Sabato, 21 ottobre 2023

È un sabato pomeriggio di fine ottobre, il City ha appena vinto la sua partita, ma da quelle parti a nessuno sembra importare granché: sarà perché il City vice sempre o sarà proprio perché a nessuno frega niente; vallo a sapere. Di certo a me non importa, non sono neanche andato alla stadio, a me piace lo United e poi i biglietti costavano un botto; insomma, spendere una cinquantina di sterline per vedere i Citizen asfaltare probabilmente il Brighton e sorbirmi mezz’ora di reprimenda da parte di mia moglie proprio non m’andava; certo, so di fare uno sgarbo al nostro De Zerbi, ma, come si dice, meglio a lui che alla mia signora (almeno lui non si offende e non ci devo dormire accanto). Pentitomi comunque della scelta, forse un po’ troppo ragionata (cavolo, il Manchester city!), cammino, solitario, per King Street. Il cielo, neanche a dirlo, è di un grigiastro che dà sul nero, di quel nero che presagisce pioggia. Ho appena comprato una sciarpa di lana wool, perché fa freddo e non mi sono equipaggiato a dovere. 

Entro in un pub, c’ero già stato qualche sera prima. È lo stesso locale in cui ho assistito alla partita dell’Italia, sforzandomi di rimanere impassibile, direi indifferente, alle tre esultanze inglesi. Sembravo la brutta copia di Nino Manfredi in Pane e cioccolata, anche se al gol di Scamacca io non ho esultato, piuttosto me ne sono stato zitto come un pupazzo di pezza, vigliacco e calcolatore: un po’ avevo paura, perché m’é rimasta impressa l’idea che qui sono tutti hooligans ‘mbriaconi e facinorosi; un po’ - ecco il calcolo - perché me lo sentivo che quel gol in fondo non avrebbe significato niente, che l’Inghilterra, nettamente più forte di noi, ce ne avrebbe fatti tre o quattro. 

Quel pub è il tipico locale inglese, con tanto legno e tanta birra. Oggi c’è poca gente,  sarà per l’orario, dato che non sono ancora le sei del pomeriggio. Vabbè, il fatto è che non ho niente da fare, andare in giro per negozi - questa era l’alternativa - è la cosa che odio di più al mondo; farlo con mia moglie, la quale sembra sempre in procinto di acquistare una casa e non una strafottutissima gonna che indosserà due o tre volte al massimo, è una vera tragedia. Mi seggo su degli sgabelli girevoli, che stanno a ridosso del bancone, su cui quella sera - la sera di Inghilterra/Italia - pattinavano boccali di birra e shortini di brandy scarso. Adesso è un ripiano arido, come una distesa abbandonata, dove c’è poca vita, luce soffusa e musica a basso volume. Forse era meglio che me ne stavo in albergo, penso. 

La tv mi guarda dall’alto. Quel locale è ricolmo di televisori, sono dappertutto. Ce n’è uno proprio sulla parete del retrobanco. Lui mi guarda, Io lo guardo di rimando: è acceso ed è sempre sintonizzato sul canale dello sport. È silenzioso, emette immagini, non suoni. Il suono, in sottofondo, arriva dalle casse, anch'esse sparse un po’ ovunque. Tra le note di Goodbye Stranger, ordino una birra, che arriva subito tra le mie mani, ancora intirizzite. Sia chiaro: non è che faccia tutto sto gran freddo, ma per noi siciliani una qualsiasi temperatura al di sotto dei 12/13 gradi è già gelo polare.

