Don Pasquale Lorusso
I Lorusso, a Senise, erano come i Leone a Stigliano, o i Lanfranchi a Matera: famiglie ricchissime, proprietarie di latifondi che si estendevano da un comune all’altro per centinaia e centinaia di ettari. Piccoli regni nelle mani di monarchi che, di generazione in generazione, se ne trasmettevano la proprietà tramite matrimoni, spesso combinati, dettati da logiche di potere che nulla avevano a che fare con i sentimenti. Quando si venne a sapere che la moglie di don Pasquale Lorusso era rimasta ancora una volta incinta, non c’era abitante di Senise che non si fosse chiesto se, dopo quattro femmine, non fosse finalmente arrivato, per la famiglia Lorusso il momento di dare alla luce un maschio. Per don Pasquale, questo, del figlio maschio, era, e rimaneva, la sua più grande preoccupazione, quella di cui amava parlar meno. Su tutto poteva disporre, potente com’era. Persino (a Dio piacendo) sulla salute dei suoi familiari, scegliendo per loro i medici migliori. Su tutto, tranne che sul sesso del proprio figlio. Persona abituata a comandare e a disporre per sé e per gli altri, quando si parlava delle sue figlie e del fatto che ancora non fosse arrivato un figlio maschio, lo sguardo, solitamente fiero e scrutatore, diventava vago e sfuggente. La voce, normalmente ferma e decisa, si faceva timida ed incerta. Quando qualcuno, tra famigliari e amici, esponeva le solite teorie, secondo cui, a seconda della forma della pancia, era possibile dire qualcosa sul sesso del nascituro, lui non mancava di rispondere, infastidito: "c’è tempo, se non è maschio questo, lo sarà il prossimo”. Potete quindi immaginare, dopo così tanta attesa, allo scadere dei nove mesi, la gioia infinita di papà Pasquale nel constatare che finalmente il suo “Regno” avrebbe avuto un erede maschio.
La notizia di questo evento era talmente attesa, che ci mancava solo la mettessero per iscritto sui giornali, anche se, per la verità, pochi sarebbero stati quelli in grado di leggerla. Tutto il paese era in festa, insieme a don Pasquale, che non smetteva di offrire da bere in nuovi brindisi, anche con gente di passaggio che non aveva mai visto in vita sua né mai più avrebbe rivisto.
Da quel giorno di festa passarono mesi, poi anni, durante i quali, il piccolo Giuseppe (così fu chiamato, in onore di don Giuseppe Lorusso, padre di Pasquale, precocemente defunto per una banale caduta da cavallo), cominciava a diventare sempre più grande. Prima gli amici di infanzia, poi i compagni delle elementari, infine quelli delle scuole medie, frequentate a Matera: Giuseppe, nel suo rapportarsi con i suoi coetanei aveva qualcosa che non convinceva. Fin da bambino aveva sempre preferito stare insieme alle bimbe, fare i giochi che piacevano alle bimbe, o passava intere ore a parlare, a confidarsi con loro. Suo padre Pasquale ancora se lo ricordava quanto fu umiliante, per lui, sorprendere coi propri occhi Giuseppe giocare alla campana insieme alle sue compagne di classe. Lui si divertiva così, il suo mondo era quello lì. I giochi che, da che mondo è mondo, piacevano ai maschi non esercitavano la minima attrattiva nei confronti di Giuseppe.
Papà Pasquale assisteva a tutto questo impotente, in cuor suo, anche se poco convinto, sperava che prima o poi tutto questo sarebbe passato.  Ma crescendo le cose non cambiarono per nulla: i suoi compagni non perdevano occasione di rimarcare davanti a tutti quanto Giuseppe, che conversava con le sue compagne, fosse diverso da loro. Loro che invece giocavano a pallone, con le figurine, oppure a fare la lotta, o a chi sputava più lontano. Tutte queste cose a Giuseppe non interessavano, era un bambino molto sensibile e quindi capiva bene di avere qualcosa dentro di sé che non andava, ma non poteva farci nulla: lui era così. La sua essenza, la sua natura era quella. E quando, per far piacere a suo padre, cercava di fare le cose dei maschi, tutto si riduceva ad una tragica, grottesca, inutile forzatura. Giuseppe si sentiva donna e avrebbe voluto vivere da donna, vestirsi da donna, comportarsi da donna, essere donna in tutto, non solo dentro di sé.
