Anche il calcio si ferma in Israele. E lo sport, tutto.

Si ferma tutto lì, dove morte e distruzione sommergono la vita sotto macerie e sangue. Lì, dove il terrorismo non ha pietà, fa molti prigionieri e innumerevoli vittime. Lì, dove una striscia di Terra è una striscia di violenza senza fine. Dove religione estrema e dittatura del terrore fanno l’orgia su balconi e pulpiti. Lì, dove l’Occidente del mondo resiste all’assalto pervicace della sopraffazione. Lì, dove la ferocia di un attacco ha poco a che vedere con la fame di gol di una punta e dove le difese non sono schierate a zona o a uomo, bensì dietro sacchi di sabbia e linee di confine. Lì, in Israele, si ferma anche il pallone. 

Impossibile giocare o partire per una trasferta, dopo la scia di morte e distruzione lasciata dai terroristi di Hamas.  Non c’è spazio per il gioco, non c’è tempo per la vita e tutte le cose belle della vita, sport compreso. 

Perciò, partite rinviate e campionati sospesi in molte discipline, a partire dalla Ligat ha’AI, la Serie A del calcio.

Il calcio non è il centro dell’universo, affatto, ma è certo l’ombelico di un mondo che vive in pace e spensieratezza. Perciò, il suo stop è, forse, il segnale più tristemente evidente del dramma che si sta vivendo lì, della morte della civiltà, della fine del mondo. 
È stata pure rinviata la partita Israele-Svizzera, per Euro2024.

Sì, perché Israele vuol dire Europa, vuol dire democrazia, vuol dire Occidente, vuol dire libertà. Ed è per questo che Israele si ribella e muove guerra.

Israele siamo noi e forse dovremmo fermarci anche noi, anziché guardare con un occhio alla tragedia e con l’altro alle partite di Spalletti. È una questione di rispetto, di solidarietà, perché non ha un cavolo di senso andare avanti.

Israele siamo tutti noi. Quei giovani trucidati o fatti prigionieri al rave sono i nostri figli. Quelle donne sono le nostre madri. Quel popolo tenuto sotto scacco dal terrorismo è il popolo d’ogni mondo libero.
Sì, dovremmo fermarci anche noi. Tutti.  Vabbè, sono il solito sognatore, venuto da Marte.
 Lo so, lo spettacolo deve andare avanti, nonostante tutto. 

Ma non in Israele, lì no, non si può. 
Anche le nazionali giovanili si fermano: rinviate le sfide casalinghe della nazionale Under 21, contro Estonia (12 ottobre) e Germania (17 ottobre), partite valide per la qualificazione all’Europeo di categoria del 2025. 
È stato pure annullato il mini torneo Under 17 in programma dal 11 al 17 ottobre, che avrebbe visto protagoniste Israele, Belgio, Galles e Gibilterra.

Tutto fermo. Tutto lo sport. Non solo il calcio. Il basket, per esempio. 

Milano-Maccabi, per l’Eurolega, è da riprogrammare; bloccate anche le principali squadre di basket del Paese.La pallacanestro ha condotto lì un nostro concittadino: è Max Menetti. Il tecnico, ex Treviso e Reggio Emilia, oggi allena l’Hapoel Eilat ed è l’unico italiano nel massimo campionato israeliano. Siamo in pena per lui. Lui che testimonia di “un finimondo senza fine”. Lui che s’è dovuto fermare, come tutto lo sport israeliano.

Tutto lo sport fermo, tutti in silenzio. Tacciono i tifosi, tacciono gli atleti, tacciono i coach. Tacciono tutti. Parlano le bombe, urlano le madri, piangono le mogli, canta litanie funeree un intero Paese.

C’è il lutto in ogni casa, un lutto che non risparmia nessuno, che non guarda in faccia nessuno. 

Nemmeno Lior Asulin, ex calciatore del Maccabi Tel Aviv, morto sotto un fuoco che non scalda, ammazza.  Un altro calciatore, Ben Binyamin del Kiriyat Yam, è rimasto gravemente ferito. E poi c’è Youssi Benayoun (ve lo ricordate?), attuale Ct di Israele, ex calciatore di Liverpool e Chelsea: aveva perso per qualche ora i contatti con la sorella; la donna è stata salvata dal provvidenziale intervento del figlio ventenne, il quale ha ucciso tre miliziani di Hamas, che si erano introdotti nella loro abitazione. Sì, perché in nome della Palestina libera, lì ti entrano in casa e ti trucidano. 

No. Non risparmia nessuno. È un lutto che non guarda in faccia nessuno. E che fa paura.

Alcuni calciatori stranieri che giocano in Israele hanno già abbandonato il Paese; tra i primi a lasciare Manuel Silva, portiere del Beitar Jerusalem.

Il calcio e lo sport, tutto, devono piegarsi alla furia e all’arroganza della guerra. Ma arroganza chiama ignoranza, come quella del tifo organizzato del Celtic, schieratosi apertamente dalla parte di Hamas. Ragazzi scozzesi che inneggiano a coloro che hanno massacrato ragazzi israeliani (e non solo), accorsi a quel rave. Erano andati lì per divertirsi, hanno trovato lì la morte o la prigionia.
Non c’è ragione alcuna in tutto questo. C’è la cecità figlia dell’ignoranza. Ma quale ragione! Se ne è perso il lume. Non c’è nessuna ragione, storica o ideologica o religiosa, che tenga: quelli sono terroristi e per i terroristi non si fa il tifo. 

La Palestina e le rivendicazioni della Palestina non possono diventare il rifugio dei peccatori, se il peccato di cui si macchiano è la morte di migliaia d’innocenti. E mai, e poi mai, si deve mischiare il calcio con simili faccende. Mai strumentalizzarlo. Mai farne il porto franco di apologeti invasati e partigiani del male. Mai! 
Lo sport con la guerra non c’entra, non deve entrarci, anche se le due strade si sono spesso inevitabilmente incrociate.
E lì c’è la guerra!    

Una guerra non è mai giusta, non fa vincitori (sono parole di Papa Francesco), ma delle volte è inevitabile. Questa è una di quelle volte: non ci si può voltare dall’altra parte, di fronte a un vile attacco terroristico, che colpisce il cuore del Paese. 
E non si può tacere al cospetto di un tifo organizzato che parteggia per Hamas: tifosi del Celtic, siete beceri, ciechi, stupidi, di una stupidità che tuttavia non merita indifferenza, merita un secco No.
No ad Hamas, No ad ogni forma di lotta che generi sangue e distruzione. No! Liberi di pensarla come volete, libero io di mandarvi a quel Paese. Vi ci manderei davvero, a quel Paese, ad assaggiare il sapore amarissimo della paura, ad assordarvi col rumore degli spari, ad asciugare lacrime di disperazione. 

Noi stiamo con Israele, noi siamo Israele! 
C’è una stella che ci indica il cammino: è la stella di David. È un astro che continua a subire soprusi, odio e morte. E che da sempre divide il mondo tra coloro che solcano e coloro che calpestano. Tra coloro che camminano e coloro che marciano. 
Io so bene da che parte stare.