Anyway… 

Prendo il cellulare in mano e metto a scrivere questa storia, che poi una storia non è, bensì il racconto di un normalissimo pomeriggio in terra straniera, che si trasforma in un viaggio. Un viaggio nella storia del pallone, che inizia qui, a Manchester, e finisce qui, a Manchester. Che si compie dentro un anonimo pub inglese, in un uggioso pomeriggio inglese e attraversa decenni leggendari, inglesi anche quelli. Mentre ticchetto sulla tastiera del mio Smart Phone (facendo a pugni col dispettoso t9), sorseggio la birra. Un gesto meccanico, che altrettanto meccanicamente di tanto in tanto mi porta ad alzare la testa per qualche nano secondo. In uno di questi nani secondi, gli occhi, attratti dallo schermo sopra la mia testa, si soffermano su una scritta che non c’entra nulla con lo sport, tantomeno con le immagini di repertorio che qualche istante prima avevo intravisto, cioè vecchie partite del Man U e della Nazionale inglese. Quella scritta, bianca e in un corsivo stilizzato, rimane fissa su uno sfondo nero per diversi secondi: The stars are not wanted now: put out every one; Pack up the moon and dismantle the sun; Pour away the ocean and sweep up the wood; For nothing now can ever come to any good.

Ci metto un attimo a riconoscere i versi di una poesia che ho sempre amato alla follia, pur conoscendola nella sua traduzione italiana. “È Auden!”, esclamo, forse tra me e me o forse ad alta voce, non saprei. Lo ammetto, nessuna reminiscenza scolastica, nessun frutto di chissà quale bagaglio culturale, tranquilli VXL, non c’è nessun intellettualoide tra di voi (o almeno, me lo auguro). Quattro matrimoni e un funerale: l’ho conosciuta così, quella poesia, dallo stupendo film di Mike Newell. Ovvio, l’avevo poi letta, approfondita e riletta mille volte, anche nella lingua originale. Per questo, quando quei versi appaiono sullo schermo d’un pub di Manchester, la focalizzo immantinente e, al contempo, mi chiedo cosa possa entrarci la poesia di Auden, non tanto col pub stesso (che è già quanto dire), quanto col calcio e con quelle immagini d’altri tempi, che nel frattempo riprendevano a scorrere. Poi capisco. 

Trangugio un altro po' di birra e capisco, perché il televisore rimanda quei versi, sovrapponendoli questa volta alla faccia sorridente di Bobby Charlton. Quindi, il comunicato della famiglia, in inglese: “Sir Bobby è morto”. Perché, era ancora vivo? Mi vergogno di me stesso, che ho buttato nel dimenticatoio una leggenda del pallone, rilegandolo proprio a quell’interrogativo sovente destinato a personaggi che perdiamo di vista.  Quasi per un istinto naturale, bofonchio quei versi di Auden nella mia lingua, sembra che voglia fare io da colonna sonora alle immagini, che adesso scorrono in una rapida sequenza, a raccontare d’una vera leggenda in maglia rossa. “Non servono più le stelle: spegnetele anche tutte; imballate la luna, smontate pure il sole; svuotatemi l’oceano e sradicate il bosco; perché ormai nulla può giovare”. Mi viene una specie di magone, ultimamente mi commuovo facilmente. No, non piango, non esageriamo. 

Manchester invece sì, piange. Piange tutta la città e questa volta non sono le solite lacrime che scendono giù dal cielo, impattando sugli ombrelli sui trench, i parabrezza, i balconi e gli spalti dell’Old Trafford. Questa volta sono lacrime vere, che mescolano i ricordi al senso di colpa - evidentemente comune - per un eroe dimenticato, che solo la morte adesso restituisce alla quotidiana percezione.  Mi rendo conto che non esistono personaggi indimenticabili, che l’oblio travolge tutti, anche a Manchester. Qui fino a qualche minuto prima non avevo mai sentito parlare di Charlton, né al di fuori né all’interno di quel pub, la cui vocazione al calcio era ben ostentata, non solo da schermi televisivi apposti su ogni angolo di parete, ma pure da sciarpe e foto e sfere di cuoio autografate e magliette rosse custodite in teche di vetro e appese come quadri antichi; nessuna sua maglia esposta, nessun servizio alla tv su di lui fino a quel momento, nessuno che aveva neppure sussurrato il suo nome. Niente. 

