Mio padre and The keeper
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... segue 

L’indomani sarebbe stato il giorno del mio colloquio di lavoro in casa Pirrone: più ci pensavo, più non sapevo se piangere o ridere e alla fine non facevo né l’una né l’altra cosa; semplicemente, lasciavo che la ratio sconclusionata di quella mia autodeterminazione fosse, per ciò stesso, l’unica cosa giusta da fare, a prescindere da tutto e da tutti. Già sapevo che sarebbe stata comunque una notte in bianco, una di quelle sere che è difficile prender sonno, che è meglio tirar tardi e stancarsi fino allo sfinimento.
Non cenai, non avevo appetito, men che meno voglia di sentire le proteste di mia madre, che liquidai con la scusa di sentirmi costipato. Mi piazzai direttamente sul divano, nella stanza della tv. Mentre aspettavo che mio padre finisse di mangiare il suo pasto da uccellino e, come ogni sera, venisse a stravaccarsi sulla sua intoccabile poltrona davanti a quello stesso televisore, cercai un film. Mio padre si era sempre fidato delle mie scelte cinematografiche o, forse più banalmente, per lui un film ne valeva un altro purché si rilassasse un paio d’ore davanti alla tv. Era un film storico sul calcio, ne avevo sentito parlare da qualche parte. The keeper: la storia di un paracadutista tedesco che durante la prigionia in Inghilterra viene notato per le sue abilità di portiere, tra pregiudizi e stereotipi che il giovane supera grazie anche ad una donna inglese.
Lo divorammo, io e mio padre, a cui raccontai anche di una strana partita tra soldati inglesi e tedeschi durante la prima guerra mondiale, passata alla storia come Tregua di Natale. A lui piacque starmi ad ascoltare, a me piaceva che lui mi stesse ad ascoltare dietro quell’alone di compiacimento che gli attraversava lo sguardo severo. Ci fumò su non so quante sigarette, io ci bevvi su un bicchierino intero di amaretto (l’unica cosa di alcolico che sono mai riuscito a bere, se si eccettua il mezzo calice di Brunello di Montalcino che ad ogni primo dell’anno bevo in famiglia, un po’ per tradizione e senza entusiasmo).
Mia madre era già a letto da un pezzo, noi ci attardammo, consumando futilità frammiste a qualche massima e a qualche aneddoto. A far da tacito sottofondo alle nostre chiacchiere era il pensiero di quel colloquio di lavoro dell’indomani, la prospettiva, tanto assurda quanto concreta, di diventare, io (proprio io!), l’uomo delle pulizie di casa Pirrone.
Insomma, si coglieva il senso della vigilia
. Una vigilia completamente diversa dalle altre, le vigile “alte” e solenni del mio successo (o di quel che vi somigliava mentre l’assaporavo). Non so cosa davvero pensasse mio padre di tutta quella situazione e non avevo il coraggio di chiederglielo. A me comunque bastava quel film guardato insieme per sentirlo nuovamente vicino. Avevo trascorso tutta la mia esistenza ad elemosinare un’oncia di sua approvazione, avrei trascorso tutta la notte lì con lui, consumando sigarette passive e amaretti fino ad ubriacarmi, e comunque io non avevo sonno. Mio padre invece sì, e lo sbadiglio improvviso che gli deformò la bocca era il familiare annunzio della resa a Morfeo.
Si alzò dalla sua poltrona, biascicò un malinconico “buonanotte” e andò di là. In quel momento pensai che non si smette mai d’essere figli e non s’impara mai ad esser padri. Chissà se anche lui la pensasse allo stesso modo: glielo avrei chiesto un’alta volta, sperai.
Io rimasi un altro po’ sul divano, a guardare lo schermo nero del televisore spento, riflettente la mia stessa sagoma. Avevo un tal groviglio di pensieri in testa e un tale miscuglio di sensazioni nel cuore, da non riuscire a distinguerli. Mi sentivo sopraffatto da quella sagoma nera, come se mi parlasse intimandomi al contempo di stare zitto e non rispondere. Fino a che, facendo leva sulle mie anchilosate ginocchia, non mi alzai da quel divano e non le dissi basta.
Andai a letto: un whatsapp a Ciccio, il mio solito, indolente spolliciare sul telefono e insperatamente presi sonno. Ma l’ultima immagine che mi s’impresse nella mente fu la faccia ostile di Angela, quasi come se l’avesse lasciata lì, sul cuscino di quell’ultima notte in cui avevamo dormito insieme.

I Pirrone abitavano in un grazioso appartamento di un grazioso stabile di via Ragusa, una stradina che lambisce la parte nobile della città di Palermo. Terzo piano, unica scala e niente portiere. Ottimo! esultai: niente portiere significava un saluto in meno da dedicare, un finto sorriso in meno da consegnare, una parola in meno da scambiare, un testimone in meno da portare al banco di tutte le scommesse che avevo perduto.
