Come dicevo l’altro giorno ad un mio caro amico, nel tentativo di sembrare intelligente, e di guadagnarmi così qualche punto nella sua considerazione, sono sempre stato dell'idea che nel mondo dell'arte, e in particolare in quelli della cinematografia e della discografia, senza voler trascurare l’editoria, la pittura, eccetera, i ruoli del producer e dell’artista (musicista, scrittore, regista o attore) devono rimanere sempre e comunque distinti.
Tutte le volte in cui, a fine carriera, l’artista decide di prodursi da sé, perché stanco di sottostare a vincoli di tipo commerciale, nella convinzione di poter finalmente dare pieno sfogo alle proprie capacità artistiche, non va mai a finire benissimo…
Nell’esecuzione di uno spartito musicale si può rubare un po’, ma una sonata non può essere tutta un continuo rubare. Così come la vita non può essere tutta fatta sempre di trasgressione.
Questo mi ha sempre portato anche ad avere una certa avversione per gli album registrati dal vivo, dove, oltre ad esserci applausi e fischi tra un brano e l’altro (già di per sé odiosi), a volte il solista, guidato da una specie di senso di colpa per lo star proponendo al pubblico qualcosa che il pubblico aveva già ascoltato mille altre volte, cerca almeno di riarrangiarla in modo diverso, col risultato di renderla spesso irriconoscibile.
I produttori, contrariamente a quanto si pensi, non servono solo per finanziare passivamente un’opera. Essi hanno anche il compito spiacevole di visionare i giornalieri, di vigilare con grande attenzione sulla sua realizzazione, anche, eventualmente, intervenendo, man mano che l’opera prende forma, facendo sì che quando l’artista esagera coi suoi vezzi artistici, questi vengano “sedati” sul nascere.
Lo dicevo a proposito di un film visto di recente e che sapevo essere stato visto qualche giorno prima anche dal mio amico: Killers of flower moon. Film bellissimo, diretto da Martin Scorsese ed interpretato nei due ruoli più importanti da Robert De Niro e Leonardo Di Caprio, basato sulla storia di un popolo di nativi Americani diventati all’improvviso ricchissimi, una volta scoperta nei loro territori la presenza di ricchi giacimenti di petrolio.
Tutta questa ricchezza, però, com’era prevedibile, alimenta l’avidità dell’uomo bianco che porta con sé dolore e distruzione: si succedono così morti ed uccisioni; tutto per poter ereditare terre e diritti di estrazione da parte di pochi bianchi, tra i quali spiccano, come anticipato, i due protagonisti principali, interpretati magistralmente da De Niro e Di Caprio.
Entrambi (il mio amico ed io) eravamo del parere che il film fosse senza dubbio da annoverare tra i film migliori di sempre, ma che se fosse durato anche solo un'ora in meno nessuno se ne sarebbe lamentato.
Anche Martin Scorsese e Di Caprio, produttori del film, sono a mio parere caduti nella trappola della convinzione che
, avendo raggiunto la possibilità finanziaria di prodursi autonomamente, o comunque avvalendosi di tanti piccoli produttori, nessuno in grado di incidere sulla parte artistica dell'opera, avrebbero potuto spadroneggiare senza grossi limiti sulla parte artistica.
Nelle loro aspettative essi avrebbero potuto finalmente seguire senza ostacoli la loro piena ispirazione, convinti che il risultato di cotanta capacità artistica sarebbe bastata e soverchiata
. In realtà, è evidente a tutti che un produttore esperto è fondamentale, perché l'attore o il regista, da soli, non sono quasi mai in grado di essere obiettivi e di capire quando una scena è bene che duri solo due minuti e non tre.
Ciononostante, Scorsese, pur conoscendo i rischi di essere produttori di sé stessi, non riesce, lui per primo, a resistere alla tentazione di comparire con un cameo, nonostante ci fosse un evidente problema di durata che avrebbero dovuto consigliare a Scorsese di rinunciare.
Quasi per gioco, continuando a discutere a proposito di questo discorso dei danni che un attore o regista o musicista o altro ancora, spesso compie verso sé stesso, sottovalutando il contributo delle altre figure, che solitamente intervengono nella produzione di un’opera, o magari sopravalutando le proprie capacità di artista a tutto tondo, cioè capace di fare tutto da sé.

Il caso più eclatante che mi è venuto in mente è quello di Lucio Battisti e del suo paroliere di sempre: Mogol.

