PREMESSA
Pier Paolo Pasolini, nel corso di un’intervista, sminuì le qualità di Gianni Rivera.
Luciano Bianciardi, scrittore giornalista, autore di quel bel libro che è La vita agra, riveriano da sempre, gli replicò piccato: "Dante Alighieri lo aveva previsto settecento anni fa, quando scrisse Io vidi lume in forma di Rivera".
Si tratta di un verso del canto 30 del Paradiso. Mi è sembrato doveroso farci il titolo del post.

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“Il calcio è come la poesia, un gioco che vale la vita.
Voglio dirglielo: anche il poeta ha il proprio campo
ove parole, colori e suoni vanno verso l’esito felice.
Fa anche lui il gol o lo lascia fare, dando spazio
alle ali, al lettore che cammina al fianco e che entra in porta con lui,
nella felicità di aver colpito il segno”
(Da una lettera aperta di Alfonso Gatto a Gianni Rivera)

A scoprirlo, nel 1959, fu Gipo Viani. Lo ‘sceriffo’ però aveva dubbi sul fisico, troppo esile, gracilino, anche se con i piedi ci sapeva fare. Ma, si sa, Gipo, in fatto di prestanza fisica, giudicava facendo riferimento alla sua, che era notevole: 1,85 per 83 chili.
Non a caso lo chiamavano lo sceriffo, somigliava, tra l’altro, straordinariamente a John Wayne.
Di calciatori però se ne intendeva, quasi quanto di donne, whisky e poker. Era un viveur, dotato di una naturale vivacità che Tomasi di Lampedusa avrebbe definito insanabile. Niente a che fare con certi volti e figure di personaggi del calcio di oggi che sembrano scappati da un convento di cistercensi della stretta osservanza ovvero frati trappisti. Predicatori di una sola religione: la noia cosmica e, purtroppo, proprio al Milan ne abbiamo avuto qualche esemplare e temo che ne presto ne scopriremo qualche altro.

Ma torniamo al nostro racconto.
Giovanni Rivera, nasce il 18 agosto 1943 a Valle San Bartolomeo, provincia di Alessandria. I suoi genitori si erano trasferiti nel paesino per sfuggire ai bombardamenti degli alleati che, in quell’anno e in quei giorni, picchiavano duro sull’intera penisola.
Passata la bufera della guerra, il piccolo Gianni, nelle lunghe partite nei cortili del borgo dove viveva, palesò le sue precoci doti calcistiche. Grazie alle quali, nel 1959, finì all’Alessandria. Ad allenarla era Franco Pedroni, ex-giocatore del Milan che aveva intuito le abilità  del biondino, come lo chiamavano nell’ambiente calcistico alessandrino.
Pedroni aveva un sogno: portarlo al Milan. Molte società lo avevano adocchiato. Tra queste, l’Inter , che lo seguiva da qualche tempo su indicazione precisa di Angelo Moratti. A Pedroni, questo interessamento nerazzurro non andò giù. Anche perché il commendator Moratti disse una volta, a chi gli chiese un parere sulla giovane mezzala: “Il ragazzo è bravo, però con quel fisico chi si fida.”
Il giudizio irritò l’allenatore dei grigi che subito contattò Viani.
Il
17 maggio del 1959 l’Alessandria giocò contro il Torino e stravinse grazie anche  a una tripletta del gioiellino di Valle San Bartolomeo. La perfomance esaltante del futuro Golden Boy fece drizzare le orecchie del Gipo che, a fronte dell’ennesimo pressing di Pedroni, per un provino, rispose tagliando corto: «Ci vediamo mercoledì al campo di Linate». Qui, il Milan, faceva i suoi test sulle giovani promesse. La squadra rossonera, che si avviava, proprio in quell’anno, a vincere lo scudetto, schierò la sua formazione dove ‘c’erano, tra gli altri Schiaffino e Liedholm. La compagine rossonera era allenata da Luigi Bonizzoni, Gipo era il Direttore Tecnico.

