qui per la parte VII
 

La Sovrintendente
Con Ottavia finì presto, non quella sera però. La cosa mi dispiaceva, però mi dispiaceva di più l’ossessività di quella donna, la quale mi confessò, per la centesima volta, d’essere stata sempre innamorata di me. Insomma, il pianeta del sesso e dei sentimenti non si allinearono e ci fu una collisione, con tanto di tazza di porcellana frantumata violentemente sul mio piede e il fragore di una porta sbattuta in faccia. Acqua fresca, rispetto a quello che avevo vissuto negli ultimi mesi. Acqua ossigenata e garza per il mio povero piede sanguinante.  
Il lavoro al bar continuava e anche le mie lezioni private. Il nuovo anno scolastico era cominciato, adesso andavamo al terzo anno. Andavamo, sì. Incredibile pensare al modo in cui mi fossi immedesimato nel percorso scolastico di mio figlioccio, mi sembrava d’essere tornato a scuola, era tornata in me l’idea della prospettiva, di un obiettivo da raggiungere, di un domani da costruire; e la cosa mi piaceva da matti. Era il mio primo interesse, il mio primo hobby, la mia prima occupazione: studiare con Giovanni. E fargli da mentore. Mi faceva sentire importante, ai miei stessi occhi e a quelli della gente, e io avevo sempre vissuto per questo. Mi ero affibbiato lo status, un po' stereotipato, dell’eroe ferito che ricomincia e rinasce in una nuova inaspettata sfida. La sfida era fare dell’Asciutto uno studente di successo, ma soprattutto un uomo di successo. E senza accorgermene avevo assunto un atteggiamento da maestro Miyagi, tutto massime e saggezza. Insomma, c’ero cascato un’altra volta: volevo bene a Giovanni, ma volevo ancor più bene al mio ego. E un ego sconfinato mal si addice a un cassiere di bar, presto me ne resi conto. Avrei dovuto amare quel lavoro, e per un certo periodo fu così, ma stavo diventando indolente, intollerante verso i clienti come Tano, accidioso, scontroso con Marzia e i suoi brusii, autoritario sopra le righe coi banconisti. Mi spinsi fino a questionare più d’una volta col principale, per delle sciocchezze da routine: una volta per un’ordinazione di rosticceria mignon, presa senza acconto; un’altra volta per le lamentele di un cliente, spazientito per i due caffè al tavolo che non arrivavano; di un’altra volta nemmeno ricordo più il motivo, ricordo solo che ci guardammo in cagnesco come mai era successo. Mi diceva sempre che non ero più semplicemente un cassiere, bensì i suoi occhi e le sue orecchie, ma me lo diceva senza trasporto. La cosa avrebbe dovuto comunque inorgoglirmi e invece non aveva nessun altro effetto su di me che un’ingrata insofferenza. Malvagno mi stimava e mi detestava, in ogni caso ero diventato in pochissimo tempo uno di famiglia, perciò, aveva ragione a considerarmi molto più che un cassiere. Ero “il responsabile”, mille e cinquecento euro al mese e, altro casus belli, partecipazione alla spartizione delle mance dei banconisti (non dico che stava scoppiando la terza guerra mondiale tra me e loro, ma poco ci volle).
Insomma, ero il responsabile del bar, mi portavo a casa quasi duemila euro al mese, nessuno poteva toccarmi (neppure lo stesso titolare), ma troppe volte mi domandavo: Che cazzo ci sto a fare qua? La cosa non prometteva nulla di buono, perché quando si nasce tondi è impossibile morire quadrati e io avevo sempre avuto un’innata propensione alle rotondità del pallone gonfiato. Ma dovevo resistere, fare il cassiere era una specie di tributo alla resilienza.
E comunque avevo bisogno dei soldi, per vivere e per saldare tutti i miei debiti. E avevo bisogno di Giovanni, per sentirmi nuovamente vivo. Anche Ciccio aveva ripreso la scuola, quinta elementare. Non lo avevo mai aiutato, volevo che imparasse a studiare da solo, in quel periodo io e lui ne discutevamo di sovente e ogni volta erano musi lunghi e sopracciglia strette. Del resto, che pretendevo? Il suo disagio era comprensibile. Suo padre studiava con un adolescente migliorandone sensibilmente il rendimento, lui pretendeva semplicemente lo stesso trattamento. Ne parlai con Angela, durante uno dei colloqui settimanali che intrattenevamo come carcerati dietro le sbarre d’un figlio da crescere insieme, ma l’argomento stava finendo per condurci oltre quella maledetta linea di demarcazione tra un rapporto civile e la guerra dei Mendolas; perciò, tagliai corto, lasciandomi scivolare le raccomandazioni stentoree sulla sensibilità di Ciccio, costretto a dividere il padre con un matrimonio fallito e, adesso, pure col suo pupillo. Tagliai corto perché aveva ragione, in fondo lo sapevo. Quindi, decisi di mettere da parte le mie convinzioni pedagogiche del caciocavallo e cominciai a fare i compiti con lui. Io, Ciccio e Giovanni, tutti i pomeriggi della settimana. Tutti felici e contenti. Ma Giovanni cominciò ad essere scostante. E a mangiare poco.

