Le concessioni di cittadinanza italiana comunque fatte ad ebrei stranieri posteriormente al 1° gennaio 1919 si intendono ad ogni effetto revocate.
Art. 24. Gli ebrei stranieri e quelli nei cui confronti si applichi l'art.23, i quali abbiano iniziato il loro soggiorno nel Regno, in Libia e nei Possedimenti dell'Egeo posteriormente al 1° gennaio 1919, debbono lasciare il territorio del Regno, della Libia e dei possedimenti dell'Egeo entro il 12 marzo 1939-XVII. Coloro che non avranno ottemperato a tale obbligo entro il termine suddetto saranno puniti con l'arresto fino a tre mesi o con l'ammenda fino a lire 5.000 e saranno espulsi a norma dell'art.150 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con R. decreto 18 giugno 1931-IX, n. 773.
Regio decreto-Legge 17 novembre 1938-XVII, N.1728 Provvedimenti per la difesa della razza italiana


Leida (Olanda) 10 maggio 1940 - notte
I sospiri di Erik e Sara, impegnati in un appassionatissimo bacio, si accordano con il frusciare calmo dell’Oude Rijn, il Vecchio Reno, sulle cui rive sorge Leida, la città che diede i natali a Rembrandt, (uno dei più grandi pittori della storia dell'arte europea e il più importante di quella olandese). All’improvviso, un rombo assordante, sopra le loro teste, li fa trasalire. Si staccano e guardano verso il cielo. Uno stormo di aerei, sono grossi e tanti.
Erik… ma che succede… - chiede Sara.
Sono tedeschi vanno in Inghilterra… - la rassicura
Pochi secondi dopo gli aerei cominciano a vomitare fuoco e fiamme come draghi preistorici.
Erik si sbagliava. Era  l’alba del 10 maggio 1940 e i tedeschi avevano iniziato l’invasione dei Paesi Bassi.

Nelle stesse ore, a Dordrecht, città situata su un’isola del delta Reno-Mosa, un uomo, intento a leggere il giornale, sente il ronzio basso e costante  di diversi aerei nel cielo, si alza dalla poltrona, si avvicina alla finestra e guarda in alto. Centinaia di funghi neri calano lentamente dal cielo: paracadutisti. Sono tedeschi, lo deduce dai contrassegni dei grossi Junkers 52 che compiono virate sulla città con i portelloni aperti.
L’uomo è Arpad Weisz, allenatore della locale squadra di calcio. Ha nel cuore l’Italia, dove ha allenato Inter e Bologna che sotto la sua guida hanno dominato la serie A. E’ stato un grande innovatore negli schemi e nelle strategie di gioco. Nel calcio italiano fu il primo tecnico a introdurre carichi di lavoro particolarmente elaborati e curava con attenzione maniacale le diete dei calciatori. Seguiva con attenzione le squadre del settore giovanile.
Scopri così un ragazzino di sedici anni che dava del tu alla palla. Un certo Giuseppe Meazza. Aveva lasciato l’Italia nel 1938. L’anno dell’entrata in vigore delle Leggi Razziali imposte dal Regime Fascista. Weisz era ungherese, ma la sua colpa più grande fu quella di essere ebreo.