IL PROVINO
Era il 20 maggio 1959. Pioveva a dirotto e Viani, per non bagnarsi, guardò la prova, del ‘biondino’, restandosene in macchina.
Alla fine del test aveva ancora dei dubbi. Ripensava, però, alle parole che Silvio Piola aveva detto, sul ragazzo, dopo averlo visto giocare: "A quindici anni non giocavo come lui. Quello è veramente un fenomeno.”
Viani, come un personaggio scespiriano, si aggirava inquieto cercando risposte, certe, ai suoi dubbi. Interpellò Schiaffino e Liedholm. “Sarà o non sarà un campione” continuava a chiedersi e a chiedere come un improbabile principe di Danimarca in versione calcistica.
Da  Schiaffino ebbe una positiva conferma, ma Liedholm fu decisivo come rivelerà egli stesso anni dopo.
Il ‘barone’, infatti, non ebbe dubbi. “Il ragazzino mi aveva impressionato. Sentìì Viani che ne  parlava con qualcuno, ma continuava a dire che era rimasto impressionato a metà. Diceva che aveva piedi buoni ma il fisico non lo convinceva. Viani chiese il mio parere ed io risposi: sì, è vero, il fisico è gracile ma sa giocare al calcio".
Rivera fu preso dal Milan in comproprietà con l’Alessandria. Lo riscatterà l’anno dopo.

Ora, poiché questo post è scritto sotto l’influenza della vaghezza e spensieratezza agostana, lasciatemi annotare alcune considerazioni che, presumo, non saranno apprezzate da alcuni e, probabilmente, nemmeno da una parte della redazione che, a quanto pare, nelle valutazioni sembra aver introdotto un criterio meno attento alla narrazione (storytelling) e più premiante per altri stili... diciamo freak.
Comunque, la riflessione che mi piace esporre, e magari dibattere con altri, è che, a quel tempo, non c’erano algoritmi, nemmeno intelligenze artificiali, eppure i campioni si scovavano lo stesso. Sarà una riflessione, la mia, poco aderente ai tempi – sicuro, ma non me ne importa nulla – la svolgo ugualmente e ci aggiungo un carico da ’90: oggi abbiamo un apparato tecnologico incredibile però, in alcuni casi, l’intelligenza da artificiale è diventata artificiosa.
Chiudo la riflessione e andateci piano con le cataste di legna per il rogo.
Vi rammento comunque il verso di Vincenzo Monti “Oltre il rogo, non vive ira nemica.”

GLASS CEILING INFRANTO ALLO STADIO
Negli anni ’60 gli stadi erano recinti rigorosamente maschilisti. Era raro vedere sugli spalti donne che inneggiavano alle prodezze dei calciatori. Di questa situazione, come alcuni di voi ricorderanno se ne rese interprete Rita Pavone con la sua mitica La partita di pallone. La canzone, scritta da Edoardo Vianello nel 1962, divenne subito un cult. La Pavone aveva solo 17 anni e in meno di due mesi il brano ebbe un successo travolgente. Conquistò le vette della Hit Parade e superò il milione di copie vendute.
Il refrain diceva Perché perché la domenica mi lasci sempre sola, per andare a vedere la partita, di pallone. Perché Perché, una volta non ci porti pure me.
A Gianni Rivera, che, proprio in quegli anni, divenne la stella del Milan, più di un sociologo gli ha accreditato, grazie alla sua figura, non solo estetica, ma anche sociale, il merito di aver avvicinato il pubblico femminile allo stadio.
Ora, è chiaro, non siamo nati ieri, né io e né voi, sono letture sociali che vanno prese con le pinze. Di certo, però, va evidenziato un aspetto. Rivera piaceva alle ragazze, per via di un indiscutibile physique du role, ma anche perché non era fidanzato e c’era quindi la libertà di fare sogni aspirazionali.
Comunque, piaceva anche alle madri perché aveva l’aria del bravo ragazzo. Nelle interviste parlava dei suoi genitori, raccontava del suo impegno nello studio e si sa queste cose per le mamme contano più di qualsiasi altra. Oltre a queste virtù, ad ogni buon conto, anche le signore convenivano, in omaggio al principio che anche l’occhio vuole la sua parte, che il filiforme genio alessandrino costituiva, decisamente, una piacevolezza estetica, non solo sul rettangolo di gioco.