Bobby Charlton era come un gigante che dormiva sotto le coperte della sua Manchester, di nascosto al mondo. Poi la morte e, con essa, il risveglio. Mi rendo conto che la mia colpa è la stessa di tutti.  E forse è normale che sia così, forse non è oblio, semplicemente è così che funziona ed io sto solo sopravvalutando il concetto d’immortalità. Preso da tali congetture cervellotiche (che qualcuno chiamerebbe paranoie mentali), ordino un’altra birra, che accompagno a delle peanuts salatissime. La tv lascia scorrere le immagini di un sorridente Sir Bobby avvizzito, che tiene in mano il pallone d’oro, quello che conquistò nel 1966, prevalendo su Eusebio (calciatore a cui devo il mio nome… scusate la digressione). E poi una donna che piange, mentre dice qualcosa davanti a un microfono. Forse l’immortalità sta tutta lì, continuo a ragionare, in quelle lacrime di Manchester. 

C’è pure un ragazzo, seduto a quel bancone, non molto distante da me, che piange; o almeno così mi sembra. Sembra calamitato da quelle immagini, che ora ritraggono Charlton con la maglia dell’Inghilterra, mentre riceve la Coppa del mondo dalle mani della regina Elisabetta. Era un’Inghilterra completamente diversa da quella “rinnegata cosmopolita” dei giorni d’oggi, di cui probabilmente quel ragazzo è un fedele interprete. Era una generazione che si lasciava alle spalle la puzza di carbone e cominciava a ballare lo swing, una popolazione che scopriva l’adrenalina della rivoluzione culturale al ritmo dei Beatles e all’insegna dell'ottimismo e dell'edonismo. Era l’Inghilterra che vinceva il suo primo e unico mondiale e lo vinceva soprattutto grazie a Charlton. Quel giovane non riesce a staccare gli occhi dalla tv. E piange o almeno a me sembra che stia piangendo, di sicuro scorgo un luccichio nei suoi piccoli occhi chiari. Non so quanto ne sappia di Charlton, è sicuramente un appassionato di calcio, questo è abbastanza evidente. Penso: sarà cresciuto a pane e Beckham, avrà amato Rooney, gli avranno forse raccontato di George Best, avrà spasimato, ma non troppo, per gli stranieri Ronaldo e Cantona. Sì, perché è certamente uno del posto e quello è un pub frequentato prevalentemente dai tifosi dei Red devils. Mi chiedo quanto ne sappia della leggenda. Mi chiedo se ci sia qualcosa in lui di quell'Inghilterra. 

Adesso lui è lì, che sgrana gli occhi davanti alle immagini di Charlton, ancora con la maglia bianca dei Leoni: gol d’ogni tipo e in diverse partite, del resto c’è l’imbarazzo della scelta, visto che ne ha giocate 46 in Nazionale segnando 49 volte. Quel giovane m’incuriosisce. Senza fargliene accorgere, mi ci avvicino. Parlo un discreto inglese, non mi è difficile dunque attaccare bottone. Voglio capire, non so cosa, ma voglio capire. O forse è solo noia. Ad ogni modo, quello è il mio pane, è materia mia. Tranquilli VXL, non c’è nessuno scienziato del pallone tra noi (o almeno, me lo auguro). Il fatto è che io ne so, di storie del calcio. Da quando mi diletto a scrivere per questo blog, sono diventato una specie di studioso del fenomeno e comunque ho sempre avuto un debole per la storia del calcio, appassionatissimo alle narrazioni di Buffa e al romanticismo di Sfide. Ecco, mi dico: questo è il momento di sfoderare le mie conoscenze o, al limite, di ampliarle. E comunque, sempre meglio dello shopping, no? Lo approccio nel modo più banale possibile: “Sei dello United o del City?”. Lui mi guarda di sguincio, mi da la mano, presentandosi: “George”. 