DA SOLT ALL’ITALIA
Il 16 aprile del 1896 a Solt, piccolissimo paese dell’Ungheria centro-meridionale, nasceva Arpad Weisz. I suoi genitori - Lazzaro il padre e Sofia la madre - facevano parte della comunità ebraica della piccola cittadina. L’ambiente in cui cresce Arpad era pervaso dai più significativi fermenti culturali dell’epoca che si irradiavano dalla capitale Budapest. Freud e la sua psicoanalisi, i primi libri di Nietzsche, i quadri di Klimt. Un clima culturale che, decisamente, risentiva molto del primo positivismo socialista.
Dopo il diploma liceale s’iscrisse a Giurisprudenza, ma non finì gli studi perché il colpo di pistola esploso a Sarajevo trascinò l’Europa nella carneficina della prima guerra mondiale. Arpad partì per il fronte e combatté sul Carso contro gli italiani. Nell’offensiva che fece seguito alla disfatta di Caporetto fu preso prigioniero. E’ una circostanza, questa, che non è supportata da una sufficiente documentazione. Di Arpad si sa con certezza che era un uomo colto, di buone letture. Spaziava dalle Metamorfosi di Kafka all’Ulisse di Joyce. Adorava la lirica italiana. Sull’intellettuale Weisz  il miglior ritratto è quello che  tratteggiò, quando allenava l’Inter, Il Calcio Illustrato (giornale che allora era l’unica testata sportiva ndr):
E’ l’allenatore straniero che meglio parla la nostra lingua, di cui conosce a fondo le finezze. In lui si unisce l’indubbio spessore intellettuale a una notevole esperienza, non unicamente professionale”.
Arrivò in Italia nel 1924-25.Fu ingaggiato dal Padova che partecipava al campionato di prima divisione, che corrispondeva, più o meno, alla serie A di oggi.
Per  quanto riguarda la sua attività di calciatore, si hanno poche notizie. Le poche fonti narrano che giocò nel Torekves e l’anno dopo nel Makkabi Brno. Giocò anche  nella nazionale ungherese che partecipò alle Olimpiadi di Parigi del 1924. Giocava come ala sinistra. Aveva una buona dote tecnica e uno scatto ficcante: con il Padova disputò solo sei partite.
L’anno dopo passò all’Inter. A Milano giocò 11 partite, realizzò tre goal. Poi un grave infortunio pose fine alla sua carriera di calciatore a soli 30 anni. Cominciò così quella, decisamente più fortunata, di allenatore sulla panchina dell’Inter.

IL BEPP FA 32 GOAL
Arpad portò alla vittoria i nerazzurri  dell’Internazionale nella stagione in cui fu varato il girone all’italiana: 1929/30. La compagine milanese si aggiudicò il primato con il nome di Ambrosiana. Fu necessario adeguarsi ai deliri del regime che bandì i nomi stranieri. Senza contare che Internazionale, secondo alcune teste pensanti in camicia nera, evocava il mondo socialista. Quell’anno l’Inter vinse con un distacco in classifica di due punti sul Genoa e di ben cinque sulla Juventus che,peraltro, aveva battuto nel confronto diretto alla penultima giornata. Fu anche l’anno di Peppino Meazza che Weisz portò in prima squadra quando aveva 17 anni. E’ chiaro che il coach ungherese aveva fiuto e occhio sui campioni in erba. Il Bepp, come venne subito ribattezzato, dalla tifoseria interista,  aveva conquistato anche il cuore degli appassionati di calcio di tutta la nazione. L’altro soprannome, in un paese guidato da un  regime fortemente nazionalista, non poteva essere che Balilla. Mussolini, che conosceva bene i sentimenti delle folle, ne fece subito il testimonial del regime. Meazza quell’anno vinse la classifica dei cannonieri. Realizzò ben 32 reti. A Milano, nel quartiere di Porta Vittoria lo conoscevano tutti. Il figlio dell’Ersilia, sin da ragazzino, incantava tutto il quartiere quando palleggiava. Era anche un bel ragazzo, spiritoso e ,naturalmente, piaceva alle donne, il che, nella vita, come intuirete, aiuta molto. Oltre a Meazza,nell’Inter di quella stagione, c’è un altro giocatore di spessore, destinato a entrare nel Pantheon del calcio: Fulvio Bernardini, per gli amici Fuffo. Matteo Marani, in quel suo ottimo  libro  su Arpad Weisz  - Dallo scudetto ad Auschwitz - leggiamo. Il romano Bernardini è un calciatore-studente della Bocconi, da cui uscirà con una laurea in Economia e Commercio.,Si sa esprimere meglio di qualunque compagno e sa apprendere con rapidità da chi ha qualcosa da insegnarli”.Bernardini, nel dopoguerra, riconobbe che il livello della sua preparazione professionale fu merito degli insegnamenti del tecnico ungherese. Fuffo ha una personalità fatta per imporsi – scrive ancora Marani chiese di arretrare nello schema di gioco. Non più centravanti, ma centromediano. Weisz capì e rispose: allora metto dentro il ragazzino, pensando proprio a Peppino Meazza”.

