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L’uomo dei compiti per casa

“Il congiuntivo presente del verbo giocare?” “Che io giochi, che tu giochi, che egli gioca …” “… Giochi! Che egli giochi”. “Ah sì. Che noi giochiamo, che voi giochiate, che essi giochino”. “Il passato remoto?” “Io giocai, tu giocasti, egli giocò …” “… Il trapassato prossimo?” “Io avevo giocato, tu avevi …” “Va bene, basta così Alfredo!”.

Ebbene sì, alla fine, gira e rigira, andai a lavorare in casa Pirrone, ma non come uomo delle pulizie. Dovevo occuparmi del piccolo Alfredo, dovevo aiutarlo a fare i compiti e seguirlo in qualche attività extra (fargli leggere qualcosa, stimolarlo alla visione di video adatti alla sua età o anche affiancarlo nella sua passione, cioè i Lego). La mia giornata lavorativa iniziava alle 15 e finiva quando finivamo, due, tre ore al massimo, tutti i giorni dal lunedì al venerdì. Ero una specie di tutore, anzi, a dire il vero (e a volermela tirare un po' meno), ero una specie di tata al maschile. I Pirrone ne avevano già cambiate tre, di tate, dopo che quella storica aveva dovuto lasciare il lavoro per via di un’inattesa gravidanza. Erano state tutte un disastro. Intendiamoci, Alfredo era un bambino di nove anni complicatissimo, gestire il suo carattere difficile richiedeva una certa dose di pazienza, un po' di diplomazia e tanta fortuna. Io comunque non gli dispiacevo, questione d’empatia pura e semplice. Con me interagiva come non faceva con nessun altro estraneo. Non era sempre tutto rose e fiori, i capricci a volte prevalevano e mi prevaricavano, ma con me era molto meno stronzo che con gli altri. Ebbene sì, si può essere stronzi anche a nove anni, specie se quei nove anni vengono trascorsi praticamente tra le gambe di donne che non sono tua madre e tra le braccia di un padre che vedi solo a fine giornata (quand’è troppo stanco per ricordarsi che esisti) e nei weekend (sempre che non ci sia qualche evenienza di mondanità e simili). Questo è il prezzo che deve pagare il figlio unico di una super coppia borghese, tutta dedita al lavoro e alla carriera. E alle pubbliche rel azioni. I Pirrone amavano Sussulto (era così che chiamavano Alfredo), erano premurosi e dediti come un qualsiasi normale genitore, ma l’imbuto della quotidianità li aveva risucchiati in una vita fatta di ventiquattro risicatissime ore al giorno. Per questo quel bambino odiava tutti coloro che non fossero il suo papà e la sua mamma o i suoi due nonni paterni, gli unici rimasti in vita e rimasti a Verona (città natale dei Pirrone). Perciò, quando il suo bambino era corso a salutarmi sulla porta, il giorno del colloquio, quello dovette sembrare agli occhi di Adele qualcosa di straordinario. E Adele non mi aveva più dimenticato. Così, col pretesto della mia presunta attitudine alle lezioni private, mi assunse per passare un po' di tempo con Alfredo. La paga era esagerata: 1000 euro al mese e messa in regola, con la disponibilità da parte mia a prolungare le giornate di lavoro fino a tarda sera o a lavorare pure nei fine settimana, quando fosse stato necessario (per le evenienze di mondanità e simili di cui sopra). Insomma, ero un tato a tutti gli effetti. Non me ne vergognavo, anzi, avvertivo tutto il peso dell’importanza del compito che Adele mi aveva affidato. Mi sentivo un’altra volta importante per qualcuno e per qualcosa. Lei con me era affabile e garbata, l’esatto contrario della sovrintendente iena che tutti temevano, ossequiavano, detestavano. Anche il marito mi trattava bene. Luca Pirrone era, anno più anno meno, un mio coetaneo, capelli sale e pepe, fisico rotondetto, una