How many roads must a man walk down Before you call him a man? How many seas must a white dove sail Before she sleeps in the sand? Yes, and how many times must the cannonballs fly Before they're forever banned?
The answer, my friend, is blowin' in the wind The answer is blowin' in the wind

Trieste 22 aprile  1973

Dedico questo post a Fulvio Tomizza, grande e  indimenticabile amico.

Abbasso il volume della radio e apro il finestrino. Entra un vento dal tepore di seta, forse lo stesso vento dove, come canta Bob Dylan,  pare si celino alcune risposte alle domande della vita.  Scivoliamo sulla strada costiera che porta a Trieste. Costa mediterranea, e insieme nordica, proprio come Trieste. Guardo in su e scorgo il Castello di Miramare. La mente corre alla poesia di Carducci_ “Miramare contro i  tuoi graniti/ grigie dal torvo pelago salendo con un rimbrotto d’anime crucciose battono l’onde.”
E’ un tardo pomeriggio di primavera, uno di quei pomeriggi dove s’insinua una misteriosa tristezza. Guardo il Castello e penso che spicca come un fiore, bianco come un  giglio. Un fiore che nasce da un sentimento che nessun evento, nessuna epoca potrà mai cancellare:l’amore. L’aveva infatti  fortemente voluto e ideato Massimiliano d’Asburgo, romantico sognatore per farne un nido d’amore dove rifugiarsi con la sua amatissima moglie Carlotta del Belgio.

-Dobbiamo fermarci e guardare la mappa, capire qual è la strada per Padriciano…
Gianni, che è alla guida, interrompe i miei pensieri che vagano da Dylan a Massimiliano ovvero due personaggi fatti della stessa materia dei sogni.
-Gianni, basta chiedere a qualcuno. Padriciano è un luogo fin troppo noto a Trieste…

PADRICIANO E L’ESODO GIULIANO–DALMATA

Negli  anni '50 Padriciano, borgo a 5 chilometri da Trieste, divenne uno dei principali centri di accoglienza degli esuli italiani in fuga dall’ex Jugoslavia, specialmente nel 1954-55, dopo la spartizione territoriale tra Zona A, all’Italia, e zona B, alla Jugoslavia. Il centro di raccolta profughi fu dismesso negli anni ’70. Successivamente, sempre intorno agli anni ’70,  fu allestito un altro campo per accogliere persone che fuggivano dai Paesi comunisti dell’Europa Orientale. Ed era qui che, quel tardo pomeriggio del 1973, io e Gianni eravamo diretti.

Ma, prima di proseguire con il racconto, devo abusare dell’amabile pazienza di quanti mi hanno accordato il dono della loro attenzione. Un pedaggio non esoso, un flashback storico, sulle vicende che portarono a quel drammatico esodo e connotare meglio la simbolicità storica del luogo dove avremmo incontrata  una giovane coppia  fuggita dalla Cecoslovacchia.  

