23 Novembre 1980
Si era svegliato contento, Saverio. Era domenica, e già solo questo, di per sé, sarebbe potuto bastare: era fine novembre, le giornate si erano fatte più corte e la mattina, per arrivare a Matera alle 8, partendo col postale da Craco, toccava svegliarsi che era notte fonda, né più né meno di quando ci si era andati a coricare.
Quel giorno, quell’unico giorno di tregua era una festa. Alle 9 c’era la messa dei ragazzi, la messa di Don Cosimo, che cronometro alla mano, non durava mai più di 30 minuti. Don Cosimo, si vedeva bene, soffriva a star fermo come un uccello dalle grandi ali variopinte tenuto al buio di una soffitta. La partitella con i ragazzi era per lui il giusto sfogo di un’esuberanza altrimenti ingiustamente repressa. Si diceva che da ragazzino don Cosimo avesse sostenuto con successo un provino, e che fosse in procinto di trasferirsi a Torino per giocare nella primavera della Juventus. Poi sua madre all'ultimo, cambiò idea. Proprio non ce la faceva a separarsi così presto da suo figlio, che allora aveva 12 anni. Insomma, don Cosimo dovette rinunciare a quell'occasione importantissima, ma senza grossi rimpianti. Sicuramente, se avesse voluto, se ne sarebbero presentate altre negli anni a venire, ma nel frattempo era arrivata un'altra chiamata, quella dell'Altissimo, che aveva deciso per lui una vita diversa, una vita dedicata agli altri.
Era di buon umore, Saverio, e a c’entrarci era, guarda caso, proprio la Juve, che ospitava in casa, al Comunale l’Inter di Altobelli e Muraro. Gara di cartello dell’ottava giornata di campionato, per la Juve, rimaneggiatissima era un banco di prova notevole. Una sconfitta l’avrebbe collocata in una posizione di classifica da cui difficilmente avrebbe potuto, una volta recuperati i tanti titolari assenti, uscire.
Come sempre, si giocava a partire dalle 14:30, ma trattandosi di gara di cartello, oltre alla solita, scontata radiocronaca di tutto il calcio minuto per minuto, e le immagini delle azioni più importanti su novantesimo minuto, c’era la quasi certezza che della gara fosse poi trasmessa anche la solita ampia sintesi su Rai 1. Questo era più che sufficiente per mandare in agitazione gli animi, dei ragazzi, ma anche degli adulti, che per quella quarantina di minuti potevano scordarsi di essere “grandi”.

A rendere più sopportabile l’attesa di conoscere le formazioni e di mettersi tutti intorno alla radio per tifare Juve, c’era una sontuosa pasta al forno, cucinata da mamma Rosina, preparata seguendo la classica ricetta, ma con un ingrediente segreto che si era sempre rifiutata di rivelare, e che, a chi gliene chiedeva almeno l’origine, lei amava spesso raccontare, romanzandoci su un bel po’, che le fosse stato rivelato in punto di morte da sua nonna, e che adesso conosceva solo lei. Ogni volta che la domenica capitava di mangiare la pasta al forno, questo benedetto ingrediente segreto tornava sempre in ballo, tra mille supposizioni, tutte invariabilmente sbagliate. A Saverio, di conoscere quale fosse l’ingrediente segreto, che riusciva da anni a monopolizzare la conversazione a tavola interessava pochissimo. A 12 anni certe cose le dai per scontate, erano altri i pensieri e i sogni che affollavano la sua mente di ragazzo.
Con l’aiuto di don Cosimo, Saverio avrebbe voluto provare a realizzare il sogno che anni prima don Cosimo stesso aveva, solo per pochi giorni, accarezzato; quello di diventare un calciatore affermato, un campione. Mamma Rosina, di questo, non voleva neanche sentir parlare. Guarda un po’ se una cristiana fervente e devota, che affida con fiducia suo figlio nelle mani di sacerdoti, catechisti ed educatori, confidando che anche fuori di casa cresca in un ambiente sano, debba sentir fatti in casa propria discorsi di primavera, allenatori, provini.
Aveva mandato suo figlio a frequentare la parrocchia convinta che tra quelle mura venisse piuttosto coltivata la passione per lo studio. Dove, l’unico pericolo in agguato poteva tutt’al più essere, come era successo a don Cosimo, di sentire questa benedetta chiamata, pericolo, anche quello, verso cui stare sempre in guardia, ma comunque enormemente più facile da “disinnescare”, con l’aiuto dei sacerdoti stessi, che quando un ragazzo pensa e dice di sentire la vocazione hanno il preciso compito di cercare di dissuadere il ragazzo, mettendo in tutti i modi alla prova la sua volontà, per capire quanto questo richiamo sia reale, e non frutto di una “infatuazione” passeggera.
Questa storia degli allenamenti in preparazione di un provino per giocare nelle giovanili del Matera era durata fin troppo. A don Cosimo gliel’avrebbe detto forte e chiaro; bene giocare a pallone per divertimento e per stare insieme, ma ogni altro tipo di velleità andava bloccata sul nascere. Priorità allo studio!
Mentre mamma Rosina era intenta nei suoi ragionamenti, la truppa degli uomini di casa si era spostata di là, in sala, per poter ascoltare comodamente tutto il calcio minuto per minuto, la cui musichetta riecheggiava ogni domenica in svariati milioni di case italiane, dalla Sicilia alla Val D’Aosta.
La voce di Enrico Ameri snocciolava a pochi minuti dalla partita le formazioni delle due squadre:
Juventus:

  • Dino Zoff
  • Antonello Cuccureddu
  • Antonio Cabrini
  • Beppe Furino
  • Carlo Osti
  • Gaetano Scirea
  • Franco Causio
  • Marco Tardelli
  • Domenico Marocchino
  • Liam Brady
  • Piero Fanna

Inter:

  • Ivano Bordon
  • Nazzareno Canuti
  • Beppe Baresi
  • Giampiero Marini
  • Roberto Mozzini
  • Graziano Bini
  • Gabriele Oriali
  • Herbert Prohaska
  • Alessandro Altobelli
  • Evaristo Beccalossi
  • Carlo Muraro

Allenatori: Trapattoni (Juventus) e Bersellini (Inter)
Arbitro Alberto Michelotti da Parma

Ore 14:30, partita cominciata all’insegna della prudenza, le due squadre si studiano e rimangono inizialmente “abbottonate”, nella seconda metà del primo tempo squadre più intraprendenti le occasioni non mancano, sia da un lato che dall’altro, ma la partita si mantiene in equilibrio. Si torna negli spogliatoi in parità: 0 a 0.
Nella ripresa, a sbloccare il tabellino delle marcature, un rigore accordato a 5 minuti dall’inizio della ripresa, segnato da Liam Brady, che obbliga l’Inter a farsi più pericolosa. Al 62° Bersellini prova la carta Pasinato al posto di Beppe Baresi, ma è la Juve, che in un batti e ribatti sotto la porta dell’Inter riesce a buttarla dentro ancora una volta, con un colpo di testa di Scirea. Al 76° Bersellini toglie Muraro e butta dentro Ambu, mossa disperata che si rivela azzeccata! 3 minuti dopo il suo ingresso in campo, è proprio Ambu che porta di nuovo a 1 il vantaggio della Juve.
All’84° la mossa di Trapattoni per guadagnare qualche secondo e togliere un Marocchino esausto, è quella di inserire Verza.
La partita finisce così: con la vittoria della Juventus, che riesce così, pur rimaneggiata a rimanere a traino delle prime. Il derby d’Italia era ancora una volta finito alla Juve, festa grande a casa di Saverio! Lo zio Piero, fratello di mamma Rosina, come se non bastasse, aveva addirittura azzeccato un 12 con uno dei sistemoni proposti dall’unica ricevitoria di Craco. A quale vincita corrispondesse era difficile dirlo, ma guardando le altre partite spiccavano due risultati senza dubbio sorprendenti: la Roma di Liedholm sconfitta a Cagliari per mano di Virdis e la Fiorentina fino a quel momento imbattuta, sconfitta dal Como. Insomma, anche su questo fronte la giornata prometteva decisamente bene! Per saperne di più, toccava aspettare la Domenica Sportiva, dove la cifra esatta (da dividere con gli altri giocatori del sistemone) sarebbe stata comunicata.