faccia pulita, una cultura sopra la media. Era l’emblema della persona perbene, mite, manierato, mai una parola fuori posto, mia un gesto banale, mai un atteggiamento scomposto o una semplice espressione inopportuna. Adele era oggettivamente l’anello forte, quella che prendeva le decisioni, che guidava, eppure rispettava suo marito e faceva di tutto per dissimulare l’evidente differenza di personalità che c’era tra loro. Insomma, la coppia perfetta per una famigliola perfetta, benestante e di successo. La mia presenza in casa loro non invadeva nessuno spazio, né alterava alcun equilibrio. Cercavo di pesare come una piuma, d’essere presente come un fantasma e in ogni caso i momenti di contatto con i coniugi Pirrone si riducevano a degli sporadici ritagli di giornate, perché durante la settimana uscivano alla mattina e rientravano prima di cena. E poi, a pesare ci pensava la nuova colf. Si chiamava Cristin, era filippina, aveva trent’anni o poco più, era bassa ma fatta bene e ficcava il naso su ogni cosa che di quella casa non avrebbe dovuto riguardarle. Non era il tanto rimpianto indiano, ma ai Pirrone andava bene. Sapeva fare tutto, ma non sapeva farsi i fatti suoi. Adele semplicemente la ignorava, il marito era gentile anche con lei. Io la mal sopportavo. Non mi piaceva il suo modo di fare, sempre un pelo fuori le righe, il suo approccio scostante verso Alfredo, la sua insolenza verso i Pirrone, l’indolenza verso Adele, l’eccesso di confidenza che si prendeva col marito. Passavamo molto tempo tra le stesse mura domestiche, a volte mi pareva che volesse sbranarmi, altre volte che volesse sedurmi. Io pensavo solo a non crear problemi, m’interessava tenermi stretto quel lavoro. E a non deludere la mia benefattrice.

“Pronto Giuseppe, mio padre s’è sentito male, devi stare con Ciccio oggi …”. La voce di Angela si spezzò in un singulto. “Stai tranquilla, Angi”. Ancora un singhiozzo. “Che è successo?”, feci ancora io. “Ha avuto un infarto” e scoppiò a piangere. “Devo andare in ospedale, è solo. Quella merda di mio fratello ha il telefono staccato, forse ha cambiato numero, che ne so …”. “Il tuo compagno, dov’è?”. “Renato è già lì, ha pensato lui a chiamare l’ambulanza”. “Va bene, Angi, penso io a Ciccio, lo prendo a scuola e sta con me, stai tranquilla”. Lei tacque, ansava. “Che c’è, Angela?”. “Prima devi venire qua”. “Qua, dove?”. “A casa mia”. Poco tempo prima avrebbe detto semplicemente “a casa”, non potei non notarlo. Non dissi nulla, non volevo correre il rischio di una parola fuori posto, non in quella circostanza. Aspettai semplicemente che si spiegasse meglio. “Devi darmi un passaggio in ospedale, ho la macchina dal meccanico”. “Va bene, sì. E il tuo piccolo?”. “Ci pensa la babysitter, l’ho già avvisata”. “D’accordo, mi vesto e arrivo” “Spicciati, Giu’, per favore” e pianse ancora. Mi sbrigai.

“Non se lo merita! Mio padre non se lo merita …”. Io tacqui. Guidavo e tacevo, mentre la strada davanti a me era un indistinto mosaico di automobili, marciapiedi, carreggiate e pensieri alla rinfusa. Forse Angela avrebbe voluto una parola di rassicurazione, il banalissimo “vedrai che non è nulla” che spesso si usa in questi casi. Ma io non ero fatto per le banalità e poi quello era pure il mio pensiero: Aldo non se lo merita. Arrivammo al Policlinico di Palermo dopo circa un’ora dalla telefonata di Angela, il posteggiatore era uno che conoscevo, gli lasciai la macchina con le chiavi appese e una generosissima moneta da due euro. Angela era affranta, io avevo il cuore che mi artigliava la gola. Il mio rapporto col mio ex suocero era sempre stato ottimo.