NEREO ROCCO, L’ALTRO ’PADRE‘
Verso la fine degli anni ’60 – diciamo tra il ’68 e ’69 – la società occidentale è scossa dai rivolgimenti giovanili che passeranno alla storia come gli anni della contestazione studentesca. C’è il ripudio di molte figure istituzionali. Tra queste quella del ‘padre’.
I giovani di allora ne tratteggiarono la figura come dispotica, normativa. Percezione che impose ai figli una crescita volta al superamento della imago paterna – secondo l’archetipo di scuola jungiana - attraverso forme di lotta – spesso ideologizzate – ma comunque dense di contenuti, simbologia, pensiero in contrapposizione al padre autoritario.
Rivera, a conferma di quanto abbiamo affermato prima, consolidò la sua immagine di bravo ragazzo non aderendo alle ideologie ribellistiche allora di moda. Non solo non ripudiò il padre, ma addirittura, nel corso di un’intervista, dichiarò di averne due. Uno, ovviamente, quello biologico, l’altro - ça va sans dire - è Nereo Rocco. Ho avuto due padri – disse nel corso di quell’intervista – uno è il mio vecchio Teresio, che mi tengo stretto e caro. Il primo naturale, l’altro, come calciatore, è Nereo Rocco".
Rivera lo conobbe durante le Olimpiadi di Roma del 1960. Aveva solo 17 anni ed era il più giovane tra i convocati. La nazionale Olimpica era guidata da Rocco e da Viani che era il responsabile della selezione. 
Inizialmente i rapporti furono freddini. Il paron, nei confronti dei pivelli, nutriva una diffidenza che potremmo definire costituzionale. Credeva fermamente nel dogma pedagogico della gavetta. I giovani dovevano mordere il freno, guardare e imparare.
Nel 1963, Rivera era l’icona rossonera per eccellenza. Si confermò giocatore di gran classe, direttore d’orchestra del gioco milanista e, proprio a maggio di quell’anno, il Milan a Wembley conquistò la Coppa dei Campioni, battendo per 2-1 il Benfica, e il diciannovenne golden boy  del calcio italiano fece per intero la sua parte. L’aspetto curioso, quanto stridente, nel sodalizio Rocco - Rivera, è costituito dal fatto che il paron fu indubbiamente uno dei pionieri del catenaccio. Mentre il suo giocatore prediletto è, ancora oggi, considerato nemico dichiarato di quella tattica di gioco.

NON CREDO ALLA SUA PAROLA D’ONORE
Rivera: “Mi sento massacrato qui. Non posso credere che lei non veda niente.”
Lo Bello: ”Le do la mia parola d’onore che non riesco a vedere questi falli.”
Rivera:Non credo alla sua parola d’onore.”

Risposta che, il principe degli arbitri italiani, Concetto Lo Bello di Siracusa, considerò oltremodo offensiva e pertanto la conseguente punizione per il golden boy fu severissima: quattro giornate di squalifica.
L’arbitro siciliano e Rivera non erano fatti per intendersi.
Rammento un’altra partita, arbitrata da Lo Bello, dove il Gianni nazionale lo inseguì per fargli notare che aveva lasciato correre su un fallaccio al limite del codice di procedura penale. Lo Bello non lo stava ad ascoltare e allora sbottò:Ma questo chi si crede di essere, Sophia Loren.” 
Ovviamente, il ‘Tiranno di Siracusa’ come lo definì, acutamente, Gianni Brera, lo spedì, anzitempo, negli spogliatoi. Se non ricordo male l’episodio accadde nel 1973. Ci fu una dura reazione di Rocco che, nel corso di un’intervista, non le mandò a dire all’arbitro siciliano.
La personalità ha distrutto l’arbitro – dichiarò Rocco – lui non arbitra più le partite, ma fa di esse un palcoscenico per fare sfoggio del suo esibizionismo.”
Rincarò la dose lo stesso Rivera che accusò Lo Bello, e altri arbitri, per tre mancati scudetti della compagine rossonera negli anni ’70. In effetti, per tre anni di seguito, in quegli anni, il Milan arrivò sempre secondo. Indubbiamente, l’arbitro Lo Bello, sostenuto anche da una notevole prestanza fisica, sul campo palesava una personalità che sovrastava i giocatori – che diventavano comprimari o spalle dello spettacolo lobelliano – e incanalava l’esito della partita secondo la sua, spesso, tracotante, hybris.
Non dimenticherò mai quel commento di Sandro Ciotti, alla radio, quando, per un’incredibile e iniqua decisione, fu scippata, all’ultimo minuto, la giusta vittoria a una delle compagini. Ciotti disse: ”Lo Bello, oggi, ha arbitrato davanti a 80 mila testimoni.”


