Il Cardinal Righini, che era solito esprimere con metafore, ai pochi che erano in grado di comprenderne il senso, il suo volere, stavolta era andato giù senza giri di parole: voleva conferire “immediatamente”, questo fu l’avverbio che usò, con don Antonio Ripamonti, parroco di recente nomina della parrocchia di Santa Maria in Fiore, del comune di Craco. Don Antonio, prima di essere chiamato a svolgere il ruolo di parroco presso questa nuova comunità, era stato per pochi mesi viceparroco nella parrocchia di Cristo Re a Matera. Si dicevano le migliori, o peggiori cose di don Antonio, ma la realtà, ad analizzare i fatti, era una sola: Don Antonio Ripamonti era, come si dice… nu’bbell wagliùn (un bel ragazzo), e, per quanto ce la mettesse tutta a rimanere fuori dalle beghe, erano le beghe che, a quanto pare, ovunque andasse, lo seguivano!

Dopo una serie di inverni, tutti miti, quello del 1907 si stava mostrando decisamente più rigido, tanto da regalare ai paesani di Tursi un evento decisamente insolito: il Basento si era ghiacciato, e lo strato di ghiaccio era talmente spesso, da permettere ai più coraggiosi, non senza qualche timore, di camminarci su. Tutta quella neve e quel ghiaccio, erano, per i ragazzi che ancora erano rimasti, motivo di divertimento. Molti erano intenti a giocare a palle di neve, alcune di queste, scagliate con così tanta violenza da provocare nel poveretto, bersaglio di turno, un bel livido, che sarebbe stato, nei giorni a venire, mostrato con fierezza, come una medaglia al valore di guerra. La primavera stava per giungere, tutto questo gelo presto sarebbe stato solo un ricordo su cui costruire storie che i futuri nonni avrebbero usato per intrattenere i futuri nipoti, e tutto il resto della famiglia negli inverni a venire.

Ad Irsina, la vicina stazione dei carabinieri era tutta un fermento: la festa del santo patrono era prossima da venire, e con sé tanti dei figli di quella terra che si erano dati alla macchia per poter sopravvivere, conducendo una vita di piccoli furti e rapine. Tanti di questi avrebbero ceduto al desiderio di rivedere i propri cari nel giorno di S. Ignazio, e quindi di tornare, magari nottetempo presso le proprie case dove mamme inconsolabili erano costrette a convivere col pensiero di sapere i propri figli rifugiati in chissà quale grotta di chissà quale territorio nelle vicinanze. Il comandante della stazione, maresciallo Oronzo Musumeci, altrimenti chiamato, dai paesani u’strunz era persona assai ambiziosa, e questa occasione non aveva nessuna intenzione di sprecarla. Presto, tanti dei ragazzi (perché questo erano) che per disperazione avevano scelto la via del brigantaggio, sarebbero stati imprigionati e poi processati. Non c'erano dubbi: del maresciallo Musumeci si sarebbe presto sentito parlare.

L’acqua che non piove, in cielo sta. Così si esprimeva la saggezza popolare nei confronti di chi sentiva di essere in credito con la sorte. Peccato che a Tricarico questa, che chiaramente era che solo una metafora, fosse stata intesa, dal tempo, e da ormai troppo tempo, in senso letterale. Viottoli e tratturi ormai completamente inondati: la minaccia di esondazione del Bradano, da semplice ipotesi, diventava di ora in ora sempre più concreta; e faceva specie constatare che quello che durante l’estate era di solito poco più di un innocuo torrentello, adesso fosse causa, per molte delle case del circondario, di grande preoccupazione. L’acqua non cessava di cadere, le case più a valle erano state evacuate, la gente che ci viveva non aveva avuto neanche il tempo per capire cosa stava succedendo. Succedeva e basta. Il parroco, don Bastiano, chiamando a raccolta i fedeli, aveva organizzato presso la chiesa del Cristo Salvatore una veglia di preghiera; ma anche quelli che non erano assidui frequentatori della Santa Messa domenicale un’ave Maria e un Padre nostro in cuor loro l’avevano recitato. L’acqua continuò a cadere ancora per ore, ma il Bradano, da bravo, rimase nel suo argine fino a quando, alle prime luci dell’alba, un timido sole fece capolino. Non furono pochi quelli che, rientrati nelle loro case, non mancarono di accendere un cero a Cristo Salvatore, e ad appendere in chiesa l’effige di un cuore con su scritto il proprio nome nella parete degli ex voto.