Mi stimava e io stimavo lui. Aldo era un uomo tutto d’un pezzo, all’antica, leale, onesto, ma non un fesso. Un vero signore, uno di quelli di cui, diciamo noi, hanno buttato lo stampo. Vedovo a cinquantaquattro anni, non s’era più risposato, aveva dedicato la sua esistenza al lavoro di architetto e ai due figli, anche se uno di questi aveva troncato i rapporti con la famiglia per una questione di soldi (neanche a dirlo!), della quale sapevo ben poco, essendomi sempre tenuto a debita distanza da questo genere di beghe. Ricordo solo che Aldo ne aveva preso una malattia e che comunque la ragione stava tutta dalla parte della mia ex moglie; o almeno questa era la sua versione. Aldo mi aveva sempre voluto bene, Aldo aveva pianto alla notizia della separazione tra me e sua figlia, Aldo aveva interceduto per una riappacificazione predicando instancabilmente sulla responsabilità che avevamo nei confronti di Francesco. Era un nonno perfetto, premuroso e presente, anche se praticamente non usciva mai da casa per via d’una menomazione alla gamba sinistra, causatagli da un incidente stradale di qualche anno addietro. Non c’era giorno che passasse senza avere almeno sentito la voce di Ciccio e non c’era occasione che Francesco si perdesse per stare col nonno materno, di cui era follemente innamorato (molto più che di quel musone di mio padre). Il mio pensiero tornava di continuo a Francesco. Dopo l’ospedale, sarei dovuto andare a prenderlo a scuola e gli avrei dovuto dire qualcosa, nonostante Angela fosse di avviso opposto, voleva che al momento non gli si dicesse alcunché. Ecco perché c’eravamo lasciati, pensai: anche in un momento come quello, di forte unione e condivisione, trovammo qualcosa su cui essere in disaccordo. La discussione comunque rimase impigliata in un primissimo scambio di ragionamenti biascicati sottovoce, perché subito spuntò, dal fondo del corridoio, il compagno di Angela, con una faccia barbuta ch’era un manifesto funebre. Angela scoppiò in lacrime, gli si gettò al collo, accolse il funesto sussurro del suo uomo. Io rimasi pietrificato, non sapevo cosa fare, non feci nulla. Lasciai che i miei occhi s’inumidissero, mentre il ricordo delle lunghe chiacchierate con Aldo sfrecciò sui binari inconsci del mio vissuto. Aspettai, inebetito, che la mia ex moglie si staccasse dalle braccia di Renato, per andarle incontro e abbracciarla anch’io. In quei due abbracci, così ravvicinati, così diversi, c’era la storia della mia vita.
E c’era il dolore per la morte di nonno Aldo. Toccava a me dirlo a Ciccio.

Ci furono le esequie, dove fui compiaciuto di vedere anche Giovanni, accompagnato da Monica (non vedevo l’Asciutto da alcune settimane, ma il legame era ancora forte). E poi ci fu l’apertura del testamento. In mezzo, ci furono giorni di mestizia che, come neve, s’addensava silenziosa sul mio umore e su tutto ciò che mi circondava. Ciccio non si dava pace, Adele si concentrava sul piccolo Ruggero. Il mio ex cognato, invece, non s’era visto, neppure al funerale, ed era definitivamente morto. Poi ci fu l’apertura del testamento e si rifece vivo. Me lo raccontò la mia ex moglie. Mi chiamò appena uscita dal notaio. Io ero a casa Pirrone, stavo facendo un riassuntino con Alfredo. Angela aveva una voce strana, quasi tremolante. Mi chiese di passare da casa sua, quella stessa sera. Io abbozzai una mezza protesta, ma lei insistette con una perentorietà così candida che mi disarmò. Quella sera ci andai, subito dopo cena. Per Ciccio fu un colpo vedermi lì, ne fu stupito e contento e io mi chiesi cosa potesse pensare in quel momento un bambino di dieci anni che ha passato tutto quello che aveva passato lui. Angela mi chiese di andare ad accomodarci in salone, dove c’era già quella faccia di minchia di Renato con la sua pipa di merda. Prima misi Ciccio a dormire, persi una mezzoretta nella sua stanzetta, incurante del fatto che mi stessero aspettando di là. Avevano sicuramente qualcosa d’importante da dirmi e la curiosità certo non mi mancava, ma dedicare attenzioni a mio figlio, specie in quella circostanza, era prioritario; e poi non volevo dar loro troppa