Sì, è dello United. Mi presento anch’io, scavallando un “Nice to meet you” da scuola media a scendere. Gli offro qualcosa da bere. Lui accetta, ma non vuole la birra. Ordina un Gin-tonic.  Mi stranisco un po’, anzi, in quel momento mi crolla una delle mie più granitiche certezze: è la prima volta che bevo in un pub inglese con un ragazzo inglese e questo qua mi ordina un Gin-tonic! Mah! Per un riflesso meccanico, quasi incondizionato, alziamo entrambi gli occhi verso la tv: ancora immagini di Charlton, ancora quella finale mondiale. George emette una specie di sbuffo, evidentemente stizzito. Solo in quel momento capisco di non aver capito niente. George vuole sapere le ultime dai campi (a poche ore dalla gara con lo Sheffield), impreca contro la tv e contro quel “crazy” di ten Hag. Insomma, a questo qua di Charlton non frega un accidente. Mi verrebbe da dirgliene quattro, mi verrebbe da insegnargli che un tifoso senza memoria è solo uno sguardo annoiato su una patita di calcio. Ma desisto. Hai visto mai che il Gin-tonic gli sia già salito in testa e mi tira un pugno? Certo, non nego che una rissa in un pub di Manchester abbia un non so che di romantico, però un naso rotto decisamente no.  Ma sono cocciuto, devo dirgli qualcosa, non posso permettere che Sir Bobby vengo trattato così, il buon Buffa non me lo perdonerebbe. La prendo larga, con quella sottile falsa indifferenza che non urti la sensibilità del rossiccio giovanotto e non lo infastidisca più di tanto. Insomma, faccio di tutto affinché il mio approccio non sia da scocciatore invadente, bensì da accattivante rapsodo (l’intenzione è quella).

Incollo gli occhi al televisore e  comincio: “Che partita, quella là! Bobby e il fratello Jack Charlton, Bobby Moore, Gordon Banks, Nobby Stiles, Geoff Hurst… Pensa, si era a Wembley … che stadio! Che pomeriggio! C’era il sole, mica sto schifo di tempo! I tedeschi maledicono ancora quel guardalinee, uno dell’Azerbaigian, un certo Bakhramov, che quando l’arbitro - lo svizzero Gottfried Dienst - gli si avvicinò per chiedergli se il pallone calciato da Hurst, dopo aver sbattuto sulla traversa, fosse entrato in porta oppure no, rimase immobile per un attimo, incrociò lo sguardo severo di Bobby e alla fine annuì”. George mi guarda senza troppo entusiasmo, temo stia per dirmene una delle sue, magari scambiandomi per Onana (che da quelle parti ne sta combinando di tutti i colori). Ma non lo fa, forse mi salva proprio il Gin-tonic, che gli ho appena offerto.

Allora io continuo, mentre la tv adesso manda le immagini della finale di Coppa dei campioni del ‘68.  “Eccola lì, la Coppa dalle grandi orecchie!”: questa gliela dico in italiano, temendo che nella loro lingua non renda.  “Oggi voi giovani la chiamate Champions League, ma allora era la Coppa dei campioni ed erano veri campioni. Pensa, il tuo ManU la vinse contro un certo Eusebio, uno dei più forti calciatori di tutti i tempi. Il Benfica di Eusebio contro il Manchester di Charlton! E allo stadio Wembley! Che storia!”. Volgo lo sguardo su di lui, un po’ incerto, ma deciso. Lo vedo col collo in su e gli occhi appiccicati allo schermo, ma mi rendo conto che la sua attenzione è tutta su di me.  Divago, sboccando anche un po’, mi serve per tenere su la chiacchierata e l’interesse del giovane: “Ma lo capisci che voi avete Wembley? Quello non è uno stadio, è un cazzo di tempio!”. George alza su il bicchiere, dov’è rimasta un po’ di bevanda biancastra, che tracanna tutto d’un fiato. Io faccio lo stesso: forse abbiamo appena brindato alla salute dello stadio. Boh, si vede che i giovani fanno così.

Ne ordina un altro, io ho ancora della birra nel mio boccale. E ho ancora un sacco di cose da raccontare. Forse a lui, forse a me stesso. Chi lo sa? So solo che sta storia del rapsodo, discepolo di Buffa, mi prende la mano. Fuori la pioggia comincia a farsi battente, lo intuisco dal fatto che è appena entrata una coppia di uomini, tutti infradiciati e frettolosi di mettersi al riparo, tra le confortanti pareti di quel locale, che si stringono e si allargano a seconda delle concentrazione etiliche del momento.

