialità dei giudizi, delle conclusioni, delle classificazioni. Ed era una colpa ancor più grave, perché io e quel ragazzo, dal buffo cognome-doppione, probabilmente pativamo la stessa indefinibile pena. 
Un male che non ha nulla di fisico, nulla di tangibile, nulla da potervi opporre… nessuna medicina, nessun rimedio, nessuna controffensiva. E che non guarda in faccia nessuno. Quale che sia il fattore scatenante, esso nasce dal profondo di ogni Io, vi mette radici e non lo si può estirpare. 

Mi sono sentito terribilmente stupido, ma almeno sentivo qualcosa. E mi sono sentito un po’ in colpa, perché in fondo il male che mi accomunava a quel giovane calciatore era un mezzo gaudio. 
Ho soltanto sperato che lui ce l’avrebbe fatta e non mi riferisco al tentato suicidio (ero abbastanza certo che la gendarmeria l’avrebbe tratto in salvo). C’è un precipizio molto più letale del vuoto ed è il vuoto che abita in ognuno di noi. In quel vuoto non si salta, si precipita. E nessuno può salvarti. Nessuno, tranne te stesso e un bravo terapista. 
Mi sono accorto che stavo piangendo, mentre dicevo queste parole ad alta voce, come se stessi parlando con Alexis. Piangevo di contentezza o dì qualcosa di simile (chi se la ricorda più, la contentezza?): erano secoli che non parlavo con qualcuno.

Mi sono alzato dal divano e sono andato di là. 

Da qualche parte, nel camerino che sa di rinchiuso, avevo conservato delle vecchie foto della mia famiglia, di quelle che vengono ancora concepite da uno scatto, nascono dalla “pancia” di un rullino, trovano casa in un album accogliente (alla cui porta ogni tanto bussiamo) e rimangono lì, fino a diventare vecchie, alcune immortali.
Ne ho presa una, c’eravamo tutti: io, la mia ex moglie e (neanche a farlo a posta) il mio bambino con la maglietta dell’Inter e un pallone tra i piedi. 
Una foto può essere la migliore amica dei ricordi o la letale overdose di nostalgia. Può essere la compagna ideale o la perfida dispettosa che ti rinfaccia il tuo stato di solitudine. Una foto può sussurrarti, può insultarti, stare zitta, rimproverarti, chiamarti o anche solo guardarti e dirti le cose che tu scegli di sentire. Ed è uno specchio, anche, di quelli che certo non sei costretto ad incontrare ogni mattina, ma che non puoi eventualmente scegliere di rompere in mille pezzi; puoi riporlo nel più recondito dei cassetti impolverati, ma è lì e ogni tanto ti chiama a gran voce.

Quella foto, la mia ex moglie che amo ancora, il mio bambino che avrei amato per sempre. 
Ho aperto di nuovo la bocca, dalla quale, però, fuoriuscivano solo singhiozzi sillabati. Ho tenuto per mano quella foto per parecchi minuti o forse ore o forse attimi… chi lo sa?

So solo che ho pensato di recuperare il cellulare, dimenticato chissà dove, e di chiamare la psicoterapeuta. Il numero me lo aveva dato un giorno mia madre, raccomandandosi che lo utilizzassi, ma io non l’avevo mai fatto, non l’avevo mai chiamata. Stavo così da chissà quanto tempo e io non l’avevo mai chiamata. Dapprima, non mi ero reso conto del male che m’affliggeva, peggio, non me ne ero neanche accorto. Poi, cominciai ad acquisire una quasi inconscia consapevolezza, ma prevaleva in me l’idea, stupida e ignorante, che andare dalla psicologa vuol dire ammettere d’esser matto o qualcosa del genere. Poi sopraggiunse la fase della presunzione: “posso farcela da solo”, mi dicevo, mentre perdevo ogni singola sfida contro ogni singolo secondo di disforia. Quindi, la vergogna: andare da un’estranea e raccontargli del tuo stato d’animo, probabilmente senza nemmeno saperlo descrivere, è qualcosa che mette a dura prova il tuo senso d’imbarazzo.

Con la foto ancora tra le mani, sono andato in camera da letto, ho rovistato tra i cuscini e il materasso: il telefonino doveva essere lì, da qualche parte.

 “Pronto, dottoressa …”.

Non so perché, ma quel giovane calciatore mi ha spinto a fare la prima cosa giusta da tanto, tanto tempo.
Andrò domani, sarà la prima seduta. Forse anche l’ultima o forse no. Non lo so, proprio non lo so. Quello che so è che ho trovato il coraggio di pronunciare una parola di cui troppo spesso si diffida o ci si vergogna: aiuto. Quello che so è che domani uscirò dal nascondiglio di casa mia e guarderò il cielo, o almeno ci proverò. 
È un inizio. E forse è proprio questa la cura: ricominciare. Ricominciare tutto da capo.
E chiedere aiuto.
Fallo anche tu.