Don Angelo
La parrocchia di San Francesco da Paola, a Montescaglioso, da quando era arrivato don Angelo, era cambiata da così a così!
Chiamala Provvidenza, chiamala fortuna, chiamala pure come ti pare, ma da quando don Angelo aveva messo piede dentro la parrocchia di S. Francesco da Paola, tutto aveva cominciato semplicemente a girare per il verso giusto! Trovare qualcuno scontento dell’arrivo di don Angelo era praticamente impossibile, e questo perché, qualsiasi cosa facesse, qualsiasi risultato raggiungesse, trovava sempre il modo di convincerti che se non fosse stato anche per te, per una tua idea, per un tuo aiuto concreto, o anche solo per il tuo incoraggiamento in un momento di sconforto, quella cosa non sarebbe stato possibile farla. Almeno, non così bene, non in così poco tempo…
Dietro ogni cosa buona c’era lui... ma c’eri anche tu!
A vederlo all’opera, don Angelo, trent’anni ancora da compiere, con questo suo talento sembrava esserci nato. Eppure, che ci crediate o no, don Angelo sarebbe stato un bambino come tanti altri, se non fosse che, a 10 anni, i suoi genitori, non più in grado di mantenerlo, lo accompagnarono al seminario di Matera, affinché gli fosse data un’istruzione, e, se Dio l’avesse voluto, la possibilità di intraprendere la via del sacerdozio.
Saverio (così si chiamava, prima di essere prescelto dall’Altissimo) dovette aspettare altri 10 anni prima di poter rivedere sua madre (suo padre nel frattempo era morto). Era giunto il gran giorno, finalmente avrebbe potuto ricevere i voti. Don Angelo era felice. In tutti quegli anni era riuscito, con grande forza di carattere, a trovare in tutto ciò che lo circondava, in tutte le persone che aveva incontrato lungo il suo cammino, sempre il lato migliore. L’unica cosa che per lui era rimasta segretamente un cruccio irrisolto era il voto di castità. Cercava di non pensarci, chiedeva a Dio di dargli la forza di donare tutto se stesso agli altri, nelle azioni e nella preghiera. Ma era il suo corpo a ricordargli che lui era un uomo. Una parrocchiana in particolare, ragazza bellissima, sembrava aver capito tutto e quasi per divertimento non perdeva occasione di dire o fare qualcosa che risvegliasse in don Angelo i suoi sensi sopiti.  
Un giorno, Teresa, così si chiamava, chiese a don Angelo di potersi confessare, e visto che l’unico confessionale era in quel momento occupato dal Parroco, si recarono in canonica, dove avrebbero potuto parlare senza essere disturbati.
Don Angelo era tranquillo: non c’era parrocchiano o parrocchiana, compresa Teresa, che non si fosse già confessato almeno una volta anche in canonica. Pronunciate le frasi di rito, don Angelo invitò Teresa ad aprirsi senza timore. Teresa, quasi in lacrime, confessò a don Angelo di essersi innamorata di lui, e di essere disponibile a fuggire via per costruire insieme, da qualche parte, lontano, una vita insieme.
Don Angelo era sicuramente infatuato di Teresa e non seppe respingere con la dovuta fermezza la sua proposta, anche perché gli dispiaceva che lei potesse sentirsi respinta.
Lei gli propose di ritrovarsi l’indomani per continuare a discuterne, avendo avuto il tempo di riflettere.
Don Angelo si presentò all’appuntamento dopo una notte soffertissima.
Teresa era una bellissima ragazza e il povero don Angelo non era affatto indifferente alla bellezza femminile. Gli costava tantissimo, ma non avrebbe mai accettato di giacere con lei, né quel giorno né mai. Era questo che aveva intenzione di dirle, quando si rese conto che era caduto vittima di un’imboscata. Teresa e alcune sue amiche e amici erano lì a ridere e a far foto. I sentimenti che lei, tra le lacrime, gli aveva confessato, non esistevano. Non erano mai esistiti. Si trattava “soltanto” di uno scherzo di inaudita crudeltà.
Tanti di questi, che adesso ridevano, don Angelo li conosceva bene; erano persone, ragazzi, che si erano più volte rivolti a lui, chiedendo aiuto, e che mai erano tornati a casa senza aver ricevuto, da lui, consolazione, morale e materiale. A sentir loro, era nato tutto così… per sconfiggere la noia di un pomeriggio d’estate. Così era nato, e così sarebbe dovuto, nella loro assurda, distorta visione della realtà, rimanere.
Don Angelo, incredulo che tutto questo stesse davvero accadendo, corse via. Scappò lontano. E Pianse. Don Angelo pianse a lungo. Non riusciva a spiegarsi come fosse possibile, a cosa fosse dovuta tanta cattiveria. Una cosa però era certa: non sarebbe più potuto rimanere lì. Bisognava agire subito.