“Quello è il mitico United di Matt Busby”, faccio io, forse con aria un po’ troppo professorale. Dallo sguardo sperso di George, intuisco due cose: che i Gin- tonic cominciano forse ad essere un po’ troppi e che non ha la più pallida idea di chi sia questo Busby. Gli spiego che è il perfetto predecessore di Sir Alex Ferguson: scozzese, allo United per ben 24 anni, vincitore di 5 campionati, 2 FA Cup e di quella Coppa dei Campioni lì. Lui appare sorpreso, è evidente che aveva sempre creduto nell’unicità di Ferguson come il più longevo allenatore dei Red devils. La cosa lo incuriosisce. Ne sono contento. Sono lì lì per dirgli dei “Busby Babes”, ma evito. Non voglio mettere molta carne al fuoco e poi lo so come sono fatti questi ragazzi: le storie tristi li annoiano. La tv intanto manda il secondo dei due gol di Bobby Charlton di quella finale ed è per me un assist perfetto: “Eccolo lì! E sono 4! Quella partita é finita 4-1 per voi. Bobby Charlton ne fece due”.

“Che attaccante!”: è la prima frase intera che le mie orecchie odono fuoriuscire dalla bocca del giovane.  Io gli spiego che in realtà Charlton, pur portando la numero 9 e segnando raffiche di gol, non era una punta, bensì uno di quelli che oggi si definiscono trequartisti; un specie di Di Stefano all’inglese. La cosa non sembra interessargli più di tanto. Ora sembra piuttosto catturato dal gol di George Best (che in quel match sigló il momentaneo 2-1). Certo, comprendo che un calciatore glamour deve essere, per forza di cose, più attraente agli occhi di un giovane, rispetto al  Bobby quasi calvo e col riporto, l’esemplare più puro della working class inglese degli anni 60, figlio di un minatore con la posa da gentleman.  Mi lascio perciò andare in un commento favorevole nei confronti del grande numero 7 e viro sullo spettacolo degli spalti, dove più di novantamila spettatori deliravano per i loro beniamini, che quella sera (aveva intanto fatto buio) vestivano di blu e si laureavano campioni d’Europa: “Wonderful!”.Lui mi viene dietro, bofonchiando qualcosa in uno scorrettissimo ma simpaticissimo italiano: “maravilloso”. 

Lo apprezzo molto. Torno su Bobby Charlton e ci torna anche il barista, che da dietro il bancone si lascia andare a uno di quei commenti scontati che sempre condiscono notizie del genere. Charlton era un ottantaseienne affetto, da tempo, da demenza senile e, secondo quel panzone dalla barba incolta e i calli alle mani, la morte è stata la salvezza, la fine delle sofferenze e scemenze simili. Sto per dire qualcosa, probabilmente parimenti banale, quando vedo George smanettare sul cellulare: sta cercando qualcosa su Charlton ed è evidente che l’oracolo Google gli abbia appena rivelato che il Manchester United è stato il club della sua vita, che ha indossato la maglia rossa dal 1957 al 1973, che ha vinto pure 3 titoli inglesi, una coppa d’Inghilterra e 4 Charity Shield, che ha totalizzato 758 presenze e 249 gol. Altrimenti, non si spiegherebbe il suo “Wow, Bobby Charlton!”, sussurrato eppure udibile a kilometri di distanza. Alza in alto il bicchiere, io faccio lo stesso: abbiamo appena brindato alla memoria di Bobby. 

Io me la rido, mentre sorseggio quel che resta della birra. Sono abbastanza soddisfatto del mio operato da narratore sportivo provetto… ditelo a Buffa, magari mi assume. George evidentemente pure. Adesso è lui che vuol offrirmi un altro giro. Accetto. La birra mi arriva in un batter d’occhio, è la terza: una rossa ad alta fermentazione. Giuro che è l’ultima, sennò dovrò chiedere a George di accompagnarmi in albergo, prendendomi sotto braccio. Il barista fa una smorfia, secondo me è un infiltrato del City. Sta per spararne un’altra delle sue, dicendo qualcosa sul destino. Io lo interrompo subito, semplicemente perché non lo sopporto più.