L’ABATINO
Il vocabolario della Treccani che, per scrupolo esegetico, sono andato a consultare dice che abatino significa giovane prete, con talora sottinteso un senso di eleganza e galanteria. Il termine, in letteratura fu usato dal Foscolo una leziosità da vero abatino d’Arcadia”. Ippolito Nievo, in un suo racconto, scrisse diun bel pretone di montagna poco amico degli abatini”. Chissà perché, il bel pretone di montagna, che ha in uggia gli abatini, mi ha fatto venire in mente Gianni Brera. D’altronde se pensate, per un attimo, alla conformazione fisica del grande giornalista e scrittore e lo immaginate vestito di un saio e relativo cordone bianco, intorno all’ampio giro-vita, diciamoci la verità:  è azzeccato o no questo accostamento frutto dell’immaginazione di un riveriano convinto quale mi onoro di essere? Abatino, fu il soprannome, coniato dal mitico giornalista, che rimase appiccicato, sul Golden Boy, come una seconda pelle. Nel lessico pallonaro è sinonimo di giocatore dotato di grandissima classe, ma privo di potenza fisica.
Gianni Brera, sul calcio, aveva le sue idee. La partita perfetta era quella che finiva 0 a 0. Il catenaccio era la tattica di gioco più adatta  alla congenita debolezza fisica degli italiani che potevano colpire in contropiede utilizzando gli elementi più veloci. Diciamo pure che Brera del calcio aveva una visione antropologica che gli derivava dalle sue origini, dalla sua amatissima pianura padana. Niente a che fare dunque con la leziosità di gioco dei brasiliani o il calcio totale degli olandesi.
I suoi eroi erano i difensori rocciosi – Picchi, Burgnich, Facchetti – o attaccanti dotati di grande forza fisica come Piola e più tardi Gigi Riva che chiamò Rombo di tuono.
Tra gli allenatori, dunque, prediligeva i teorici del catenaccio: Nereo Rocco con il quale nacque una stretta amicizia fondata anche sulla condivisa passione per il vino, ma anche Enzo Bearzot e Giovanni Trapattoni. Ovvio che in tale pantheon di assertori convinti del catenaccio e di rocciosi calciatori, Gianni Rivera non poteva trovare posto. La sua campagna anti-riveriana cominciò a metà degli anni ’60 e raggiunse il top ai Mondiali del 1970.
La semifinale con la Germania, con il goal di Rivera divenuto un’icona del calcio (ci hanno scritto libri, fatto film e pieces teatrali ndr) non lo entusiasmò per niente. Ricordo ancora l’attacco del suo ‘pezzo’: "E’ stata una brutta partita.”

RIVERIANI E ANTIRIVERIANI
Rivera non fu universalmente celebrato e amato. Fu un nome divisivo. Oggetto di intense campagne giornalistiche, a sfavore, alcune, di particolare ruvidezza. Divisioni che fanno parte dell’ethos italico. Vocazione a dividersi e, senza scomodare il richiamo storico ai Guelfi e  ai Ghibellini, ci limitiamo a ricordare le fazioni formatesi intorno ai nomi dei  ciclisti Guerra e Binda o anche a quelle di Bartali e Coppi. Con Rivera e Mazzola, poi,  al tempo della staffetta in nazionale. Fazioni in lotta, ma anche cazzotti. Protagonisti, manco a dirlo, Gianni Brera e Aldo Palumbo. Del primo sappiamo, fin troppo bene, come la pensava su Rivera. Aldo Palumbo, penna raffinatissima, era un riveriano convinto e sostenitore del gioco offensivo. Il ring fu la tribuna di Brescia prima di una partita.
Per farla breve, Palumbo si beccò un gancio sul muso e Brera, che da giovane aveva fatto pugilato, se ne vantò a lungo. Il padano Brera, comunque, esagerò parecchio nel sottolineare, con disprezzo, le origini napoletane del collega. L’antimeridionalismo, a mio parere, è stata la macchia indelebile nella carriera di questo straordinario scrittore.
Comunque, Brera, riuscì a litigare, ferocemente, anche con Giovanni Arpino, giornalista e scrittore istriano,  che definì i commenti e le analisi breriane stalinismo critico. Definizione che inaugurò a una lunga inimicizia corredata da insulti ogni volta che s’incontravano. Al di là di queste intemperanze c’è un aspetto che merita di essere rilevato. Brera confidò, dopo diversi anni, di essere sempre stato un grande ammiratore del regista rossonero. Disse esattamente: “Io fingo di maltrattare coloro per i quali stravedo.” Perché, dunque, quelle critiche feroci? “Per vendere più copie”.