La mattina del giorno dopo, don Angelo, con la morte nel cuore, era già in viaggio verso la sua nuova destinazione. Il dolore era grande, ma la tristezza non sarebbe durata in eterno. I parrocchiani di un paesino in val di Susa, ancora non lo sapevano, ma presto avrebbe visto la loro vita cambiare da così a così!

Eustachio Persia
Chi nasce tondo, non ci sono santi, non può morire quadrato! Potrà provare a cambiare con tutte le sue forze. Dieci, cento, mille volte, ma il risultato non potrà che essere sempre lo stesso. La natura di ognuno, quella più profonda, quella che emerge solo in certe circostanze, quella che ci fa agire in modi che noi stessi non riconosciamo come nostri, che mai avremmo potuto immaginare e prevedere. Quella non può cambiare.
Allo stesso modo, un lucano non potrà mai diventare un uomo di mare, qualcuno a cui possa mancare la vista, o l’odore, o il tatto, scivoloso sotto le dita, del salmastro di quella immensa distesa d'acqua, come potrebbe mancare ad un ligure, un siciliano, un sardo, un pugliese.
Ma come sappiamo, ogni regola è fatta per avere delle eccezioni.
Eustachio Persia, di Bernalda, era, per la natura di un lucano, l'eccezione che conferma la regola. Il fascino che il mare esercitava su di lui era sconfinato, quasi quanto lo erano gli interrogativi che amici e parenti si ponevano, quando gliene sentivano parlare, quasi come fosse una divinità, un’entità viva e pensante. Come potrebbe parlarne solo uno che ne conosca ogni anfratto, ogni piega, visibile o nascosta. Eustachio, fin da bambino, accompagnato da suo padre (il quale in esso vedeva, da buon lucano, niente più che un’infinità di gocce d'acqua, messe in stretta relazione dinamica), aveva, ancor più inquietante e inspiegabile, una predilezione per il mare di notte. In particolare lo affascinava la visione delle lampare, lampade enormi, trasportate da barche, che servivano per attirare i pesci e indurli, quasi di loro spontanea volontà, ad entrare nelle reti. Quando, ancora ragazzino, ebbe finalmente la possibilità di partecipare ad una battuta di pesca con la lampara, l'emozione di vedere così tanti pesci illuminati da quella luce, quel ribollio di vita marina, era stato per lui come la conferma definitiva di una chiamata, da cui, ne era certo, quando sarebbe arrivato il momento, non si sarebbe sottratto.
Eustachio era un ragazzo lucano, ma per una volta, uno che era nato tondo, sarebbe “morto” quadrato.

Ciccio Cocuzza
Avrebbe dovuto dormire quanto più “assai” possibile. Questo quello che tutti gli avevano consigliato di fare: dormire! Dormire assai, per essere poi più forte, per affrontare una prova, che quelli che poi erano tornati definivano: “che manco le bestie”. Eppure a Valsinni tutti lo sapevano chi era Francesco Cocuzza, per i paesani Ciccio: uno considerato parecchio tosto, uno che, se c'era da decidere chi poteva farcela, quello era Ciccio Cocuzza. Aveva 16 anni ed era forte come un toro; non c'era nulla che lo potesse spaventare, ma anche lui, di dormire non gli veniva proprio. Le valigie erano pronte, i sogni pure. Stavano tutti lì, d’int’alla sua capa.
E c'era ancora da conoscerlo chi glieli poteva portare via da lì, dove li aveva piazzati lui. Si trattava “solo” di realizzarli, per alcuni forse sarebbe stato difficile, ma per lui no. Per lui quei sogni non erano solo sogni, ma il futuro che lo aspettava, che aspettava solo di essere compiuto. Un lavoro da Cristiano, non da bestia, la possibilità di sposarsi con la zita, di avere figli, di avere una casa, un focolare, una terra, senza dover diventare brigante, come tanti amici suoi, senza dover uccidere nessuno, senza dover essere ucciso.
Le valigie erano pronte, i sogni pure. L'indomani avrebbe cominciato il suo viaggio. In fondo si trattava “solo” di attraversare tutta l'Italia in treno, scendere, e poi farsi tutta la Francia, sempre in treno, e arrivare fino in Normandia. Avrebbe anche potuto partire da Napoli, ma sarebbe costato molto di più: meglio la Normandia. Sarebbe potuto venire anche suo fratello, ma soldi per tutti e due non ce n'erano… arrivato in Normandia, come il capolinea della corriera, mancava solo di imbarcarsi lì, direzione New York: non c’era da sbagliarsi. Ad attenderlo c'erano altri valsinnesi, che prima di lui erano giunti in quelle terre piene di speranze e di sogni in via di realizzazione. Non sarebbe stata una passeggiata, questo l'aveva capito, di quelli che erano partiti, non tutti erano riusciti a farcela.