Suo padre era sempre più demoralizzato. Sapeva dell’esistenza dei ricchioni, si ricordava di quella volta che al mare i suoi amici gli indicarono un uomo che era steso a prendere il sole, dicendogli: “Pasquà, lo vedi a chillo?” Lui rispose di sì, che lo vedeva: “Chill è nu ricchione”, e poi cominciarono a gridargli, tutti intorno: “Uè ricchioooo”. Ma non poteva credere che una tale disgrazia potesse capitare proprio a lui, a don Pasquale Lorusso! Nessuno osava dirgli nulla, ma a don Pasquale non mancavano occhi per vedere e orecchie per sentire ciò che veniva fatto e detto alle sue spalle, per prenderlo in giro.
La vita era diventata un tale incubo che Giuseppe, facendosi forza, confidando nell'amore che suo padre, nonostante tutto, ne era certo, continuava a provare per lui, lo affrontò dicendogli chiaro e tondo, una volta per tutte, che si sentiva attratto da ragazzi come lui, che non provava nessuna attrazione verso le donne, e che anzi, si sentiva lui stesso una donna, intrappolata nel corpo di un uomo. Suo padre, questo, l'aveva capito da tempo, ma aveva sempre represso questa consapevolezza perché sentiva di non avere la capacità di accettarne il peso. Come uomo nei confronti del proprio figlio, forse sarebbe anche riuscito a sostenerlo. Ma come don Pasquale Lorusso, sentiva di non poterci riuscire. Per cui, abbracciando Giuseppe per l'ultima volta, gli disse che da quel momento non sarebbe stato più suo figlio, e di non farsi vedere, mai più.
Giuseppe strinse a sé suo padre, per l’ultima volta. Poi, si voltò e in silenzio andò via.
Nessuno da quel giorno, a Senise o in altri paesi vicini, lo vide più.


Caterina Lisanti
Caterina Lisanti non parlava mai. Per fare quello che aveva da fare, non ne aveva bisogno. Inoltre, non si sarebbe riusciti a trovare a chi, quello che aveva da dire, sarebbe interessato. Primogenita di una famiglia di sette figli, sua madre ebbe Caterina quando aveva solo 15 anni. Fin dalla sua nascita, di Caterina, sua madre non potette quasi mai occuparsi. Lei era la primogenita, e quindi c'era sempre qualche sorella o qualche fratello più piccolo che abbisognava di maggiori cure rispetto a lei. Suo padre consegnava, nel paese di Pietrapertosa, il carbone che andava a prendere col carretto da Accettura. La mamma, invece, faceva la donna delle pulizie, in casa di alcune famiglie di Signori del posto. Caterina non aveva mai potuto contare su nessuno, ecco perché non parlava mai. Aveva capito che parlare significava solo perdere tempo, alimentare false speranze. Seppure ci fosse stato qualcuno disposto ad ascoltarla, nessuno avrebbe comunque potuto aiutarla. E non certo per cattiveria: semplicemente perché ognuno aveva già le proprie di gatte da pelare, per potersi anche occupare delle sue!
Per cui, Caterina Lisanti non parlava mai: per fare quello che aveva da fare non ne aveva bisogno.
Le capitò però un giorno, per strada, di incontrare uno con cui, di parlare, le venne quasi spontaneo. Si trattava di un ragazzo. Bruno si chiamava, ed era bello! Bello come non ne aveva mai visti. Caterina rimase a bocca aperta per così tanto tempo, a guardarlo, che tutti intorno a lei cominciarono a ridere, avendo capito cosa stava succedendo. Anche Bruno chiaramente si accorse di questa scena. Le disse: “Ciao, come ti chiami? Dove vai?” E lei: ”Lisanti Caterina, mi chiamo, per servirla”. Subito dopo aver detto quel “per servirla” sì senti ridicola, quell’intercalare era qualcosa che le veniva spontaneo usare ogni volta che si sentiva in soggezione. Da quella volta, Bruno e Caterina cominciarono segretamente a trovarsi, per fare l’amore. Quando però Caterina gli disse di essere incinta, Bruno, esattamente allo stesso modo in cui era comparso, entrando a piè pari nella vita di Caterina, nel medesimo modo, improvvisamente e inaspettatamente, ne uscì. Caterina si trovò improvvisamente sola. La sua famiglia voleva costringerla a cercare Bruno e obbligarlo a sposarla, ma lei non avrebbe mai voluto stare per tutta la vita con un uomo che era stato obbligato dalla sua famiglia a stare con lei.