IL NUREYEV ROSSONERO
Ma anche il D’Annunzio del dribbling”. Rivera, con il suo stile di gioco, la sua eleganza e precisione nel passaggio , che passerà alla storia del calcio comeIl tocco in più’ suscitò l’interesse di scrittori e poeti. Le grandi firme del giornalismo italiano si contendevano le sue interviste. Giorgio Bocca, Oriana Fallaci, Lietta Tornabuoni che scrisse: “Corre sul campo con la faccia esultante e ridente, con le braccia tese vicino al corpo e i pugni chiusi. Senza grida né sguaiataggini, né gesti osceni. Un’immagine così perfetta di felicità,così composta, così piemontese, impossibile da dimenticare.”Il poeta Alfonso Gatto, sfegatato milanista,  che, dalle pagine de Il Giornale di Montanelli, gli indirizzò una memorabile lettera aperta, teneva un grande poster di Rivera sulla parete dello studio. Mitica, poi, l’intervista di Beppe Viola sul tram n° 14. Un documento giornalistico di grande spessore umano e culturale. Dovrebbe diventare materia di studio nelle scuole di giornalismo come testo imprescindibile sullo storytelling. Spesso riascolto la bella, quanto malinconica canzone di JannacciVincenzina davanti alla fabbrica con quel verso che dice “Sto Rivera che ormai non mi segna più”un cameo di un grande cantautore dedicato a un grande calciatore. Quando gli fu assegnato, nel 1969, il Pallone d’oro, il prestigioso riconoscimento di France Football al miglior giocatore europeo, (primo italiano a vincerlo) nella motivazione che lo accompagnava si legge, tra le righe un monito forse  presago di quanto sarebbe accaduto negli anni successivi nel mondo del calcio. “In un football troppo realista – si legge nella motivazione – assai sordido, perfino cattivo, un calcio da choc per i troppi dubbi di doping che lo avvolgono e per i premi in denaro che ne deformano la verità, il capitano del Milan è il solo a dare un senso di poesia a questo sport. Come Oscar Wilde egli ricerca il lato estetico più che il risultato.”

GRAZIE RIVERA!
26 maggio 1969. Stadio Bernabeu di Madrid. Milan e Ajax si affrontano nella finalissima di Coppa dei Campioni.
I rossoneri sfidano la compagine olandese destinata a entrare nella storia con i suoi giocatori-simbolo Cruyff e Neeskens.
Ma, quella notte, quella magica notte, per dirla con Seneca, Ducunt volentum fata, nolentem trahunt ovvero Il fato conduce colui che vuole e  trascina colui che non vuole. Il Milan vuole vincere e il fato assunse le sembianze di Rivera che condusse l’orchestra rossonera alla vittoria in una partita memorabile. 
A 15 minuti dalla fine, i rossoneri vincevano per 3 a 1, Rivera intercettò un pallone a centrocampo, s’involò verso la porta, spostò il pallone per saltare il portiere olandese. Si fermò e tergiversò con la sfera, senza mai guardarla, poi  effettuò un cross morbido, preciso nella zona dell’area olandese dove, come per incanto, svettò la testa di Pierino Prati: 4 a 1. Un assist da antologia di un calciatore che sembrava giocare in un’altra dimensione come Pelè, Platini e Maradona.
Ho rivisto l’azione almeno dieci volte. Guardatela anche voi (è nel filmato che correda il post).
Guardatela e riflettete.


Ho scritto questo post perché il 18 agosto Gianni Rivera compie 80 anni.
Si è capito, credo e spero, che sono un riveriano convinto. Amo il lato estetico di ogni cosa. Nella scrittura, nell’arte, nella musica e dunque anche nel calcio. Quelli della mia generazione, che tifano Milan, a Gianni Rivera devono sogni, emozioni e passioni.
Anche oggi che i nostri volti sono un groviglio di rughe e di ricordi. Questi, vanno trattenuti con forza perché sono ancore per una vita che se ne va.