Battisti, quando si unì artisticamente a Mogol, era poco più che un dilettante e a quel tempo la SIAE prevedeva per i contratti che univano parolieri e musicisti una ripartizione dei proventi che era del 4% al paroliere e 8% al musicista/cantante.
Questa ripartizione andò bene ad entrambi per un bel po’ di tempo, ma intorno agli anni '80 Mogol decise di proporre un adeguamento in cui ognuno dei due avrebbe preso il 6%. Battisti indispettito da questo cambiamento decise di rivolgersi per i brani degli album successivi ad altre persone, svolgendo quasi tutto il lavoro, non più in sala di registrazione, bensì in casa, con risparmi notevolissimi, ma questo comportò un prezzo molto salato per Battisti il quale si ritrovò a proporre brani con testi spesso ermetici e sonorità di tipo sperimentale.
Sperimentazioni che quasi mai incontrarono il favore del pubblico, abituato a testi poetici ma tuttavia comprensibili e non poemi ermetici di cui non si riusciva a comprendere minimamente il senso. In quel periodo Battisti, finalmente libero, dal suo punto di vista, da vincoli che fino a quel momento lo avevano imbrigliato, sfornò album difficili da apprezzare al primo ascolto, molto poco convenzionali per il panorama discografico italiano di quel periodo.
La struttura delle canzoni era molto diversa da quella tipica dei tormentoni del tempo: non c’erano quasi mai ritornelli, le melodie erano spesso poco orecchiabili, la voce di Battisti asettica, e soprattutto, a partire da “La sposa occidentale”, venne soppresso l’utilizzo di strumenti non elettronici.
Gli album bianchi di Battisti, così denominati, ottennero un pessimo riscontro in termini di vendite, anche per la mancanza quasi assoluta di promozione. Se oggi la maggior parte delle persone parla di questi dischi in termini entusiastici, quando uscirono furono accolti con grande scetticismo dalla critica e soprattutto dal pubblico, che li considerava troppo cervellotici e indecifrabili e desiderava un ritorno di Mogol e delle atmosfere degli anni Sessanta e Settanta.

Ancora una volta quindi sembra, dopo aver parlato di Scorsese e del suo film-maratona, che la mia intuizione sugli artisti che ad un certo punto si illudono di poter fare da soli, riguardi un fenomeno ben lungi dall’essere un caso isolato.
Pensandoci, mi è venuto in mente un altro artista, un attore che non è mai arrivato a oltrepassare i confini dell’Italia, ma che degli italiani è stato, soprattutto nei suoi primi film, caricatura geniale.
Dando un'occhiata veloce a ciò che viene scritto su Checco Zalone su Wikipedia troviamo che egli è un comico, showman, attore, cabarettista, imitatore, cantautore, musicista, sceneggiatore, e regista italiano. I suoi cinque film hanno incassato complessivamente 220 milioni di euro, e 4 di questi compaiono nella lista dei 10 film con maggiore incasso in Italia.
I suoi film dalla comicità straripante, denunciano mettendoli in ridicolo tutti i peggiori difetti di noi italiani: dall’omofobia, al razzismo verso i meridionali, per certi versi più che giustificato, ma senza far mancare una stilettata al settentrionale militante della lega. Questi i temi di Cado dalle nubi, a cui seguono i film: Che bella giornata e quo vado?
Con Tolo Tolo succede esattamente quello che ho descritto anche nei casi di Battisti e Scorsese: Zalone assomma su di sé tutte le cariche: attore, protagonista, regista, sceneggiatore, e manca solo che faccia anche la comparsa.
Ovviamente succede il patatrac!  E se a questo aggiungiamo l’impegno sociale che con questo film Checco coraggiosamente si assume, non c’è da stupirsi che il successo dei precedenti film stavolta non venga nemmeno sfiorato.
Quello che a Checco Zalone la gente non ha perdonato è che a metà dell'opera, quando più che mai la gente avrebbe avuto bisogno di appoggiarsi a qualcuno, per uscire dalla depressione della pandemia, si è trovata di fronte non esattamente colui in cui sperava.
Colui che sapeva farla tanto ridere, ma piuttosto uno che sembrava voler chiedere lui, al pubblico, di farlo ridere! Si è dimostrato essere diverso
(purtroppo per lui, diverso in meglio) dal semplice troglodita che sapeva interpretare così bene.
Quando invece tiri fuori dal cassetto qualità e competenze inaspettate, esse da un lato ti innalzano, ma dall'altro ti allontanano dal pubblico che, esattamente nello stesso modo in cui ti ha apprezzato e portato al vertice, altrettanto velocemente e spietatamente ti annienta e ti distrugge.

Ed infine, perché non parlare anche di un'altra evoluzione, della cui negatività possiamo già mettere mano sul fuoco da adesso, senza dover aspettare che passino anni prima di poterci pronunciare in merito.
Sto naturalmente parlando dell'evoluzione di un allenatore, Allegri, un tempo serio e professionale, ma che invece adesso quando si arriva a fine partita, si comporta come fosse una scimmia cappuccino, da tutti gli etologi riconosciuta come la più aggressiva.
Il fatto è che il nostro, ormai, si cala talmente bene nella parte, che se a qualcuno venisse lo sghiribizzo di farsi prestare dal circo Medrano un esemplare femmina di questa scimmia, da portare a bordo campo, quest’ultima, avendo il privilegio di vederlo all’opera da vicino, col suo carisma, il suo savoir faire, non potrebbe non rimanerne affascinata, innamorarsene, e decidere a tutti i costi di portarselo via con sé allo zoo del circo di cui sopra.

Sperem!