Era un mite sabato pomeriggio di metà aprile quando premetti il pulsante del citofono. Sentii il cuore ballonzolare dentro il petto, mentre aspettavo che qualcuno rispondesse, mentre una parte di me sperava che nessuno rispondesse. “Chi è?”: era un gridolino, stridulo e festoso. “Sono Giuseppe, quello delle pulizie”: non credevo alle mie orecchie, l’avevo detto davvero. Lo stavo facendo davvero. “Un momento …”. Seguirono alcuni secondi d’attesa, nel sottofondo del mio cuore ancora ballonzolante e di quella vocina, che si fece più sostenuta: “Mamma, c’è un signore che fa le pulizie…”. Sorrisi, dolce e, soprattutto, amaro. Poi uno scatto, il portone si aprì, mentre io, come un piunco, ancora aspettavo che la mamma chiamata a gran voce si materializzasse in un gracchio tra le fessure del citofono.
Entrai, presi l’ascensore, conoscevo il piano grazie alla solerzia di mia madre, la quale mi aveva riempito d’informazioni, neanche fossi un guerriero in procinto di espugnare una fortezza.
Mi guardai allo specchio, mentre lentamente salivo su. Non pensavo a nulla, mi diedi una sistemata, preso dall’irrefrenabile impulso che ci invade ogniqualvolta ci troviamo davanti allo specchio di un ascensore. Mi resi conto come il paio di chiletti in più dell’ultimo periodo non penalizzassero affatto la piacevolezza del mio aspetto. Ero vestito bene, in fondo quello era un colloquio di lavoro e ai colloqui ci si presenta ben vestiti.
Temetti tuttavia di aver esagerato con quell’abito grigio, giacca e pantalone sopra la camicia azzurrina: la rituale divisa dell’altra mia vita, una vita fa, la vita che avrei desiderato vivere per sempre e che invece mi aveva ucciso dentro. Sperai soltanto che la mancanza di cravatta bastasse a presentarmi per quello che ormai ero diventato o, quantomeno, aspiravo ad essere: l’uomo delle pulizie. Insomma, avevo decisamente sbagliato outfit. Ad ogni modo, ormai era tardi.
Pigiai il campanello, scrollai le spalle. Qualche secondo d’attesa e la famosa mamma aprì, accogliendomi con un falsissimo sorriso smaltato. Prima di andare al colloquio, l’avevo ovviamente cercata su Facebook, come ormai si fa con tutte le persone comuni di cui vuoi sapere qualcosa; per farlo avevo creato un falso profilo, dal momento che avevo cancellato la mia esistenza dai social. Neanche lei aveva un profilo suo (o almeno non col cognome da sposata, l’unico che conoscessi). Il marito invece sì, anche se si collegava ogni morte di papa e della sua vita privata non postava praticamente nulla, fatta eccezione per qualche rara, anonima foto. Esitante, come non lo ero mai stato davanti a centinaia di persone, entrai e sentivo addosso il peso di due occhi che mi studiavano, mi esaminavamo, mi vivisezionavano.
“Si accomodi in cucina, io sono Adele. Adele Pirrone”.
La sua voce mi giunse come un suono atono. S’era presentata col cognome del marito e questo mi piacque. Stavo per darle la mano, ma intuii il pericolo imminente di restare col braccio teso, il palmo aperto a una stretta negata e un mare d’imbarazzo.
Mi sedetti su una delle quattro sedie ultramoderne che segnavano i posti d’un tavolo rettangolare con ripiano in vetro e i piedi in lucido alluminio. “Giuseppe Mendola”, bofonchiai appena.
La padrona di casa si sedette di fronte a me, lasciando che quel tavolo segnasse una distanza siderale tra di noi. Era un intrigante miscuglio di freschezza ed imponenza, una matrona nel corpo di una ragazza garbatamente sbarazzina. A prescindere da quanti anni avesse, erano anni portati bene.
Nella sua compostezza di giovane e fiera donna borghese, andò subito al sodo, non senza aver prima manifestato, a parole, quel misto di sorpresa, incomprensione e scetticismo che si portava stampato in faccia fin dal momento in cui aveva aperto la porta di casa sua.
“Che ci fa uno come lei qua?”. Fu diretta, forse anche un po’ brusca, ma la cosa non mi turbò. Anzi, parlarne subito avrebbe cancellato quel punto interrogativo che aleggiava nel suo profondo sguardo castano.
Decisi di esserlo altrettanto, del resto era evidente che si trattasse di una donna intelligente, quindi, pensai fosse inutile girarci intorno: “Mi serve un lavoro, un lavoro vero”. “Lo ha mai fatto questo lavoro?”. Chinai il capo. “No di certo…”, mi lasciai scappare, pentendomi subito di quella concessione alla mia fierezza (o a ciò che ne rimaneva)… “Ma imparo in fretta” e nel dire quella bugia, la guardai per la prima volta dritto in faccia, senza esitazione.