Un giorno come gli altri entrò al bar il più improbabile dei clienti. Se c’è una cosa che in quei mesi avevo imparato è che al bar puoi incontrarci chiunque (un po’ come al bar di VXL, dove si può scrivere di qualunque cosa ed essere parimenti apprezzato … amata libertà!). Mai però avrei pensato d’incontrarci la signora Pirrone. Lei, donna raffinata, che entra in un caotico e oleoso bar di borgata. L’avevo rimossa dall’archivio del mio vissuto, era come se quel disastroso colloquio di lavoro in casa sua non fosse mai accaduto. Era in compagnia di altre due persone, un uomo in giacca e cravatta e una ragazza con un’agenda in mano. Erano le 9 del mattino, una giornata uggiosa. Lei era sobria ed elegante, borsa Gucci, foulard di seta, trucco delicato, mani levigate, una qualche fragranza addosso, una bellezza fuori dagli schemi. Mi riconobbe subito, e non me lo sarei mai aspettato, mi sfoderò un sorriso vero e sorpreso, e non me lo sarei mai aspettato. Io ricambiai, un po' a disagio. “Giuseppe! Alla fine, l’ha trovato un lavoro …”, mi disse compiaciuta, mentre l’uomo che era con lei mi dava i soldi per pagare tre caffè e non nascondeva un certo stupore. “Già!”, bofonchiai appena. Il fatto che ricordasse il mio nome mi sorprese piacevolmente, non erano trascorsi che pochi mesi da quel colloquio in casa sua, ma per il distacco con cui mi aveva trattato, siderale ancorché manierato, non ci avrei scommesso un centesimo. Presi i soldi, diedi il resto e mi trincerai dietro il più improbabile dei sorrisi. I tre consumarono il caffè al banco, io facevo finta di niente, vergognandomi del modo miserabile in cui tendevo l’orecchio per sentire cosa si dicessero. Non distinguevo una sola parola, comunque si vedeva lontano un miglio che approcciavano a lei con estrema deferenza. Consumarono il caffè, andarono via. “Arrivederci, Giuseppe”. “Buona giornata, signora”. L’uomo che era con lei mi lanciò un’occhiata, come se fossi un extraterrestre, evidentemente sorpreso dell’atteggiamento della Pirrone verso di me. La cosa comunque finì lì. Non sapevo perché, ma ero stato contento di averla rivista.

Quello stesso pomeriggio andai al cinema con Ciccio. Davano un film d’azione con Vin Diesel, il Toretto di Fast & Furious, eroe di Ciccio. Avrebbe dovuto esserci anche Giovanni con noi, solo che l’Asciutto prese la scusa del compito di matematica dell’indomani. In realtà, era una mezza scusa e una mezza verità. Il compito in classe ci sarebbe stato davvero, lui avrebbe studiato davvero, ma al cinema non ci sarebbe venuto comunque, la matematica era l’unica materia in cui io non potevo aiutarlo e ultimamente aveva preso a studiarla con Monica, sua compagna di classe. Insomma, al cinema avrebbe preferito Monica comunque. Francesco ci rimase male, io gli spiegai che prima veniva il dovere e poi il piacere (mentre, che Monica avrebbe sempre avuto la priorità e che anche lui un giorno avrebbe avuto una Monica da preferirmi lo tenni per me). Ero contento e ne ero geloso. Erano le prime esperienze sentimentali dell’Asciutto, che asciutto cominciava ad esserlo per davvero, grazie alla dieta, che io reputavo eccessivamente rigida, e grazie a un lavoro costante in palestra. E grazie a Monica. Lei me lo avrebbe portato via, era inevitabile. Dovevo solo evitare di considerare mio figlioccio una cosa mia. E comunque la storiella, che per i due, neanche a dirlo, era la storia d’amore della vita, faceva parte del percorso di crescita e stabilità di un quindicenne cicciottello e sfaccendato che, grazie a me, stava diventando un ragazzino vincente ed equilibrato: bravo a scuola, di successo con le ragazze, maturo. Ero andato a sbirciare su Facebook e mi ero reso conto che Monica Leoni fosse una tra le più belle ragazzine della scuola. “E bravo mio figlioccio!”: glielo avrei detto appena lui mi avesse reso partecipe di quella storia, che ancora mi teneva nascosta, forse proprio per paura di deludermi. Sì, gli avrei detto “E bravo mio figlioccio!” e gli avrei spiegato che non poteva esserci nessuna delusione, che la vita era la sua e lui doveva viversela al mille per mille, con equilibrio ma al mille per mille, e che “A ora di femmine, lascia tutto e tutti in asso”. Gli dissi esattamente queste parole quando, qualche giorno dopo, affrontammo l’argomento e ottenni piena confessione.  