Dopo aver chiesto aiuto a quasi tutti i paesani, decise di rivolgersi al Parroco, chiedendo ospitalità e di poter partorire in canonica, aiutata dalla perpetua e dalla grazia dello Spirito Santo. il Parroco, don Filippo, fu chiaro con Caterina: “due settimane dopo il parto, poi dovrai cercarti un altro posto”. Conosceva molto bene le sue parrocchiane, don Filippo: la permanenza a lungo della ragazza presso la parrocchia avrebbe dato adito ad ogni tipo di commento e di sfrenata fantasia erotica, e a nulla sarebbe servito far notare alle signore che don Filippo aveva quasi ottant'anni, e che con Caterina nemmeno nei sogni più arditi avrebbe mai potuto farci meno di nulla. Don Filippo conosceva il fatto suo: bisognava fare tutto quanto il possibile per prevenire potenziali situazioni sconvenienti.
Fu così che, come previsto, tra urla e pianti Caterina partorì un bellissimo bambino. Tanti, venuti a conoscenza della nascita rocambolesca di questo bambino in canonica, portarono chi vestiti, chi provviste, chi medicine o latte. Si mise in moto, insomma, una inaspettata gara di solidarietà, con la partecipazione praticamente di tutti i parrocchiani, molti dei quali, quando Caterina si era rivolta a loro per ricevere ospitalità e assistenza nei giorni del parto, altro che gara di solidarietà: si erano tutti finti sordi e ciechi.
Come d’accordo, scadute le due settimane, Caterina col suo bimbo appena nato, si trovarono a vivere per strada, ma per fortuna, o per volere della Provvidenza (scegliete voi), da quelle parti, in quei giorni, girovagava, col suo carro un artista di strada: Vituzzo, siciliano di Mistretta, che aveva con sé un teatrino di pupi, col quale ogni sera proponeva uno spettacolo diverso, per far ridere i bambini e per far riflettere, con le storie che raccontava, anche i più grandi.
Vituzzo era una persona di cuore: conosciuta Caterina, e sapute le condizioni in cui le toccava di vivere, decise di proporle di far parte della compagnia dei pupi, portandola via con sé, lei e il suo bambino.
Finalmente Caterina aveva (forse) trovato chi l’avrebbe ascoltata, ogni volta che le sarebbe venuta voglia di parlare.


Lo zio Damiano
Avevano dovuto insistere non poco, Antonia Ritella e sua sorella Maria Catena, nate, cresciute, maritate e residenti, ognuna con la propria famiglia, a Stigliano, per convincere Damiano, loro fratello maggiore, a tornare, dopo quasi vent’anni, per ritrovarsi tutti insieme al paese. Innanzitutto, e non era certo cosa di poco conto, per salutare, probabilmente per l'ultima volta, i suoi genitori, che in 20 anni si erano fatti “vecchi assai”, e che non davano certo impressione di essere eterni. Ma poi, naturalmente, anche per incontrarsi: “tra loro stessi”, a distanza di vent’anni, e per far conoscere, finalmente di persona, a mariti e figli, lo zio Damiano, che era emigrato nel nuovo mondo, e che, a Buenos Aires, aveva fatto fortuna nel campo dell’edilizia. Tutti loro, da sempre, pur non avendo mai conosciuto di persona il loro facoltoso e fortunato zio (o cognato, per gli eredi consorti), sentivano di volergli un gran bene, a questo fratello, o zio, o cognato così munifico; e di voler presto seguire le sue orme nel nuovo mondo, dove anche a loro non sarebbe spiaciuto occuparsi, come lui, di edilizia.
Sempre generosissimo: ad ogni Natale, ad ogni Pasqua, ad ogni compleanno, lo zio Damiano non mancava mai di ricordarsi di ognuno di loro, e di mandare regali sempre molto costosi. E come sempre capita, quando si abitua qualcuno a ricevere dagli altri in un certo modo, tornare indietro, anche solo temporaneamente, anche solo per sbaglio, non è più possibile. Capitava così che ognuno reclamasse, come un diritto acquisito, il suo bel regalo, che doveva avere un valore che, giustamente, tenesse conto del proprio, più o meno stretto, legame di parentela. Non era quindi raro assistere a litigi, perché il regalo fatto ad un cognato, fosse dello stesso valore di quello fatto a un nipote, fregandosene allegramente del fatto che un nipote, e questo nessuno lo poteva mettere in discussione, avesse senza dubbio diritto ad un regalo di valore ben maggiore, rispetto a quello fatto ad un cognato.