A scandire i momenti del pomeriggio: Novantesimo Minuto, dove Saverio poteva finalmente dare forma e sostanza a quelle che fino a quel momento erano state solo immagini pensate. Azioni solo immaginate, descritte mirabilmente da Enrico Ameri, ma che ovviamente non chiedevano altro che di tramutarsi in immagini reali, riprese da telecamere reali! Il rigore di Brady, calciato come sempre con freddezza, aveva spezzato l’equilibrio, spingendo l’Inter a rischiare qualcosa in più. Pur conoscendo il risultato, ogni volta rivedere i gol era sempre un momento buono per gioire ancora, ma con un occhio meno da tifosi, e più da conoscitori, da appassionati. Almeno, era questo che papà Michele e lo zio Piero, in modo inconsapevolmente comico, ostentavano.
Saverio li guardava, mentre recensivano con piglio critico la posizione in campo di quel giocatore, piuttosto che di quell’altro, che evidentemente non era in giornata, avendo più volte commesso errori gravi a centrocampo, regalando così almeno due occasioni che solo l’intervento pronto di Zoff era riuscita a neutralizzare. Non c’erano dubbi: la vittoria sembrava schiacciante, ma a stabilirlo in modo definitivo, doveva essere, ora, un’attenta analisi della sintesi che i due si apprestavano a visionare con occhio quanto più critico possibile, in modo da anticipare e (possibilmente) rintuzzare efficacemente ogni possibile spunto polemico dei non pochi antijuventini di cui Craco brulicava.
Naturalmente, sperare che per una volta gli interisti accettassero sportivamente di aver perso per loro demerito, senza mettere di mezzo l’arbitro, era speranza vana. Le inestinguibili polemiche al bar si sprecavano. Anziché Bar Sport avrebbero potuto chiamarlo Bar Lamento… Certo, se a sbloccare la partita fosse stato un gol fatto su azione, anziché un rigore (tra l’altro, non evidentissimo, ma che poteva starci), il compito dei due, l’indomani, sarebbe risultato decisamente più semplice. Conveniva ripercorrere molto attentamente la sintesi che stava per iniziare, per arrivare pronti al probabile fuoco di fila del lunedì.
Concluso novantesimo minuto del sempre ottimo Paolo Valenti, partiva finalmente la sintesi della partita. La concentrazione era ai massimi livelli, e Saverio non si sarebbe perso, per nulla al mondo, le scene di comicità involontaria che i due erano capaci di offrire, con il loro atteggiarsi a gran conoscitori del calcio. Don Cosimo, lui sì che davvero ne capiva, ma naturalmente non si sognava minimamente di dirlo! Mentre i tre uomini di casa erano intenti ad analizzare con tutta la concentrazione e attenzione possibili gli eventi, man mano che si verificavano, prendendo appunti e proseguendo nel loro impegnativo compito di istruire la difesa di un processo che l’indomani, ne erano certi, sarebbe stato durissimo. Mamma Rosina, abituata a questi eccessi, sapeva che era molto meglio aspettare che la sintesi finisse, piuttosto che tentare di distoglierli da loro intento. Per pura gentilezza d’animo aveva comunque portato in sala, senza essere minimamente considerata, un vassoio con degli aperitivi che stava appoggiando sul tavolo.