Tutto cominciò nell’agosto del 1946, con i lavori della Conferenza di Pace di Parigi. A quell’assise noi figuriamo come paese sconfitto e nemico. A questo proposito mi piace rammentare l’incipit memorabile del discorso di Alcide  De Gasperi, allora capo del nostro governo.Prendendo la parola in questo consesso mondiale, sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me. E’ soprattutto la mia qualifica di ex nemico che mi fa considerare come imputato.”
Un discorso di grande dignità, pronunciato da un politico d’altri tempi e d’altra tempra morale, che con determinazione, negli anni seguenti, ridarà fiducia a un paese lacerato e umiliato da una guerra terrificante quanto inutile.
I lavori della conferenza confluiranno nel Trattato di Pace di Parigi che verrà sottoscritto dai partecipanti il 10 febbraio del 1947. Per l’Italia è un mortificante diktat. I titoli dei giornali italiani furono eloquenti.
Leggiamone alcuni:Un’ombra è scesa sull’altare della Patria". "Alle 11,35  firmata la nostra dura condanna”. “Amaro silenzio in tutta Italia...”.
Quando la radio diffuse la notizia i negozi abbassarono le saracinesche, molti mezzi pubblici smisero di circolare e sul paese intero calò un velo di rassegnata mestizia. Il Trattato impose all’Italia la rinuncia a tutte le sue colonie, ma la mutilazione più dolorosa fu  nella Venezia Giulia.
Le popolazioni italiane di Istria e della Dalmazia dovettero prendere coscienza che il passaggio alla Jugoslavia era irreversibile e che “i nuovi venuti – come ha scritto Fulvio Tomizza, istriano, nel suo romanzo “La miglior vita– non se ne sarebbero mai andati, che la loro amministrazione non sarebbe mai stata provvisoria (Ho avuto la fortuna di conoscere Tomizza negli anni’80. Gli raccontai delle circostanze che mi portarono a Padriciano nel 1973. Conosceva bene i risvolti umani della condizione di profugo. I suoi racconti mi fecero capire molte cose sull’esodo giuliano-dalmata, ma anche del dramma umano  di chi è costretto a lasciare la propria terra come appunto i nostri amici cechi  ndr). 
Tra le migliaia di italiani istriani, fiumani e dalmati, che lasciavano case e tutto quello che avevano, c’erano giovani destinati al successo nel mondo dello spettacolo, dello sport e del giornalismo: Laura Antonelli, attrice; Sergio Endrigo cantautore; Mario Andretti, pilota di formula 1; Abdon Pamich, marciatore olimpico; Nino Benvenuti pugileEnzo Bettiza giornalista e scrittore.
Saranno circa 270 mila le persone che giungeranno a Trieste e da qui poi avviate ai vari Centri di Raccolta Profughi sparsi in tutta Italia. Negli anni ’70 invece, come accennato, Padriciano divenne il crocevia delle speranze di migliaia di persone che scappavano dai paesi della Cortina di Ferro. Aspettavano gli esiti delle domande d’asilo politico che avevano presentato.
Non tutti gli ospiti della struttura sarebbero rimasti in Italia. Molti, dopo l’accoglimento della domanda, avrebbero chiesto il visto d’ingresso per gli USA, il Canada, la Francia. Dovevamo incontrare una coppia fuggita da Praga: Yrina e Josef. Ci avrebbero dato delle lettere da consegnare ai loro genitori rimasti nella capitale boema. Dove noi eravamo diretti, perché il 25 aprile si sarebbe giocata la semifinale di ritorno di Coppa delle Coppe tra Sparta Praga e Milan.
Ma, come in tutte le storie che meritano di essere raccontate, occorre fare un passo indietro e riavvolgere –ma di poco– il nastro.
Insomma, un breve, ma necessario, rewind.

UNA MISSIONE PERICOLOSA
Gianni non era la prima volta che andava a Praga. Dal ’69, l’anno dopo l’invasione russa, c’era andato tutti gli anni. Nel ’70 mi chiese di accompagnarlo e scoprii una città incantevole. In ogni angolo, nei luoghi più celebrati mi tornavano in mente le pagine dei libri di Kafka e di Kundera... Evocavo i luoghi attraverso uno sforzo di memoria e di immaginazione. D’altronde, come ha scritto John Banville nel suo straordinario ‘Ritratti di Praga': esistono tante Praga quanti sono gli occhi che la guardano, anzi di più: un’infinità di Praga.

Il rewind, adesso, ci riporta sulla macchina e sull’autostrada che porta a Trieste.
-Senti Gianni, ma tu quando li hai conosciuti Yrina e Josef?
-Nel 1969, ma se devo essere sincero ho conosciuto prima lei... non era un bel momento. I russi avevano piantonato la città, ti fermavano ogni momento. Aprivano il bagagliaio della macchina, facevano domande allusive alle ragazze praghesi che erano con noi in auto. Yrina appartiene a una famiglia in vista di Praga. Lei studia ingegneria elettronica, il padre è un alto dirigente del Ministero dei Trasporti. Una ragazza straordinariamente intelligente…