importanza, la finta indifferenza è sempre stata una delle mie più arcigne corazze. Diedi la buonanotte a Ciccio, rimboccandogli le sue coperte del suo letto della sua cameretta stile Toy story; ed era una cosa che emozionò entrambi. Quindi andai di là, sedetti su uno dei due divani, posti ad angolo retto di fronte a un tavolino in vetro posto su un bellissimo tappeto persiano; accanto a me la mia ex, di fronte il suo compagno. Mi guardai intorno, era una sensazione stranissima, quella di sentirmi un estraneo in casa mia. Poi guardai in basso, piantando gli occhi su quel tappeto, regalo di un negoziante a cui avevo risolto un grosso problema all’Edilizia privata. Angela si mostrava più malleabile del solito, pensai che fosse un effetto dell’elaborazione del lutto. Poi notai che anche Renato era più malleabile del solito e la cosa mi puzzò. Ci furono i soliti inutili dieci minuti dedicati ad argomenti che con la discussione in oggetto non c’entrano un bel niente e sarebbero stati di più se io, col mio solito fare spicciolo, non avessi sollecitato Angela di andare al sodo. Mi raccontò del pomeriggio dal notaio. Mi raccontò del fratello. Mi raccontò del testamento di Aldo. Anzi, me ne diede una copia, perché in quel testamento c’ero pure io. Non credevo ai miei occhi, mentre leggevo della volontà di Aldo Aglialoro di lasciarmi l’appartamento di Via Notarbartolo, un quattro vani dal valore considerevole (vista la centralità della via), di cui nessuno conosceva l’esistenza. Sarà stato uno degli affari che andava comminando all’insaputa della famiglia. Perché Aldo era un uomo perbene, sì, ma sapeva cogliere le occasioni giuste, e le giuste entrature, per concludere un affare. Un traffichino perbene, insomma. Io non seppi cosa dire, ero esterrefatto, ma ovviamente ne fui stracontento. “Angela, io …”. “Lo capisci che non ti spetta, giusto?”, mi fulminò lei inaspettatamente, mentre il suo garbo s’attorcigliava in filamenti di nervosismo, improvvisamente affioranti dalle mascelle. Ecco da dove veniva la puzza. Mi irrigidii, talmente tanto da alzarmi e fare per andarmene. Quello là cercò di fermarmi: “No, un momento Giuseppe”. Io rimasi incredibilmente calmo. Lo guardai calmo, parlai, calmo: “Renato, fatti i cazzi tuoi”. “E no, Giuseppe …”. L’ultima cosa che Angela avrebbe dovuto fare era prendere le difese del suo compagno. Purtuttavia non mi scomposi, le mie scorte d’iracondia verso quella situazione erano da tempo esaurite, anzi sorrisi sardonico: “Ti sei messa questo qua dentro casa mia e pretendi pure che non gli dica di farsi i cazzi suoi? Ma per favore …”. E me ne andai davvero, quasi cantilenando: “Non dolertene più di tanto, Angela cara. In fondo, alla fine la casa andrà a nostro figlio, no?”. Mi voltai un’ultima volta verso di lei, le schiacciai l’occhio, insolente come mai ero riuscito ad esserlo con la madre di mio figlio, la donna di una delle mie vite, d’una vita fa. Lei abbandonò completamente la distensione dei suoi lineamenti, dentro bruciava come la lava dell’Etna. Il deficiente, invece, non disse più nulla, non fece più nulla. Lui era il nulla. Questa volta la sbattei io, quella stessa porta che l’anno prima mi era stata sbattuta in faccia; ed era una vera goduria. Mi vergognavo del senso di felicità e soddisfazione che stavo provando, a discapito del lutto. Me ne vergognavo, ma non potevo farci niente, mi sentivo così. Uscii dal portone quasi saltellando, come un adolescente al primo bacio. Non avrei mai più messo piede in quella casa. Giurai odio eterno ad Angela e al suo compagno, il quale evidentemente aveva tutto l’interesse che quell’appartamento entrasse, poi, nel patrimonio ereditabile anche dal suo di figlio. E il buon Aldo questo lo sapeva, probabilmente quel lascito era stato dettato dalla volontà di preservare suo nipote dall’instabilità della figlia, casomai avesse figliato con qualcuno di quegli scappati di casa, figli dei fiori, che prima di conoscere me aveva frequentato. Renato non era certo uno scappato di casa, ma un “consuma-casate” sì (parole di Aldo); e, sì, il piccolo Ruggero era anch’egli suo nipote, ma non era Ciccio.