Nel frattempo, Angela diventò mamma una seconda volta. Un altro maschio, un altro padre. Eravamo a tutti gli effetti l’ennesima famiglia allargata che la società dell’intolleranza e dell’egoismo, coniugato al verbo riflessivo “primavengoio”, aveva generato. Andai a farle visita in ospedale, un po' perché me lo chiese Ciccio, un po' perché dovevo ancora restituirle buona parte dei diecimila euro e i buoni rapporti erano più che opportuni. Speravo solamente di non trovarci il compagno. Ai miei occhi non era più lo stronzo che s’era infilato nel mio letto e condivideva il tetto con mio figlio, tuttavia preferivo non incontrarlo.  Angela era al settimo cielo, mi abbracciò, mi chiese addirittura di fare da padrino al piccolo Ruggero (nome di merda!). Il padrino io! Io che non avevo mai scambiato una parola col compagno, né m’entusiasmava la prospettiva d’iniziare a farlo. Non provavo più niente per lei e nemmeno per lui, se non indifferenza, ma il concetto di famiglia allargata facevo proprio fatica a digerirlo.
Declinai la proposta, inacidito: “Meglio di no”. Lei non fece una piega, probabilmente si aspettava il mio diniego, probabilmente me lo aveva chiesto solo come ulteriore manovra di avvicinamento, perché a lei invece il concetto di famiglia allargata piaceva, mondava i suoi sensi di colpa e metteva una pezza su tutto. Era stata lei a lasciarmi, lei a mettersi con un altro, lei a fare tutto questo a Francesco. Tenermi vicino, in un quadretto stile-volemose tutti bene, era ricucire lo strappo continuando a farsi la sua vita e a farsi il suo compagno. In quel momento capii il motivo intimo del prestito: forse era stata compassione per il vecchio amore della sua vita; forse era stato desiderio di aiutare il padre di suo figlio; di sicuro era stata la prima manovra subdola di quell’avvicinamento. Motivo per cui, mi ripromisi di accelerare i tempi della restituzione.

La restituzione del prestito di Angela procedette a passi spediti, io mi allontanai dal quadretto della mia ex moglie a gambe levate. Mi limitavo a farle avere i soldi e a sporadici contatti, che piano piano si dissolsero in un rapporto WhatsAppolare, con tanto di fotografie del piccolo Ruggero, del quale mi poteva fregà de meno. Anche il mio rapporto con l’Asciutto si era un po' annacquato. Lo capivo, era normale, era il suo tempo. Me ne feci una ragione, anche se mi mancava quella specie di simbiosi mentale che si era instaurata tra di noi; e mi mancava la quotidianità. Ormai studiavamo assieme solo quando c’era da ripetere storia o filosofia, i compiti di latino erano diventati affaccendamenti amorosi tra lui e la sua compagna di banco. Comunque, ero sempre il suo punto di riferimento, ci sentivamo quasi tutti i giorni e mi teneva costantemente aggiornato sulla sua vita e sulla scuola ovviamente. Aveva scoperto il sesso, era al settimo cielo, ne parlava solo con me, mi chiedeva dei consigli e ogni volta gli spiegavo come quella fosse una sfera che ognuno di noi deve scoprire da sé, che non ci sono consigli, insegnamenti, regole, ci sono solo le pulsioni.