ADDIO A MILANO
Fu quasi una seconda patria. Arpad era fortemente legato a Milano. Aveva fatto amicizie e consolidato legami. Ma, nel 1932 accadde un fatto nuovo. Federico Pozzani diventò presidente del club in sostituzione di Oreste Simonotti. Il massiccio Pozzani era  il tipico uomo d’affari di conio meneghino, quelli del ghe pensi mi, tanto per capirci. Aveva interessi in vari settori economici. Spaziava dall’agricoltura al petrolio. Come personaggio si discostava moltissimo dalle altre presidenze nerazzurre che portavano nomi pesanti come Borletti e Olivetti, vale a dire il gotha dell’imprenditoria milanese. Pozzani, tanto per capirci, era un parvenu e manifestava una risolutezza che spesso e volentieri diventava arroganza. Era il tipo di presidente che s’intrometteva in tutto. Anche nella formazione.
Pozzani - diciamola tutta - dell’ungherese non si fidava. Avrebbe preferito un tecnico più ubbidiente, pronto a battere i tacchi. Weisz, però, era fatto di una pasta diversa. Il divorzio arrivò quando Pozzani stabilì che, nella conduzione della squadra, doveva essere affiancato da un tecnico italiano. Tale Bassi. Per Weisz, persona mite e gentile, la mossa equivalse a uno sgarbo e se la legò al dito. Aveva l’orgoglio e la dignità del mitteleuropeo - ha scritto Marani - e un fiume non si ferma”.
Poi la risoluzione anticipata del contratto.

SOTTO LE DUE TORRI
Arrivò a Bologna nel 1935. Per la città, ma anche per l’intera nazione, fu un anno particolare. Mussolini inseguiva il sogno dell’impero e nonostante le proteste di Francia e Inghilterra, il 3 ottobre di quell’anno invase l’Etiopia. La guerra terminò nel maggio 1936 sotto il comando del generale Pietro Badoglio. L’impresa militare, giusto sottolinearlo, assicurò al regime fascista un ampio consenso popolare. Ma, è anche giusto rammentare che, agli italiani, piacevano tantissimo anche le imprese che si svolgevano sui campi di calcio. Weisz, dal canto suo, intuì di essere capitato nel posto giusto. Bologna, la dotta, con l’Università più antica del mondo, era il suo habitat culturale giusto. Come allenatore doveva rimettere in sesto una squadra stanca e sfiduciata. Era animato da una grande voglia di rivincita. Ma, oltre all’ambiente bolognese, Arpad, sotto le Due Torri, trovò un personaggio altrettanto stimolante: Renato Dall’Ara che lo aveva fortissimamente voluto sulla panchina dei felsinei. Anche lui personaggio naif, ma senza presunzione. Aveva la bonarietà e la cordialità tipica degli emiliani. Sapeva dialogare con il potere di allora e gestiva i suoi interessi economici senza contrasti con i gerarchi fascisti. Non ci sono conferme, ma, a quanto pare, fu Mussolini a costringerlo ad assumere la presidenza del Bologna. Il duce voleva emarginare Leandro Arpinati, vero ras, da sempre, dello sport bolognese. Aveva assunto troppo potere e a Palazzo Venezia e dintorni, la cosa non piaceva. Dall’Ara e Weisz erano uomini diversissimi, ma questo non impedì loro di comprendersi.

MUSSOLINI E WEISZ
La storia, spesso, ha una fantasia perversa. Clio, che è la sua musa, tesse la tela del destino dei suoi protagonisti.
Nel 1936, a Piazza di Siena, a Roma, il duce, nel corso di una cerimonia, premiò gli azzurri di Pozzo vittoriosi alle Olimpiadi di Berlino; nella cerimonia furono inseriti i giocatori rossoblù che ricevettero una medaglia per la conquista dello scudetto.
Ci piace immaginare lo sguardo mite e forse sornione di Arpad che osservava l’uomo della provvidenza che esaltava il gioco, naturalmente maschio e virile, della stirpe italica.
Non furono mai tanto vicini la vittima e il suo carnefice.
Ascoltava la sua facondia. Osservava la sua gestualità compulsiva. Il duce ha una fretta dannata. Deve badare ai destini del paese, sente su di sé il respiro della Storia… queste cerimonie sono dannatissime perdite di tempo, ma portano foto e articoli di giornale. Si sa come funzionano certe cose. Poi, il duce, che ha riportato l’impero sui colli fatali di Roma, oltre alle ambasce e angosce che la solitudine del comando comporta, è anche un uomo che sta conoscendo l’amore.
Nella Sala dello Zodiaco, a Palazzo Venezia, la sua personalissima musa, Claretta Petacci, lo attende con impazienza per gratificare l’italico guerriero con il suo immenso amore. Sebbene, stando ad alcuni storici, Ben – come lo chiamava lei – pare fosse sbrigativo in certe faccende. Insomma, tanto per capirci, un amante da fienile.