Un mese di viaggio in coperta di un transatlantico, esposti a tutto quello che il tempo ha voglia di farti assaggiare: sole, pioggia, vento, neve… per un mese tu sei lì. Se devi vivere vivi, se devi morire muori. Da lì non ti puoi spostare: finché non si arriva, tu sei lì.
E se arrivi a vedere la Statua della Libertà, mica penserai di essere arrivato! Quando arrivi a vedere la Statua della Libertà, hai fatto solo metà del viaggio. Questo glielo avevano spiegato bene a Ciccio Cocuzza, che non si facesse illusioni! Quando arrivi mica ti portano dritti a  Manhattan. Seh! Lì ci vanno quelli che sono in prima classe! Gli altri si fanno un soggiorno premio di tre giorni a Ellis Island, “dove vieni accolto con tutti i riguardi”, così gli avevano detto a Ciccio, ridendo.
E lui, che oltre a essere tosto era anche perspicace, aveva capito l'antifona. Non era finito un bel niente! Arrivati a Ellis Island ti aspettano tre giorni di visite, che, se per caso c’hai un pidocchio in testa e ancora non sai di averlo, stai tranquillo che loro te lo trovano. Cose che nemmeno al mercato degli animali. Tre giorni che valevano da soli il biglietto d'andata. Se passavi anche quella, i tuoi sogni, quelli che tenevi d’int’alla capa, avrebbero continuato ad esistere, ma chi non passava veniva rispedito come un pacco da dove era arrivato. E tanti saluti!
Ogni giorno si vedevano scene di famiglie divise, tra chi si e chi no. Lui per fortuna viaggiava da solo, ma non poteva fare a meno di pensare a mariti e mogli, madri e figli: come è mai possibile tra cristiani una cosa del genere?
Immerso in questi pensieri a Ciccio Cocuzza di dormire proprio non gli veniva. Le valigie erano pronte, i sogni pure. Il giorno appresso sarebbe toccata a lui.

Andrea Barberis
Erano a Cirigliano solo da qualche giorno, Andrea Barberis e la sua famiglia: suo padre ingegnere meccanico, dirigente ENI, era stato trasferito per dirigere il nuovissimo impianto di estrazione del metano che aveva cominciato ad essere funzionante solo da qualche settimana.
Del padre di Andrea abbiamo detto, la madre aveva deciso di seguire suo marito e di non cercare lavoro, lo stipendio dell'ingegnere era bastevole per tutti: finalmente la signora avrebbe potuto dedicare tutto il suo tempo libero alla sua passione per la pittura. Di scorci e di paesaggi che potevano prestarsi ce n'erano a bizzeffe, la signora non sarebbe rimasta delusa.
Quando la famiglia di Andrea si era posta il problema di accettare l'incarico che l’ENI aveva offerto loro, ovviamente, tra le cose di cui si era tenuto conto, c'era anche il distacco di Andrea da quello che era il suo ambiente. Certo, un bambino di 10 anni non ha le reti di relazioni che potrebbe avere un adolescente, ma qualche amichetto con cui passava le giornate, giocando a pallone in piazza castello oppure con le figurine panini, con tutte le facce dei giocatori della serie A della serie B c’era! Per non parlare dei suoi compagni di classe, i suoi maestri, che avevano imparato ad apprezzare le sue qualità e a conoscere i suoi punti deboli, da rinforzare, con i quali si trova benissimo.
Tutto questo sarebbe venuto meno e c'era da aspettarsi che l'ambiente non sarebbe stato particolarmente stimolante. Nessuna preclusione nei confronti di Cirigliano, ovviamente! Ma si trattava comunque di un piccolo centro di qualche migliaio di abitanti, nulla a paragone degli stimoli e del modo di vivere che un bambino di 10 anni può permettersi vivendo a Torino.
Decisero comunque di fare questo passo, perché anche se ciò avrebbe comportato sicuramente delle difficoltà per il piccolo Andrea, queste sarebbero diventate, considerate a distanza di qualche anno, esperienze che lo avrebbero fortificato.
Era ottobre inoltrato quando Andrea si presentò ai nuovi compagni, i quali, su invito da parte del maestro lo salutarono dicendo ognuno il proprio nome. Quando toccò a lui presentarsi disse di chiamarsi Andrea Barberis. Non mancarono i bambini che scoppiarono a ridere, chiedendogli se fosse straniero vista la ‘s’ finale, altri che gli chiedevano se fosse maschio o femmina, perché Andrea era comunque un nome che finiva con la a, quindi da femmina.