…e naturalmente straordinariamente bella…
- Si lo ammetto…un fascino incantevole!
- Di quelli irresistibili suppongo…
- Beh…sì…ecco insomma…
- Quanto è durata la love story, ammesso che sia mai finita?
- Fino al 1972… poi come sai ho incontrato Cinzia e comunque anche a voler continuare, distanza, lontananza e contingenze storico-politiche non hanno favorito.
Ma, abbiamo continuato a scriverci. Poi a gennaio di quest’anno non ha più risposto alle mie lettere. Verso la fine di marzo, in ufficio, ho ricevuto una telefonata. Era lei. Piangendo mi ha raccontato che era scappata da Praga con Josef.
Le ho chiesto di chiamarmi la sera a casa. Mi spiegò che si trovava a Padriciano, vicino Trieste, nel campo  profughi dell’Est comunista. Hanno chiesto il visto per il Canada. Sono entrambi ingegneri. Gente qualificata, senza dubbio lo avranno.
Mi ha implorato, in nome di quello che c’era stato tra noi, un favore enorme. Hanno delle lettere che vogliono siano consegnate ai loro genitori…”.

…e naturalmente non le possono mandare per Posta…

-Intuisco che stai cominciando a capire le ragioni del nostro viaggio a Praga, dove andiamo per assistere all’importante partita del Milan contro lo Sparta…
- Certo, a meno che non ci becchino alla frontiera con queste lettere e diventeremo degli ospiti, poco graditi, delle prigioni statali cecoslovacche. E poiché, aspetto da non sottovalutare, io e te contiamo quanto il due di coppe quando la briscola è a denari, ipotizzo una nostra lunga permanenza nelle strutture detentive in oggetto… con un addetto dell’ambasciata italiana che, di tanto in tanto, verrà a trovarci e, con tono compassionevole, ci dirà: ragazzi, ma perché non vi siete limitati ad andare allo stadio… e basta. Comunque, stiamo facendo il possibile per tirarvi fuori di qui. Comunque, qual è il piano che hai in mente, visto che mi hai trascinato in questa spy-story ritengo di avere il diritto di conoscerlo.”

Prima di proseguire è giusto fornire qualche dettaglio ai fini di una corretta comprensione della storia che sto raccontando. Andare a Praga, in quegli anni, non era come andare a Parigi. Prendi il treno, l’aereo o l’auto e ti ritrovi, senza tanti problemi, sotto la Tour Eiffel a strizzare l’occhio alla bella francesina che vende souvenir e depliant. Eh... no, non funzionava così. Per andare nella città di Kafka, negli anni ’70, occorreva recarsi all’ambasciata cecoslovacca a Roma. Chiedere il visto turistico, spiegare le ragioni della visita e dimostrare di avere soldi a sufficienza per tutto il periodo che s’intendeva trascorrere. Per sette giorni dovevi avere almeno cento dollari. Eh già…volevano valuta pesante, possibilmente la moneta del degenerato mondo capitalista. Franchi svizzeri, marchi della Repubblica Federale, ma i preferiti erano i dollari. Andai io  a Roma. Mi chiesero passaporti, ( che fotocopiarono ovviamente) mi diedero un modulo da riempire, con quale mezzo. Auto? Numero di targa e Carta Verde. Albergo? Ospiti di amici di cui dovetti fornire nome e indirizzo.
Motivo della visita: assistere alla partita Sparta Praga-Milan e con l’auspicio di suonarvele. Ma, questo, ovviamente, non glielo dissi all’arcigno funzionario.
Fu come se mi avesse letto nel pensiero. Mi disse, sorridendo malignamente,: lo Sparta è forte…vinceremo. Risposi: Oh… certo è possibile. Noi italiani diciamo però  che la palla è tonda…”Me ne andai velocemente senza dargli il tempo di analizzare la frase.”Negli anni in cui Gianni aveva frequentato Praga aveva conosciuto un simpaticissimo signore – si chiamava Robik e avrà avuto circa 70 anni. Un personaggio che sapeva navigare a vista nelle perigliose acque di una burocrazia che non concedeva grandi margini all’iniziativa privata. Robik possedeva una casa, con diverse stanze, poco fuori Praga, che  aveva adattata a una sorta di albergo, oggi diremmo bed and breakfast. Non prendeva soldi,non poteva ovviamente. Chiedeva, ogni anno, utensili occidentali come trapani, seghe elettriche…aveva una passione smodata per la gamma degli accessori Black Decker. Gianni ogni volta, prima di partire, lo chiamava al telefono e si faceva dire qual era il pezzo mancante. Chiedeva anche bottiglie di Martini e stecche di Marlboro che chiaramente servivano per ungere le ruote con il funzionario di polizia di turno. Lui doveva dichiarare che ospitava amici e portare i passaporti.
A Praga, il nostro celebre vermouth e le sigarette americane simbolo di una nazione che la loro propaganda paragonava al demonio, erano ricercatissimi dalla gente comune e contribuivano a far chiudere un occhio, qualche volta anche due, ai rigorosissimi guardiani dell’ideologia comunista. Per completare il quadro aggiungerò che Gianni lavorava in banca, io studiavo, ma guadagnavo qualcosa come segretario di una associazione imprenditoriale. No…non era la Confindustria, purtroppo!Però la sfangavo… ugualmente!