Volevano tutti un gran bene allo zio Damiano, e alla fine, certe sviste, e certe leggerezze, riusciva sempre a farsele perdonare. Nessuno l'aveva conosciuto di persona, se non le sue due sorelle, ma tutti sentivano, da sempre, di volergli un gran bene, a questo fratello o zio o cognato, e di voler presto seguire le sue orme nel nuovo mondo, come lui: nel campo dell’edilizia.

 

Il prof. Scarano
Donato Scarano era, come si dice, un figlio insigne della terra di Lucania. Nato a Pisticci, dove ancora viveva tutta la sua famiglia, aveva conseguito a tempo di record, e a pieni voti, la laurea in ingegneria mineraria presso il Politecnico di Torino, poi il conseguimento del PhD svolto per metà al Politecnico e per metà presso il MIT di Boston. Poi una carriera tutta spesa nella ricerca sulle tematiche legate all’inquinamento. Suo, ad esempio, il contributo più rilevante ad uno studio che aveva portato all’individuazione di alcune sostanze altamente nocive per il sistema immunitario umano, contenute nella stragrande maggioranza dei pannelli, a quel tempo utilizzati sia per la realizzazione di tetti, sia di terrazze. Da quella scoperta partì un’opera ciclopica di bonifica, ben lungi dall’essere completata, per l’eliminazione di queste sostanze, come detto, a quel tempo diffusissime.
Consulente, per conto dell’ENEA, del CNR e di altri enti pubblici e privati sulle tematiche dell’ambiente e del territorio, era ritenuto una delle massime autorità, per quanto riguardava lo studio dei processi che sono alla base dell’enorme miglioraamento delle capacità di abbattimento dei filtri di nuova generazione. Filtri in grado di ridurre praticamente a zero la componente nociva presente nei fumi prodotti dagli stabilimenti. I nuovi stabilimenti estrattivi e di raffinamento del metano, di recentissima costruzione, e ancor più recente messa in opera da parte dell'ENI della Valbasento, richiedevano, per proseguire la loro attività estrattiva, che venisse in tempi brevissimi individuata la soluzione più conveniente, per quanto riguardava l'abbattimento delle sostanze nocive, emesse da ognuna delle ciminiere. Per far questo l’ENI si era affidata al professor Scarano, appunto, affinché rappresentasse per conto dell'ENI l’ente tecnico che doveva stabilire la compatibilità della soluzione proposta, con le recentissime normative in tema di inquinamento e di filtraggio fumi.
Compito del professor Scarano era quindi quello di valutare l'efficacia di ognuna delle soluzioni, proposte dai vari fornitori tra loro in gara, e semplicemente stabilire quali di queste soluzioni potessero essere ritenute compatibili con le normative e quali invece no. Il professore si mise subito all'opera, e nel giro di qualche giorno aveva già individuato che su quattro soluzioni proposte tre fossero adeguate a un facile raggiungimento dei punteggi previsti dalle normative, mentre uno era decisamente inadeguato. Il risultato di questa analisi sarebbe stato trasmesso nei giorni successivi all’ENI, affinché potesse fare le proprie valutazioni in termini anche economici finanziari. Scarano stava giusto uscendo dal suo ufficio, quando incontrò il prof. Nasi, un suo carissimo amico, nonché vecchio compagno di università.
Anche lui, come Scarano, svolgeva spesso il ruolo di consulente tecnico. Era da tanto che non si vedevano, quindi quando Nasi propose di andare a cena insieme, Scarano non se lo fece ripetere una seconda volta. Nasi era un suo carissimo amico. Fin dai tempi dell'università avevano condiviso tanti successi, tante pubblicazioni memorabili valutate eccellentemente a livello internazionale. Nel ristorante dove andarono nessuno lo sapeva, ma quei due rappresentavano un pezzo della storia italiana per quanto riguardava i temi dell’ecologia, della salvaguarda dall’inquinamento e della eco-sostenibilità da parte del territorio.
Mentre erano lì che conversavano amabilmente, si avvicinò al tavolo una persona che Scarano riconobbe subito: si trattava di uno dei partecipanti alla gara, in particolare quello che aveva presentato la proposta tecnica che palesemente non rispettava le normative. Nasi non parve affatto sorpreso di vederlo, Scarano capì subito che i due si erano dati appuntamento lì per tendergli una sorta di imboscata. L'ingegner Cirri, così si chiamava, era persona simpatica e amabile, ma anche piuttosto sbadata, perché ad un certo punto, senza rendersene conto, fece cadere una busta molto grossa sulla parte del tavolo occupata da Scarano. Dopo questa mossa, si alzò e fece segno ai commensali che aveva necessità di andare in bagno urgentemente. Una volta rimasti soli, Nasi disse a Scarano che non conosceva di preciso il contenuto di quella busta, ma sicuramente si trattava di svariati milioni di lire, un segno di riconoscenza e un omaggio di ingresso in un club, di cui lui e tanti altri faceva parte già da anni, di persone che avevano saputo far conciliare il proprio tornaconto personale con quello della collettività.