Ma il destino è chiaramente una parola che calamita il mio giovane amico. Questi qua ormai vanno per parole chiavi e concetti stringati, sono i figli di TikTok, della globalizzazione e delle abbreviazioni. E lui sarà molto probabilmente uno di quei ragazzi miscredenti fissati coi disegni del Fato, le congiunture astrali e cose del genere. O forse, più semplicemente, ha visto Sliding doors e ormai pensa che la vita non sia altro che uno scorrere continuo e casuale di porte, che danno accesso alla fortuna o alla sventura. Certo, così è stato per Charlton. Perciò, gli racconto del destino, gli racconto che Robert Charlton era un sopravvissuto. Gli racconto di come, nel novembre del 1958, l’aereo che trasportava il Manchester United precipitò sulla neve dell’aeroporto di Monaco di Baviera, spezzandosi in due tronconi e uccidendo calciatori e giornalisti. “E Bobby?”, mi chiede lui, chiamandolo per nome.  “Bobby si salvò. Poco prima di partire aveva scelto di sedersi in fondo, reclamato dal compagno di squadra Henry Gregg, che era passato al Manchester da pochissimo tempo”. George alza il suo bicchiere in alto, io faccio lo stesso: ho la netta sensazione che abbiamo appena brindato a Henry.

Sono le sette passate, il tempo vola quando si è in buona compagnia. Il pub si va riempiendo, poco a poco, e un vociare composto si sovrappone alle note di Manhattan sky line degli A-ha. Presumo che per le hit del momento ancora sia presto, sicuramente se ne parlerà dopo la partita del Manchester United. George intanto mi chiede dell’Italia, di me, della mia squadra del cuore.  Io rispondo a tamburo battente, ho la testa appesantita, ma sciorino tutto il mio repertorio di perfetto italiano all’estero, che familiarizza ed è proclive agli scambi interculturali e cose di questo tipo. Mi arrabbio un po’ quando gli dico che vengo da Palermo e lo vedo fare una smorfia, che a me non piace molto. Gli parlo della mia città, della mia gente, del clima e del mare di Mondello, dei cannoli e delle arancine, della cattedrale e del Cassaro. E di quanto mi faccia schifo la mafia. Lui strabuzza gli occhi, singhiozzando un “fuck mafia”, mentre posa la sua mano vitiliginosa sulla mia spalla. Io ripeto quella frase, con enfasi maggiore; quell’idiota del barista scuote la testa. Alziamo entrambi i nostri bicchieri, li alziamo allo stesso momento, ormai in perfetta sintonia: credo sia un brindisi all’Italia e alla mia Palermo e “fuck mafia!”.Ho ancora un po’ di birra nel boccale, è la quarta o quinta. Porca miseria, ho perso il conto. La testa gira che è una meraviglia, ma dentro avverto un certo senso di benessere che da tempo non sentivo. 

Adesso la tv dà le notizie che George aspettava, anche se pare non importargli più. Forse vuole sapere ancora di Charlton. Perciò, ricomincio: “Sai che la sua ultima partita Bobby la giocò da noi? A Verona, sì. Conosci Verona, no? Il vostro Shakespeare ci ha campato di rendita per secoli …” “Of corse!”, risponde lui. Ma l’atteggiamento di George è improvvisamente mutato, è di colui che vuol tagliare corto. È appena arrivata una ragazza, la sua ragazza. Si baciano sulla bocca, mi presenta a lei come il suo amico italiano che sa tutto di calcio. Il mio petto si gonfia. Ma non si gonfia solo quello, si gonfia anche lì sotto.  Lei, infatti, mi fa un cenno con la testa, senza entusiasmo. È brutta come la peste, sgarbata come un’arpia. E odia il pallone. Si porta via il mio amico George. Finisco la birra, pago il conto, che è salatissimo. Quel George non mi ha offerto nessun giro e non ha pagato neppure uno dei suoi Gin - tonic. Ma non è questo il problema. Adesso chi mi accompagna in albergo?