Non si muoveva foglia. Di pomeriggio, a Cirigliano, non si muoveva foglia. E c’era ben poco da criticare o recriminare: come si sarebbe mai potuta compiere, anche la più insignificante delle azioni con una calura che spegneva di fatto sul nascere qualsiasi iniziativa; che faceva sudare persino i pensieri. La conformazione delle terre circostanti faceva, di Cirigliano, un catino senza via d’uscita. Un girone dantesco in cui l’aria ribolliva, sempre la stessa. Un’isola in cui ognuno era impegnato supinamente ad aspettare che, con l’imbrunire, al pensiero di fare qualcosa corrispondesse anche l’effettivo fare. Le giornate, passavano così, e a nulla era valsa l’ordinanza del neosindaco Petrella, rivolta alle attività commerciali, di fornire un servizio in orario continuato per invogliare chi si trovava in zona, per lavoro o per turismo, a fermarsi a Cirigliano, per rifocillarsi, trovare tregua dalla calura bevendo e mangiando, dando così a quelle terre uno sbocco alternativo a quello della sola agricoltura.

A Matera non si parlava d’altro: il prefetto, facendo seguito ai recenti accadimenti, che erano culminati con l’uccisione, ad opera di tre pastori della zona, del famigerato brigante Chitaridd (soprannome dovuto alla statura brevilinea e al suo nome Eustachio Chita) a cui erano attribuiti i più efferati crimini degli ultimi anni, alcuni dei quali perpetrati quasi in contemporanea in località talmente lontane tra loro, da portare la popolazione ad attribuire a quest’uomo il dono diabolico dell’ubiquità. Il prefetto, dicevamo, con decreto regio attribuiva a quella data lo status di festività, e questo per i successivi 10 anni a partire da essa. Il criminologo Cesare Lombroso, venendo a conoscenza della disponibilità del corpo senza vita del Chita, insistette, e venne accontentato, di poter portare a Torino, presso l’istituto di criminologia da lui stesso diretto, il cadavere, accuratamente ricomposto, per poterlo studiare nei dettagli, e poter così definire in termini di misure craniche, la sua teoria su quello che lui definiva, il criminale nato.

Gli impianti di estrazione del metano lungo la Basentana stavano per essere inaugurati. I tanti che erano stati prescelti per lavorarci come operai e tecnici specializzati, al contempo entusiasti e timorosi, cullavano la speranza di poter presto realizzare un sogno per il quale tanti altri erano stati costretti a cercare altrove. Erano stati tutti assunti con regolare contratto, le ferie, la mutua. I sindacati, che quando lavoravano la terra del padrone, spesso erano assenti, o comunque compiacenti, ora sarebbero stati sempre presenti, e vigilanti; scelti dagli stessi lavoranti, per verificare che le condizioni di lavoro fossero sempre quelle prescritte per legge. Vincenzino Scianni, storico sindacalista operante nel comune di Accettura, paese che avrebbe più di tutti offerto forza lavoro per l’estrazione, era noto a tutti per essere un implacabile contestatore. Prima ancora che gli impianti entrassero in funzione, egli chiedeva a gran voce l’intervento dello stato per spostare a data da destinarsi l’inizio dei lavori; e questo fin quando non fossero state condotte indagini accurate per fare chiarezza sullo svolgimento delle gare che erano state indette per la scelta dei territori dove costruire gli impianti di raffinamento, e sollecitava, tema ancor più importante, l’intervento della Sanità Pubblica per verificare la salubrità dei luoghi di lavoro.