Un pomeriggio andammo a mangiare il panino con la milza, Monica non l’aveva mai mangiato. Fino a quel momento non avevo mai considerato come a molti fossero sconosciute abitudini culinarie che invece credevo appartenessero allo stesso DNA d’ogni palermitano. La ragazzina proveniva da una famiglia altolocata, l’unico cibo di strada che aveva sperimentato era il pane con le panelle, per il resto tabula rasa. Li portai da “Mimmo U’ fasualu”, il mivusaro di Passo di Rigano, il migliore su piazza (flatulenza congenita a parte). Giunti lì, notai subito negli occhi da cerbiatto di Monica un baluginio ch’era un misto d’euforia e tentennamento. Il mondo delle borgate s’era schiuso davanti a lei, con tutte le contraddizioni di due città che convivono in una. Monica era della Palermo bene. Palermo bene è un modo di fare contrapposto a un modo d’essere (quello tipico delle periferie); è il distinguo di un finto lord da un presunto lordo; una O troppo chiusa che fa a pugni con una A troppo aperta; è un’eterna gara tra una Smart-due posti comperata in leasing e una Golf nera di seconda mano; è un cornetto integrale al miele anziché l’iris fritta (altro articolo incredibilmente sconosciuto alla fidanzatina di Giovanni), la tribuna che snobba le curve, il sobrio che schifa il tascio, la musica jazz che storce il muso ai woofer della Golf di prima. È una linea di demarcazione tra il popolino delle borgate, da una parte, e la nobiltà decaduta e la borghesia salottiera, dall’altra; mentre i cosiddetti pirocchi arrinisciuti (letteralmente, pidocchi che riescono) su quella stessa linea giocano a far gli equilibristi, attenti a non cadere giù e a non sollevarsi troppo sulle punte.
Ad ogni modo, Monica rimase esterrefatta, ma il suo approccio non fu affatto quello tipico della Palermo bene. E non lo fu nemmeno il suo approccio al panino con la milza, che accompagnò a una birretta. Sorrise di gusto quando le spiegai perché al grassone, che nel frattempo armeggiava con la schiumarola sul pentolone ribollente di strutto, milza, polmoni e frattaglie, gli avessero appioppato quel soprannome, di cui andava talmente fiero d’averne fatto il nome della sua piccolissima, umilissima e fruttuosissima azienda. Nemmeno sapeva quale fosse il significato del termine fasualu. “Perché fasualu?”, mi chiese, palesando una certa difficoltà con la pronuncia dialettale. “Come, non sai che vuol dire?”. Ne fui veramente sorpreso.   Lei lo ammise con un silenzio condito da un risolino impacciato. Guardai Giovanni e Giovanni spiegò: “Fasualu è il fagiolo, ma neppure io so perché ha sta ‘nciuria”. “Eh?”, fece lei con la bocca più spalancata possibile. Non conosceva neppure il significato di ‘nciuria. Insomma, sconosceva quasi del tutto il nostro dialetto.
Addentando il panino, ripresi io: “La ‘nciuria è il soprannome … Monica, ma dove vivi?”. “Nto’ bicchieri”, scherzò Giovanni. Mentre dall’iperuranica Monica ancora silenzio e tanta curiosità, che fuoriusciva da due occhi luccicanti. E ancora io: “Si chiama Mimmo il fagiolo, per la sua propensione alla flatulenza. Il legume in questione …”. Giovanni intonò la musichetta di Quark, io mi atteggiai a Piero Angela o forse ad Alberto (adoro lui, adoravo ancor di più il padre) e proseguii nella mia dotta, scanzonata dissertazione: “… Il fagiolo è noto, oltre che per le sue proprietà organolettiche, anche per gli effetti indesiderati, che spesso trasformano l’orifizio umano in una tromba. Ebbene, si dà il caso che l’esemplare di homo sapiens qui presente, tale Mimmo, dia spesso fiato alla sua tromba posteriore e ciò pare sia dovuto alla quantità abnorme di pasta coi suddetti legumi ch’egli sovente ingerisce”. Monica era divertitissima: “Niente pasta e fagioli, allora?” e rise ancora. Mi piacque un sacco. Pensai che probabilmente a Giovanni piaceva questo, più che il suo candore spudorato da cheerleader. Lui, figlio di commercianti di periferia (i pidocchi che riescono, per l’appunto), che frequenta una scuola privata piena di fighetti sempre alla ricerca di differenze e si mette insieme a una vera figlia di papà, assolutamente impermeabile a quelle differenze. Le promisi che presto avremmo fatto il tour completo del mangiare palermitano e del cuore pulsante della vera Palermo: le borgate, le bancarelle, i lapini, la sudicia fragranza, il rosanero ovunque, la colorita irruenza, tutto; e che la prossima volta avremmo portato anche Ciccio con noi.   “Prima le stigghiola! Le voglio far provare le stigghiola”, declamò entusiasta l’Asciutto, il quale di cibo da strada invece s’intendeva, eccome. Gli andai dietro: “Va bene, prima le stigghiola, mi pare giusto”.
