qui per la parte VIII
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Di nuovo a spasso
Tutto finito, bar, lezioni private, stipendio, tutto. Ero di nuovo a spasso, di nuovo rintanato nella spelonca solitaria del mio caratteraccio.
Un altro, al posto mio, si sarebbe fatto scivolare la cosa addosso e l’indomani sarebbe andato al lavoro come se nulla fosse. Io non ci riuscii. Pensai di farlo, ma non ci riuscii. Malvagno pensò di convincermi, ma non ci riuscì. Usò pure la tecnica della persuasione a mezzo figlio, ma non ci riuscì. Non ci riuscì anche perché in questi suoi tentavi non profferì mai la parolina magica. Volevo le sue scuse e volevo che la smettesse di starmi addosso. O forse no, forse ero io che non sopportavo più lui e molto più semplicemente il mio tempo di cassiere era scaduto. Misi piede in quel bar solo un’altra volta, per prendere i soldi della buonuscita; non erano quelli che mi aspettavo, e che mi sarebbero spettati, Malvagno probabilmente approfittò della situazione, sicuro che non gli avrei mai mosso contro una vertenza, ma in fondo andava bene così, ci avrei campato giusto il tempo di trovare un altro impiego. Con Giovanni ne parlammo milioni di volte, sempre e solo al telefono però. Decisi, infatti, che non l’avrei rivisto fino a quando il mio risentimento verso suo padre non sarebbe scivolato nell’indifferenza amara, al telefono è più facile contenersi e nessuno può vedere il tuo viso accendersi d’iracondia. Diciamoci la verità, il padre di Giovanni era stato un miserabile pezzo di m..., ma questo io a mio figlioccio non lo avrei mai detto, né in qualche modo trasmesso. Lui ovviamente insistette, mettendo in mezzo la scuola, Ciccio, il tour del cibo di strada con Monica e centomila altre cose, fino a quando non dovette rassegnarsi ad accettare la scusa del tempo che mi serviva per cercare un altro lavoro. Gli mancavo da morire e lui mancava a me.
Un giorno qualcuno citofonò al mio bi-vani ed io, da mia abitudine, non risposi. La cosa si ripeté in quel periodo alcune altre volte e ogni volta l’Asciutto mi mandava un messaggio, sempre lo stesso: «Sono venuto a casa tua e non c’eri. Quando ci vediamo, parrino?». E io sempre la stessa risposta: «Presto, figlioccio. Dammi il tempo di risolvere 2\3 cose». L’unica cosa da risolvere in realtà era una sola: trovare un lavoro. Ma cosa? Mi ero rimesso al computer, non per scommettere, per carità, ma alla ricerca di qualcosa on line, tipo partecipare a sondaggi a pagamento, tipo cimentarsi nella compravendita di oggetti usati e inutilità del genere. Scoprii per caso che un importante sito di calcio, Calciomercato.com, aveva una community, VXL, dove si potevano vincere dei buoni acquisto e ci si poteva mettere in luce come “giornalisti”, perciò misi a scrivere degli articoli. La valutazione che ricevevo era buona, ma non abbastanza perché potessi ottenere l’agognato premio; arrabbiandomi come il più incompreso dei geni (che poi, 9 volte su 10, geni non lo sono mai e dall’altra parte vengono invece ben compresi nella loro mediocrità), smisi quasi subito, non avevo tempo per queste cose. Insomma, un altro piccolo fallimento delle mie grandi ambizioni.
Ma la verità è che di ambizioni non potevo permettermene più, dovevo lavorare, punto e basta. Avevo pensato di mettermi a dare lezioni private, magari spargendo la voce un po' qua e un po' là, ma non ne feci niente. La verità è che con Giovanni s’era creato una specie d’incantesimo, ci sarebbe riuscito bene tutto ciò che avremmo fatto insieme. La verità è che non mi ero mai sentito effettivamente all’altezza di quel compito, l’idea di farmi pagare per svolgerlo mi metteva a disagio. E poi non avevo pazienza, non sarei resistito molto a un crozzone svogliato. No, meglio aspettare l’occasione giusta. Già, l’occasione giusta. Dentro di me, nell’angolo più lontano del mio inconscio, imbavagliata a dovere, c’era sempre una vocina, che mi sussurrava la speranza di una chiamata dal vecchio mondo. Il mio mondo, quello che mi aveva dato tutto e tolto tutto e che a fatica avevo cancellato dalla mia esistenza. Era una vocina stridula, ammaliatrice, seducente come una bellissima donna dalla lingua biforcuta, traditrice come una sirena. Lottavo contro di essa, la zittivo, la soppiantavo a colpi di realismo, ne ignoravo ogni sua insinuazione. E lei insisteva, le elezioni comunali si avvicinavano e io non riuscivo a non pensarci del tutto. Insisteva, la vocina malefica, instillando gocce di vecchia passione nel teschio vuoto che era la mia mente, nel cuore nero che era il mio animo. Insisteva, alimentata da una consapevolezza in me radicata oltre tutto e tutti. Forse qualcuno mi avrebbe chiamato.