Insomma, il primo giorno del povero Andrea non poteva certo essere definito promettente, ma si sa che le cose per realizzarsi hanno bisogno di tempo. Il problema era che gli stessi maestri sembravano avere una serie di preconcetti nei confronti dei settentrionali polentoni. Così scappò di dire una volta al maestro. Durante la ricreazione nessuno andava mai a parlare con lui. Come se non bastasse, gli stessi maestri tra loro e coi bambini parlavano in dialetto. Per Andrea la speranza di integrarsi e di capire cosa i suoi compagni stessero dicendo era davvero un fardello troppo pesante.
Andrea Barberis, straniero e femmina! Ecco qui il quadretto definitivo almeno per quell'anno di Andrea. La sua mamma vedendo suo figlio sempre più intristito, decise di rivolgersi al parroco, affinché accogliesse Andrea fra i ragazzi che servivano la messa, in modo che forse almeno lì sarebbe riuscito a trovare qualche amico. Effettivamente non fu un'idea malvagia, perché tra i che ragazzini che servivano la messa c'era un altro ragazzino, questo proveniente da Milano, anche lui figlio di un dirigente mandato a dirigere un altro degli stabilimenti dell'ENI, che stavano sorgendo come funghi sulla valle del Basento. Si chiamava Ferruccio Adani, questo ragazzino, e subito fece amicizia con Andrea, visto che di farsi accettare dagli altri proprio non se ne parlava. Passavano sempre più tempo insieme questi due ragazzi, e Andrea finalmente aveva ritrovato, poco alla volta, la voglia di ridere e di scherzare.
Capitò però un giorno che, mentre si stava recando in parrocchia, e Ferruccio ancora non c'era, un gruppetto di ragazzini di Cirigliano, appena visto Andrea da solo, cominciarono a dirgli: “è arrivato lo straniero femmina”, “dagli addosso allo straniero femmina!”, e dicendo così cominciarono, chi con la fionda, chi a mani nude a lanciare contro il povero Andrea sassi e pietre anche grosse. Lui cercava di scappare, ma quei ragazzi erano non meno di 5 e i colpi che arrivarono a segno, cioè in testa, non furono pochi!
Tutto sanguinante, Andrea riuscì a raggiungere casa. La signora Barberis, solo allora si rese conto fino in fondo del grave errore che avevano fatto nello sperare che due mondi così distanti tra loro, ognuno con le proprie peculiarità, non per forza nel senso di migliori e peggiori, bastasse metterli a contatto per far sì che ne venisse fuori qualcosa di positivo. Neanche i maestri, neanche il parroco erano stati in grado di facilitare e rendere possibile questo processo.
Andrea aveva pagato di persona e troppo pesantemente l'incoerenza tra il mondo ideale e il mondo reale, a volte fatto di cattiverie e ignoranza.
L'ingegner Barberis, a malincuore, ma consapevole di fare la cosa giusta per la propria famiglia, si dimise dall'incarico di direttore dello stabilimento. Decise di tornare a Torino, con la sua famiglia, e di occuparsi d'altro. Era ormai metà novembre e una pagina non particolarmente edificante del Comune di Cirigliano e dei suoi abitanti si era consumata.

Emanuele Staffieri
Emanuele Staffieri, in quel di Montalbano Jonico, non stava nella pelle dalla contentezza: finalmente era arrivato primo ad un concorso! In più di otto anni, era stato in grado di partecipare a 234 concorsi. A dire il vero, avrebbe anche smesso già da un pezzo di contarli, se non fosse che, una delle domande che normalmente venivano poste ai candidati, era di riferire il numero esatto dei concorsi a cui si era partecipato. L’iscrizione al concorso era diventata un rito. Come la compilazione della schedina il sabato al bar, con gli amici. Se volevi avere anche una minima possibilità di fare tredici, almeno due colonne le dovevi giocare! Analogamente per un concorso: se volevi che la dea bendata ti aiutasse a vincere, il pagamento della quota di partecipazione, l’iscrizione al concorso, il doversi recare presso la struttura dove si tenevano le prove, il rispondere al meglio alle domande, la compilazione delle parti anagrafiche, e la consegna dell’elaborato, anche se praticamente vuoto, erano tutte condizioni a cui, anche avendo santi potentissimi in paradiso, ognuno doveva comunque sottostare.
Vincere un concorso, comunque, poteva significare tutto e niente. In ballo poteva esserci un posto fisso in segreteria in una scuola di un piccolo centro vicino casa, per sostituire una persona che andava in pensione, che (non ci voleva uno scienziato per capirlo), non era nemmeno lontanamente da mettere a paragone con un contratto a scadenza di bidello di scuola media a 10 km da casa! Questi ultimi, tra l’altro solitamente tenuti da parte per la schiera di invalidi civili che ogni anno si allargava.
Il posto in segreteria era una realtà. La perseveranza, la fiducia nelle proprie capacità, e in quelle del nuovo sindaco Giugliano, sostenuto strenuamente in campagna elettorale dalla famiglia Staffieri al completo, avevano fatto il miracolo!