Una volta appoggiato il vassoio coi bicchieri sul tavolo, mamma Rosina stava per tornare in cucina quando notò una stranezza: i bicchieri che erano sul vassoio che aveva appoggiato già da diversi secondi sul tavolo continuavano a tintinnare senza che il rumore accennasse a diminuire. Al contrario, non solo i bicchieri, ma poco alla volta tutto in casa cominciava a far rumore, un rumore sempre più forte.
Tutti e quattro si trovavano in salotto e non avendo il coraggio di dirselo a voce se lo dissero guardandosi negli occhi.
Il rumore era ora assordante e i quattro erano come pietrificati dallo spavento.
Pochi secondi ancora e la luce se ne andò. Erano le 19:34 di domenica 23 novembre del 1980, il sole era tramontato già da un bel po’, la luce che proveniva da fuori non era sufficiente, gli occhi erano abituati alla luce delle lampadine del lampadario e della TV, e prima di adattarsi alle nuove condizioni dovevano passare ancora un bel po’ di secondi. Soprammobili e quadri cominciavano a cadere sul pavimento. Cercandosi a vicenda si presero per mano e cercarono di uscire dalla sala dove ormai cadeva di tutto. Ad un certo punto il soffitto cedette. Quasi contemporaneamente cedette anche il pavimento.
Si trovarono così, tutto e tutti, a cadere per qualche istante nel vuoto. Il soffitto, in caduta libera, non aveva ancora incontrato nulla che si opponesse al suo franar giù. Tutto si svolse in pochi stanti. Un istante prima cadevano senza essere ancora stati raggiunti e schiacciati, l’istante dopo, quando la loro corsa verso il basso si era esaurita, finirono schiacciati, travolti dalle macerie del palazzo. Quando tutto finì, si sentivano voci provenire da fuori.
Tanti, sepolti dalle macerie, ma ancora vivi, gridavano per il dolore di essere schiacciati, altri chiamavano i propri cari, nella speranza che, come loro si fossero salvati.
Saverio era tra quelli che erano rimasti schiacciati, ma che non erano morti. Da non molto lontano, forse un metro, sentiva provenire un respiro sofferente, una specie di rantolo. La voce sembrava quella della mamma. A giudicare dal suo respiro, sempre costante, sembrava quasi che stesse dormendo. Saverio cercava in tutti i modi di avvicinarsi a lei, ma le macerie lo tenevano immobilizzato. Attorno a loro c’erano anche altre persone, l’inquilina del secondo piano: una signora, vedova, sulla sessantina, che viveva sola, e che al momento del crollo era in sala, intenta a guardare la TV, e quelli del primo piano: una giovane coppia di sposini, entrambi intrappolati in quella che qualche minuto prima era la cucina, lui intento ad apparecchiare, lei a cucinare. Si trattava, infatti, di una palazzina di tre piani, di cui, la famiglia di Saverio occupava il secondo. Quelli che si erano salvati erano coloro che erano in strada, usciti a fare due passi, oppure quelli che stavano tornando a casa dopo aver assistito alla messa domenicale serale delle 18:30. Per fortuna la messa era già finita, e questo nonostante a officiarla fosse Don Nicola, che ogni volta trovava modo, durante l’omelia, di dilungarsi, avendo il brutto vizio di farla a braccio, e quindi con la possibilità, nient’affatto remota di partire parlando dell’argomento affrontato durante le letture per poi sfociare in una tavola rotonda sui massimi sistemi. Don Nicola, per una volta l’aveva fatta giusta: se l’avesse fatta durare 40 minuti, o anche meno - come don Cosimo per intenderci - i fedeli avrebbero avuto tutto il tempo di tornare nelle loro case, ed essere quindi colti dal sisma non per strada ma a casa. Se l’avesse fatta durare troppo, i fedeli sarebbero rimasti schiacciati dalle macerie della chiesa. Invece don Nicola, facendola durare 45 minuti aveva salvato (inconsapevolmente, ma meritoriamente) tutti quelli che avevano assistito alla messa, avevano avuto il tempo di uscire dalla chiesa prima che crollasse, ma non avevano avuto tempo a sufficienza per raggiungere le proprie abitazioni, facendosi così cogliere dal sisma quando erano ancora in strada, di fatto salvandosi.

Saverio era vivo, ma sepolto dalle macerie. Riusciva con molta fatica a respirare, ma il peso delle macerie sul torace era troppo forte e gli impediva di parlare. Continuava a sentire quel rantolo che sembrava scandire il respiro di una persona che aveva perso conoscenza. Saverio ne era convinto, si trattava della mamma. Il braccio destro era bloccato da qualcosa che lo schiacciava contro le macerie sottostanti, ma l’altro braccio riusciva a muoverlo: per qualche ragione, le macerie che avrebbero dovuto tenerlo schiacciato erano sostenute da qualcosa che si era frapposto, quasi guidato da una volontà divina tra lui e le macerie. Col braccio sinistro cercava di scavare sotto di sé un po’ di spazio vitale. Erano nel frattempo passate alcune ore, il respiro sofferente non cessava, anche se meno frequente e meno intenso, era sempre lì, a fargli compagnia. Si sentivano altre voci, ma nessuna conosciuta: papà Michele e zio Piero purtroppo no. Ma neanche La signora del piano di sopra né gli sposini del piano di sotto. A parte la mamma, priva di sensi, l’unico sopravvissuto sembrava essere lui. Si sentivano le voci delle prime persone che stavano, poco alla volta, prestando soccorso a chi era rimasto sepolto. Con l’unica parte del proprio corpo libera di muoversi, poco alla volta stava riuscendo a scavare una nicchia più spaziosa, che gli avrebbe permesso di spostarsi nella direzione da cui arrivava il respiro.