Le elezioni comunali arrivarono, nessuno mi chiamò. Mi cercarono in tanti (compreso quello là, attraverso un’ambasciata del suo cameriere), ma solo per avere un mio aiutino dietro quelle stesse promesse, declinate al futuro e solo al futuro, che tante volte io avevo fatto. Risposi a tutti picche, la vocina non poteva averla vinta, non poteva riprendersi la mia vita e buttarla nuovamente nel tritacarne delle illusioni e del tempo perduto. Avevo dato il 2 di picche a tutti, tranne che a Milazzo, con lui m’ero voluto divertire. Quel c*** non fu eletto, gli mancarono un centinaio di voti. Godetti come un riccio. Mi aveva chiamato più volte (il numero glielo avrà dato qualche cretino del bar, forse lo stesso Malvagno), mi aveva fatto avere i facsimili attraverso Giovanni, mi aveva inondato il cellulare di tutto il nulla cosmico di cui è composta la materia elettorale. Gli avevo detto di sì, ogni volta, ad ogni sua pertinace sollecitazione era un mio sì. Insomma, gli assicurai il mio voto in modo talmente convincente che probabilmente se ne convinse davvero. Per questo ne godetti il doppio, godetti come due ricci.

In realtà c’era poco di cui godere. Dovevo trovarmi un lavoro, ma la cosa non era per niente semplice. Avevo già avuto due colpi di fortuna, col B&B e col bar, il terzo sarebbe stato un miracolo. Pregare era un’opzione più che valida, a quel punto della mia esistenza. Avevo sempre avuto un rapporto tutto mio con Dio, è per me come l’aria: non potrei vivere senza crederci, ma mi accorgo che c’è solo quando mi manca e ne avverto la mancanza solo quando le cose vanno male. Sì, mea culpa. A dire il vero, dal quasi suicido mi ero molto avvicinato alla preghiera, capitava spesso, perciò, d’imbucarmi nella prima chiesa che trovavo a portata di mano e raccogliermi nei miei pensieri, che non riuscivo però a raccogliere e mettere in ordine; erano troppi e andavano e venivano velocemente. La mia vita invece scorreva a rilento. Mio figlio ormai s’era abituato alla famiglia allargata tanto cara alla mia ex moglie, era entusiasta del fratellino, un po' meno del patrigno. Angela ovviamente me ne faceva una colpa (mi avrebbe incolpato anche d’un meteorite caduto sulla terra), sebbene in realtà io predicassi a Ciccio rispetto e buon senso. Per il resto, andavo a trovare i miei saltuariamente e avevo intensificato la mia attività padelistica, tanto da riacquisire una forma smagliante. Avevo intensificato anche le mie avventure amorose, collezionavo donne come avevo fatto da ragazzo e ad ognuna di loro mi divertivo a dare un voto (proprio come avevo fatto da ragazzo). In buona sostanza, m’ero trasformato in un patetico single sfaccendato sulla quarantina abbondante. Sfaccendato e quasi squattrinato, perché i soldi della buonuscita di Malvagno stavano per finire. Avevo ripreso anche a vedere Giovanni, con l’accordo, tacito ma ben stagliato sulle nostre menti, di non toccare nemmeno alla lontana l’argomento bar, padre, eccetera. Giovanni ero un ragazzetto intelligente e anche in quella circostanza me ne diede prova. Una sera ricevetti un suo messaggio, aveva una cosa di cui parlarmi. Ero certo che fosse la mezza scusa per andare a farci una pizza. E così fu. Pizza e coca zero, io e lui da soli. E aveva davvero qualcosa da dirmi, anzi da darmi. Appena seduti, prima che arrivasse la ragazza delle ordinazioni, mi diede un pezzo di carta. “Cos’è?”, chiesi infastidito. Giovanni era diventato, suo malgrado, il messaggero di rogne e cani rognosi. “Me lo ha dato mio padre, mi ha chiesto di dartelo”. Lo aprii, ancor più infastidito, e lessi il breve messaggio. Quindi guardai Giovanni dritto negli occhi, facendo finta di niente. Il fastidio era svanito, inghiottito dallo stupore che cercai di non far trasparire. “Che dice?”, mi chiese lui. “Non mi dire che non lo hai letto …”, sogghignai. “Giuro, no!”. Era sincero. Ero fiero di lui.
“E allora, che dice? Torni?”. Me lo chiese ancora, con una luce di speranza tra i suoi azzurri occhi. Il cuore mi si rimpicciolì, non volevo deluderlo ma non potevo accontentarlo: “Non è un messaggio di tuo padre, ma è stato comunque gentile a farmelo recapitare. Ringrazialo da parte mia”. “Potresti ringraziarlo tu … dovrete chiarire prima o poi, no?”. “Meglio di no, dai. Lasciamo il mondo dove si trova”.
Giovanni si spense dentro e per tutta la cena il suo umore fu ombroso. Nemmeno mi chiese cosa ci fosse scritto su quel pezzo di carta, era come se non gl’importasse di null’altro che del mio ritorno al bar; e comunque gli avevo insegnato a non essere impiccione, curioso sì, impiccione mai. Evidentemente col cassiere allittrato se n’era andato un pezzo del suo mondo o perlomeno del suo mondo perfetto. Io gli avevo spiegato che la vita non è mai un puzzle perfetto, ma che l’importante è non perderne i pezzi. Lui aveva capito, però non gli era bastato. Io c’ero, ci sarei stato comunque, ma lui mi rivoleva lì, al posto giusto del suo giusto mosaico.
Evitai ad ogni modo di tornare sulla questione, evitai qualsiasi discorso e mi limitai a trascinare la serata per una corda invisibile e ruvidissima, che mi fece sanguinare il cuore. Ero dispiaciuto per Giovanni e per la situazione. Ero dispiaciuto nonostante quel breve messaggio.

«Adesso so perché il barista ti ha chiamato professore, forse ho un lavoro per te. Saluti, Adele Dragotto. 3351182334».

Continua...