SCUDETTO BIS E TROFEO EXPO A PARIGI
Weisz, nel 1937, condusse il Bologna alla conquista del secondo scudetto. Ma, il suo capolavoro tecnico e tattico, fu la vittoria a Parigi al Trofeo dell’Esposizione.
La finale oppose i felsinei contro il Chelsea, ovvero  rappresentanti di una nazione che si vantava di aver inventato il calcio. Le sfide difficili esaltavano Arpad. La partita fu la sua summa dell’arte tattica. Il Bologna travolse per 4 a 1 i figli di Albione. Si trattò di una vittoria memorabile. Weisz trovò la sua consacrazione a livello internazionale.
Ma, come abbiamo detto prima, la storia spesso è perfida con i suoi protagonisti. Quel mondo che, in quel pomeriggio magico di Parigi, Arpad pensava fosse ai suoi piedi, adesso stava per travolgerlo.
Siamo nel 1938. Entrano in vigore le leggi razziali.
L’Italia, legata al suo diabolico alleato germanico, si lascia trascinare nell’orrore. Agli ebrei residenti nel nostro paese venne proibita ogni attività, commerciale, professionale, sportiva. Divennero cittadini di serie B. Anzi, a voler essere precisi, nemmeno più cittadini. La legge 426 del 1942 stabilì che il Coni “ha come obiettivo il miglioramento fisico e morale della razza. Una razza che, come rammentano i libri di storia, in quegli anni era alle prese con la miseria e la tubercolosi.

LA CENTRIFUGA DELLA STORIA
I primi raggi di sole illuminano la facciata della palazzina di via Bethlehemplein a Dordrecht.
Sono le 7 del mattino del 2 agosto 1942. Tutto lo stabile è immerso nel silenzio. Poi, improvviso, lo stridio dei freni di diverse vetture. Uomini in divisa entrano nello stabile e si avventano sulle scale, come delle furie, il calpestio è rumoroso, scandito.
Al n° 10 di quella casa vive Arpad Weisz con la moglie e i due figli. Quando apre la porta si trova davanti il viso freddo, distaccato e impietoso di due agenti della Gestapo. Dietro di loro uomini in divisa che indossano cappelli con i fregi della svastica e il teschio. Gli intimano di vestirsi, mettere in valigia l’essenziale. Verranno condotti prima in caserma e poi in un campo di lavoro.
Arpad e la sua famiglia sono finiti dentro il meccanismo infernale della soluzione finale: il piano di annientamento di tutti gli ebrei elaborato a Wanssee, a Berlino, il 20 gennaio di quello stesso anno da Reynard Heydrich e altri capi nazisti.
Dopo le formalità burocratiche in caserma, i Weisz vengono portati a Westerbork, nella parte Nord Est dell’Olanda. Un terminal della morte.
Da qui i prigionieri vengono portati alla stazione di Hooghalen, da dove partono i treni che hanno come destinazione finale Auschwitz.

Venerdì 2 ottobre 1942 i Weisz salgono sul vagone che li porterà a morire.
Sulla banchina si affacciano i diabolici medici nazisti. Valutano le cavie per i loro folli esperimenti.
Carl Clauberg cerca tra le donne per i suoi esperimenti sulla sterilizzazione femminile. Horst Schumann invece è alle prese con ricerche sull’eutanasia, Ma, il più mefistofelico di tutti, è quello che indossa guanti bianchi. Cerca soprattutto gemelli. Vuole condurre esperimenti di genetica che aiutino a trovare la strada per la creazione di una razza ariana. Si chiama Josef Mengele.
Il 5 ottobre 1942, Elena, Clara e Roberto Weisz muoiono a Birkenau dentro una camera a gas.
Ad Auschwitz, Arpad, il 31 gennaio 1944 non si fa trovare all’appello. Ha giocato la sua partita: l’ultima.
Al Meazza, tra le targhe che commemorano le vittorie dell’Inter e del Milan ce n’è una che ricorda il mite ungherese dal sorriso triste.