Tantissimi dei nativi della provincia di Matera, curioso a dirsi, non avevano mai visto il mare. E quei pochi, pur essendo stati qualche volta al mare, non sapevano nuotare. La località più frequentata a quell’epoca era Metaponto, sicuramente più conosciuta da chi vi ci si recava da lontano, per conoscere i luoghi storici, i reperti archeologici legati all’antica appartenenza di quelle terra alla Magna Grecia, che da chi vi si ritrovava ogni anno per fare la villeggiatura. Metaponto, con le sua spiaggia che degrada lentissimamente, permetteva a tutti coloro che non sapevano nuotare, di fare il bagno, perfino rotolandosi nell’acqua, senza rischiare di annegare. Non era comunque raro incontrare sulla spiaggia chi narrava di gente, vista morire coi propri occhi, risucchiata dai famigerati mulinelli, o trascinata via da un’irresistibile corrente per aver voluto inseguire una palla, che il vento aveva fatto volare troppo lontano.

Il dottor Domenico Sanniti, veterinario di Grassano, per tutti don Mimì, sessantenne prossimo ormai alla pensione, stava dormendo un sonno agitato, quando vennero a chiamarlo. Un vitellino aveva scelto proprio quella notte per venire al mondo. Il fattore aveva aspettato fino all’ultimo, sperando che la vacca gravida arrivasse alla mattina, ma le zampe anteriori del nascituro erano già fuori, e aspettare non si poteva più. Don Mimì si vestì in un attimo, il posto da raggiungere, lo conosceva bene, non era dei più agevoli, e come se non bastasse, una pioggia insistente, con forte vento che cambiava continuamente direzione, rendeva inutile coprirsi più di tanto. Don Mimì conosceva bene anche quella: capace di entrare ovunque ed inzupparti perfino le ossa. Il buio della notte, rischiarato da lampade che per il vento e la pioggia rischiavano in ogni momento di spegnersi, unito alla concreta possibilità di vedere, da un momento all’altro, il viottolo franare inducevano tutti a procedere spediti e silenziosi. Arrivati alla stalla, il vitellino era per metà uscito, ma la mamma era stremata, e sembrava non avere più forze sufficienti per arrivare alla fine: bisognava intervenire. Fatti immediatamente bollire gli strumenti, Don Mimì, che sapeva bene quanto dalla vita della giovenca dipendesse la vita dell’intera famiglia del fattore, praticò un’incisione a cui fece seguito un lungo, disperato muggito. Il vitellino, appena uscito, sembrava non respirare più, ma massaggiato dal fattore, cominciò presto a riaversi, mentre la mucca, esanime, perdeva sangue, ma la sutura prontamente eseguita fermò l’emorragia. Dopo un po’, entrambi erano in piedi reggendosi sulle proprie zampe. Qualcuno solo allora notò che nel frattempo la pioggia e il vento erano cessati.

A Gorgoglione sopra ad un cucuzzolo, c’era un’abbazia di suore che avevano fatto voto di silenzio. Esse conducevano in clausura, nella loro cella, una vita di espiazione dei peccati del mondo. Tra queste creature, alcune di sublime sensibilità, c’era suor Anna, la quale, prima di entrare in convento si chiamava Maria Turi. Maria era figlia di un ricchissimo proprietario terriero: Nicola Turi, le cui masserie e possedimenti terrieri si estendevano nei comuni di Montescaglioso, di Ferrandina, di Irsina e di Pomarico. Egli aveva tre figli maschi e una figlia femmina, Maria. Disgraziatamente, uno di questi figli maschi morì in giovane età, soffocato dalle esalazioni di un braciere. Quando i figli divennero grandi, Nicola Turi, per evitare che i possedimenti si dividessero in troppe parti, decise di offrire all’Altissimo la vita di sua figlia, consegnandola alle cure delle suore dell’abbazia di Gorgoglione, affinché, nel silenzio e nella preghiera, conducesse una vita di santità. I due fratelli, Peppino ed Eustachio, che, al contrario, santi decisamente non erano, alla morte del loro padre Nicola, si spartirono, senza nessun riguardo, i possedimenti del loro ricco padre. Ma, come spesso succede, ciò che i padri accumulano, i figli poi dilapidano. Fu così che in poco tempo entrambi si trovarono addirittura in stato d’indigenza. Di Eustachio non si ebbero più notizie, mentre di Peppino so che, nonostante tutto, ebbe due figli di cui andare fiero, uno dei quali è mio padre Antonio, di cui sono orgoglioso. Spero che anche lui sia fiero di me.