Sorrise appena: “Nasser era bravissimo, sapeva fare tutto: cucinare, stirare, pulire, badare al bambino. Tutto”.
“Chi è Nasser?”. Lo sapevo, ma l’istinto mi spinse a chiederglielo ugualmente.
“Il ragazzo indiano che veniva da noi. È rimasto a lavorare in questa casa per sette anni. Una gran perdita, lo adoravamo”.
“Se posso chiedere, perché è andato via?”. La signora Pirrone agganciò una ciocca dei suoi mossi capelli corvini all’orecchio imperlato da un punto luce, tradendo un certo nervosismo; e io non capii se fosse per la mia insolenza (se mai lo fossi stato) o per la perdita del prezioso indiano.
"È tornato al suo paese”, rispose seccamente.
“Capisco”. Avevo già imparato che nei colloqui di lavoro il silenzio è il peggior nemico del candidato. E forse anche della signora Adele, che riprese: “Dicevo, Nasser sapeva fare tutto. Lei mi sta dicendo che praticamente non sa fare nulla …”.
Chinai di nuovo il capo, forse era stata davvero un’idea strampalata. Cominciai a chiedermi: cosa cazzo ci faccio qui?, mentre lo sguardo abbacinante della padrona di casa diventava insostenibile “… Non si offenda, Giuseppe, ma credo che debba cercare altro”.
Sospirai, così profondamente che temetti d’esser stato maleducato. Facendo leva sulle gambe, mi alzai da quella scomodissima sedia Cartel, con le labbra strette e il disagio sottolineato dalle sopracciglia aggrottate.
“Forse ha ragione lei – ammisi dimesso – grazie comunque per il suo tempo. E per avermi fatto entrare in casa sua”.
La donna si alzò, questa volta mi tese la sua mano curatissima e fu il gesto più vicino al pietismo di circostanza che potesse concedermi.
Gliela strinsi, col maggior riguardo possibile. Sembrava turbata o forse era solo sorpresa della mia subitanea arrendevolezza.
Mi accompagnò alla porta, che aprì sussurrando: “Mi dispiace, le auguro il meglio”.
Io annuii, sconfitto e senza difese. Quella fortezza era inespugnabile. Voltai le spalle a una porta che si chiudeva dietro di me e mi schiudeva nuovamente le porte dell’Inferno. Quell’inferno che solamente un uomo alle soglie dei cinquanta, senza un lavoro e senza un mestiere, può conoscere.
Cercare altro… che ne sapeva lei! Chiamai l’ascensore, pronto ad affrontare quel mostro d’inconcludenza che sarebbe apparso allo specchio.
Ma prima che l’ascensore arrivasse, quella porta si aprì nuovamente: “Ciao, signore delle pulizie!” e si richiuse.
Era il dispetto di un bambino capriccioso. No, era il gioco di un bambino annoiato. No, era la curiosità di un bambino sveglio. Non sapevo cosa fosse, però mi fece sorridere.

Nulla di fatto. Tra le tante cose che avrei potuto essere, non c’era il rider e non c’era l’uomo delle pulizie. E con questa consapevolezza mi sarei lasciato vivere dai giorni che trascorsero appresso.
Fu in quei giorni, d’inedia e solitudine, che decisi di scrivere questa storia. Sapevo di andare incontro all’ennesima delusione della mia vita: sfondare nell’editoria, in un Paese di tutti scrittori e pochissimi lettori, è praticamente impossibile. Mi sarei fugacemente crogiolato negli occhi inguaribilmente speranzosi di mia madre, avrei nuovamente immusonito mio padre, avrei goduto dei complimenti automatici di parenti e amici, quello sciacallo di mia moglie avrebbe banchettato sulla carcassa del mio ennesimo buco nell’acqua, mi sarei sentito scrittore per quindici minuti e buonanotte al re dei sognatori.
Il fatto è che non avevo niente da fare, dovevo impiegare il tempo.
Continuare a cercare lavoro? No. Dissi basta e lasciai che il destino, a cui tante volte m’ero affidato, faticasse per me.
Qualcosa succederà: avevo sempre superato i miei stalli con questa convinzione. Del resto, non poteva piovere sempre.
E infatti smise presto.
Appena un paio d’altre settimane di tempo perso a perdermi in me stesso, e una nuova opportunità si sarebbe presentata davanti a me.
L’avrei colta al volo, non avrei fatto mai il rider, non avrei fatto mai l’uomo delle pulizie, ma avrei fatto il portiere d’albergo (o giù di lì)...

continua...