Nasi e molti altri, come detto, già ne facevano parte e se anche Scarano avesse deciso di aderire, non ci sarebbero stati problemi a fornirgli l’elenco completo, che Nasi definì numerosissimo e potentissimo. Si trattava di una associazione di persone tutte estremamente influenti, che ogni tanto chiedevano, ma erano anche disposte a dare, per favorire chi ne faceva parte.
Nel frattempo l’ingegner Cirri era tornato dal bagno, tutto felice e contento: la busta sul tavolo non c'era più, la risposta di Scarano era arrivata ed era positiva. La serata si concluse poco dopo con un brindisi e con l'augurio di poter presto trovare il modo di rendersi vicendevolmente utili alla causa comune.

 

Andrea Bernardo, sindaco di quel paese
Immagino non siano molti a sapere che in provincia di Matera esiste un comune che nessuno ha il coraggio di chiamare col suo nome. E questo per via di alcuni aneddoti sinistri di fatti che, in tempi non molto lontani, ebbero luogo proprio in quel comune lì.
A Montalbano jonico lo chiamano “Cudde Puaise”, a Valsinni: “Chille Paise”, a Senise: “Cudd Paìs”. Ogni paese della Lucania ha un modo diverso di chiamarlo, ma, statene certi, nessuno lo chiamerà col suo nome. La causa della presunta innominabilità di questo paese è legata ad un ben preciso accadimento, di cui riportano in modo preciso le cronache del tempo, e che ebbe per protagonista il Podestà di quel paese: tal Biagio Virgilio. Egli, concludendo un suo discorso nella sala del comune, disse qualcosa del tipo: “e se non dico il vero, che possa cadere questo lampadario”, riferendosi ovviamente al pesantissimo lampadario presente nella sala.
Ebbene, sembra che a distanza di pochissimo tempo, quel lampadario, che era enorme e pieno di pesantissime decorazioni metalliche, cadde davvero, uccidendo coloro che, per disgrazia, si trovavano a sostare proprio sotto di esso.
A contribuire alla sinistra notorietà del paese, furono anche le credenze alimentate dagli abitanti dei paesi vicini, che parlavano di arti magiche e di stregoneria. Nel corso dei decenni, molti sono stati quelli che, sfidando la sorte, e contravvenendo alle indicazioni di non entrare in quel paese, hanno poi riferito di tutta una lunga serie di “contrattempi”, alcuni dei quali, decisamente inquietanti.
La “spedizione” più significativa, con tanto di troupe televisiva al seguito, raccontò di episodi più degni di un bollettino di guerra, che di appunti di un nomale reportage televisivo: gomme forate, motore dell’auto danneggiato gravemente; uno zampognaro, che aveva accettato di farsi intervistare sui riti locali, morto travolto dall’autocarro dove viaggiava, esattamente un’ora prima dell’appuntamento con la troupe televisiva che avrebbe dovuto intervistarlo; uno degli assistenti della troupe caduto per le scale dell’albergo, un altro giornalista della troupe, a cui si erano accesi spontaneamente i fiammiferi in tasca, rimasto ustionato, un fotografo colto da improvvisa febbre, e tutta una lunga serie di incidenti, malanni e sciagure definiti “minori”.
Il sindaco di Colobraro, così si chiama questa non proprio ridente cittadina, già da alcuni anni organizza “la notte dei rituali magici”, e durante tutto l’anno registra numeri strabilianti di visite di turisti, che ovviamente vogliono soggiornare almeno una notte per poter vivere l’ebbrezza di aver passato una notte nella città che non si può nominare.
Qualora, incoscientemente, sfidando il soprannaturale, vi venisse la malsana idea di andarci, non mancate di riportarci tutto il (ne siamo certi) lunghissimo elenco di eventi inquietanti, che non potranno che dissuadere (o forse invogliare?) chi ancora non ci è stato, dal volerci andare.
Voi tutti, invece, che persino dopo aver letto questo articolo doveste avere l’impudenza di recarvi comunque a passare una notte in quel posto, non veniate poi a dirci che non vi avevamo avvisati!