L’INCONTRO
Un annoiato poliziotto ci chiese i documenti e i nomi delle persone con le quali volevamo parlare. Li scrivemmo su un pezzo di carta. Pochi minuti di attesa e sulla porta si stagliarono le figure di una coppia giovane, entrambi sorridenti di quel sorriso che definirei contagioso. Josef, nella sua giovane vita doveva aver praticato tutti gli sport possibili. Yrina invece... più la guardavo e più comprendevo Gianni. Si capiva subito che non era di estrazione proletaria. Era chiaramente figlia di un alto esponente della nomenklatura comunista. Parlava un ottimo inglese combinato con un buon italiano, evidentemente appreso grazie alla relazione con Gianni. D’altronde, come si dice, Amor vincit omnia. L’amore vince su ogni cosa e abbatte anche le barriere linguistiche.  
Era dotata di un’intelligenza intuitiva che si abbinava a un modo di fare decisamente brillante. Quando in una donna queste caratteristiche intellettive si combinano con un corpo sensuale e due occhi in grado di scrutare e ipnotizzare chi le sta davanti si viene a creare una miscela potentissima e pericolosa. Pericolosa, data la circostanza, era proprio la giusta definizione. Con quegli occhi blu acquamarina – che ci fissavano – soprattutto puntati su Gianni - ci stava chiedendo di andare a casa dei suoi genitori per consegnare due lettere, una delle quali era per i genitori di Josef. Ci spiegò, poi, che dovevamo fare molta attenzione. La casa di suo padre era sicuramente sorvegliata, discretamente dato il personaggio, dalla StB, o Statni Bezpecnost, la polizia segreta ceca.  Ci consigliava di andare a piedi, lasciare lontano la macchina. Una vettura straniera, con  targa già nota alla polizia di frontiera, poteva portare alla nostra immediata individuazione. Era in preda a un’ansia opprimente gravata da un forte complesso di colpa. Con il suo gesto aveva messo i suoi genitori, soprattutto suo padre, che ci disse aveva anche un incarico di rilievo nel Partito Comunista cecoslovacco, in una situazione difficile. Si fermò e una lacrima le scivolo sul bellissimo volto.
Decisi, in quel momento, che avrei messo da parte ogni esitazione e che quelle lettere le avremmo consegnate. Guardai Gianni e gli  sussurrai: non si può stare sempre a guardare. Andiamo a Praga e facciamo la nostra parte. Mi guardò e sorrise sollevato. A quel punto capii che il ricordo di quell’amore non aveva mai smesso di fargli male.
A Praga dunque!

(SEGUE)