Erano passate altre ore, si cominciavano a vedere, attraverso le macerie, le luci del mattino. Anche se grottesco, gli venne in mente che a quell’ora probabilmente, a scuola, stavano facendo l’appello e lui invece di essere lì, si trovava imprigionato “a casa”. Chissà se il terremoto era arrivato anche a Matera, chissà se i professori gli avrebbero creduto quando avesse portato la giustificazione firmata dai genitori dove avesse dichiarato di essere stato impossibilitato ad andare a scuola perché intrappolato sotto le macerie della propria casa.
Il respiro era sempre più vicino. Con la luce del giorno capiva che la direzione verso cui scavava era quella sbagliata. Se avesse voluto uscire avrebbe dovuto scavare a sinistra, ma non avrebbe mai abbandonato, lì da solo, quel respiro sofferente. I rumori provenienti da fuori erano sempre più forti, si sentivano cani abbaiare e piccole ruspe che sollevavano le macerie e le spostavano, ma si muovevano con molta cautela per evitare di schiacciare chi era ancora sotto.
A tutto questo rumore, venivano alternati momenti di silenzio assoluto, per cercare di captare, anche con microfoni ad alta sensibilità, qualsiasi rumore o segno di vita proveniente dalle macerie. Saverio, ogni volta che c’era silenzio, si sforzava di sentire il respiro, che era sempre più debole e sempre meno regolare. Le luci del giorno lasciarono nuovamente spazio al buio della sera, ma ad un certo punto cominciarono a sentirsi i rumori degli alternatori a gasolio che fornivano energia alle lampade e ai fari, per continuare la ricerca.
Saverio era riuscito poco alla volta a spostarsi, riuscendo anche a toccare la mano della mamma. Era tiepida, lui la stringeva con delicatezza, come fosse un fiore delicatissimo, una fiammella che rischiava di spegnersi in ogni momento. Il respiro era ormai impercettibile. Avrebbe voluto fare qualcosa, qualsiasi cosa per svegliarla. Provava, di tanto in tanto ad accarezzarle la mano, o a farle un piccolo massaggio con le dita sul palmo della sua mano, un po’ come era solito fare, quando le faceva il solletico, cosa che soffriva terribilmente e che la faceva ridere tantissimo. Ad un certo punto, rumori o non rumori, Saverio si ritrovò nuovamente lontano dalla mano e dal respiro. Probabilmente, senza rendersene conto, si era addormentato, e nel sonno si era girato dalla parte della luce, perdendo il contatto con la mano. Immediatamente si rigirò per cercare di nuovo la mano e il respiro sofferente della mamma. Gli sembrò di averla sfiorata per un istante, solo che la cosa che aveva toccato era decisamente più rigida e più fredda. Continuò per qualche istante a cercare, fin quando non capì che quella cosa fredda e rigida era la mano che stava cercando. E che il respiro pieno di sofferenza e di affanno aveva smesso di respirare e di soffrire. La sua mamma era morta, mentre lui si era addormentato e aveva smesso di tenere la sua mano con sé, lei era andata in cielo. Aveva voglia di piangere, ma il suo corpo disidratato glielo impediva.
Con la morte nel cuore, Saverio capì che se voleva salvarsi avrebbe dovuto dirigersi verso le luci, che in parte trapelavano sotto le macerie. Prese la mano della mamma e le fece per l’ultima volta con le sue dita “il solletico” sul dorso. 
Poi andò.

Dedicato a Saverio.


clicca qui per gli episodi precedenti:
Gente e storie di vita lucane (III)
Gente e storie di vita lucane (II)
Gente di Lucania... con finale a sorpresa