Nel frattempo, il mio lavoro in casa Pirrone proseguiva alla grande, la mia vita un po' meno. Di buono c’era che ero single, facevo tanto sesso e il mio fegato produceva poca bile, non avevo problemi di soldi e adesso avevo pure un appartamento tutto mio (centralissimo e vicino al posto di lavoro), dove stavo provvedendo a trasferirmi. L’altra faccia della medaglia era la guerra scoppiata con la mia ex moglie, che cominciò a lanciarmi bombe intelligenti per destabilizzarmi e portarmi alla capitolazione. Bombe intelligentissime, per un obiettivo sensibilissimo: nostro figlio. Cominciai a sperimentare sulla mia pelle il dramma vero d’una separazione che tritura figli e sentimenti. Potevo vederlo solo nei giorni stabiliti dal giudice e non era mai successo prima. Ci stavo malissimo, ma all’arpia non importava. Ciccio ci stava anche peggio, ma all’arpia sembrava non importare granché. Un’arpia, sì. Il mio ex angelo si era trasformato in un mostro malvagio e la consapevolezza che dietro ci fosse quel bastardo di medico, suo compagno, mi faceva diventare pazzo. Ma resistevo, non gliel’avrei mai data vinta. Non soltanto perché finalmente avevo una casa tutta mia, ma anche e soprattutto perché dargliela vinta sarebbe equivalso a togliere a mio figlio metà dell’appartamento, essendo evidente che tutta la questione nasceva dalla cupidigia di Renato e dalla fissazione patologica, che abbiamo tutti, di lasciare il più possibile ai nostri figli. Insomma, una vita che tornò ad essere vorticosamente infernale, come solo Angela sapeva rendermela. Per fortuna c’erano i pomeriggi con Alfredino, che mi distoglievano da tutto quell’ambaradan di discussioni e messaggi e frecciatine e minacce. Ovviamente non ero sereno, cosa di cui si accorse pure Adele Dragotto, quando, un venerdì, tornò che erano le 18,30 circa e mi trovò ancora lì. Io fui contento di vederla, non capitava spesso. Anche lei sembrava contenta, m chiese cosa ci facessi ancora lì e me lo chiese con il sorriso stampato tra i denti e con la voce ravvivata da una nota di musicalità gioiosa. “Sono rimasto un po' di più, così per fare compagnia ad Alfredo”. La vertà era un’altra: ero rimasto un po' di più perché stranamente dentro quelle mura mi sentivo al riparo da tutto il resto, perché stare a casa mia, da solo e senza poter vedere il mio Ciccio, mi faceva letteralmente impazzire; e perché avevo voglia d’incontrarla. “Va tutto bene, Giuseppe?”, mi chiese. Aveva l’aria stanca di una giornata pesante, ma si concentrò su di me. “Diciamo di sì”, le risposi. Adele mandò di là il piccolo: “Sussulto, vai a giocare nella tua stanzetta”. Alfredo obbedì, con sua madre era decisamente un altro bambino. Adele rimase con me. Ci sedemmo su quello stesso tavolo da cucina, che tempo addietro era stato il bancone su cui il suo distacco aveva maciullato la mia dignità.
Era cambiato il mondo. Le raccontai tutto, mi sfogai. Lei mi ascoltò, senza darmi alcun consiglio, senza offrirmi alcun parere, senza fare commenti. Mi ascoltò e basta.


... Continua