Ero entusiasta anch’io, soprattutto del fatto che in qualche modo Giovanni mi stava coinvolgendo nella sua storia d’amore. “Minchia Mony, troppo buone le stigghiola!”. “Giovanni, parolacce niente davanti alle ragazze!”, lo redarguii. “Comunque, vada per le stigghiola. Solo se mi dite però la provenienza di questo nome”. L’Asciutto sbuffò, fintamente seccato. “Amunì, chi lo sa?”, feci ancora. Monica sorrise, incuriosita. Era brava a scuola, un asso in latino. La guardai, complice: “Sei brava o no, in latino? Forza!”. “Non saprei”. “Vi arrendete?”. “Parri’, dacci un taglio!”. “Viene dal latino extilia, termine che indica l’intestino, le budella”. “Quindi, è un piatto antico?”. “Antichissimo, mia cara”. “Non vedo l’ora di assaggiarle”. Le diedi un pizzicotto sulla guancia: “E io non vedo l’ora di portatici”.

Insomma, andava tutto bene. Ero ormai assuefatto a una vita normale, essere il signor nessuno non mi pesava più. Essere importante per Ciccio e per Giovanni: contava solo questo. Per il resto, avevo ripreso a giochicchiare a padel, di tanto in tanto andavo a trovare i miei genitori, avevo del tutto saldato i miei debiti, mi vedevo sporadicamente con una tizia conosciuta al bar. Era sposata, aveva un nome dozzinale, Noemi, la voce marcata in perfetto stile-femmina di quartiere e le fattezze procaci.
La mia vita scorreva così, senza infamia e con qualche lode. In fondo pensavo che vivere senza ambizioni avesse comunque i suoi lati positivi. Non nascondo che quando guardavo il telegiornale e davano le notizie di politica nazionale sentivo una specie di tuffo al cuore, quando poi capitava che si parlasse di politica siciliana e affacciava quello là mi veniva il vomito; ma era giusto un istante, il tempo di cambiare canale e pensare ad altro. Avevo totalmente cancellato dalla mia vita la politica locale, non leggevo più niente, non m’informavo di niente, non m’importava di niente. Sapevo che tra qualche mese, in primavera, sarebbero arrivate le elezioni comunali, ma sapevo solo questo e basta.
Ero sparito dal vecchio mondo: numero di cellulare diverso, il mio vecchio account Facebook disattivato (Instagram mai usato), frequentazioni azzerate. Capitava di rado d’incontrare qualcuno del giro e prima che quegli attaccasse coi soliti ragionamenti di politica da strada, tagliavo corto dicendo che non m’interessava più. Alcuni capivano e lo rispettavano, altri invece insistevano. Come quella bestia ignorante di consiglierucolo di circoscrizione, tarchiato, dai capelli oleosi, dopobarba spruzzato a litri e gli occhiali da sole indossati anche quando diluviava: Andrea Milazzo. Milazzo, ahimè, era un assiduo frequentatore del bar. Un elefante aveva più tatto di lui, un asino più sapienza, ma era scaltro come la più scaltra delle volpi e con scaltrezza pensava di convincermi a passare dalla sua parte. Mi trattava senza fronzoli come un ex, altrimenti non si sarebbe mai nemmeno sognato d’acquisirmi. Sia chiaro: passare dalla parte di un soggetto del genere, per un soggetto del genere, non vuol dire condividere percorsi, idee, progetti, appartenenza, no. Vuol dire racimolargli un po' di voti e consentirgli di continuare a fare ciò che Milazzo faceva da 15 anni: lo spicciafaccende di quartiere. Palermo ne è piena, borgatari con i voti che camminano con un taccuino sempre in tasca, in cui sono annotati i nomi degli elettori e, accanto, il numero dei voti calcolati per famiglia. Loro vivono per quei voti, ne servono 500\600 per essere eletti un’altra volta, per farsi un altro giro e continuare ad arrotondare le loro misere entrate con la misera indennità della Circoscrizione. Per il resto, se chiedete loro cosa sia una mozione, magari lo sanno ma non l’hanno mai presentata. Perché non sanno farlo e comunque a loro non interessa e non interessa alla gente. Alla gente interessa solo che questi politicanti di rione gozzoviglino per bar e marciapiedi, gironzolino per gli uffici pubblici e abbiano accesso alla borghesia con i soldi, e col vero potere. Il palermitano è unico nel barattare, col suo voto, favori che in realtà sono diritti. Milazzo non mollava la presa, sembrava Claudio Gentile in Spagna ‘82, solo che la maglietta strappata non era quella di Zico, era la mia e la cosa mi urtava alquanto. Tutte le mattine, cornetto, caffè e dieci minuti di fracassamento di scatole. A un certo punto non ce la feci più e glielo dissi chiaramente: “Per favore, Milazzo, stai diventando pesante. T’ho già detto cento volte che non sono interessato”. “No, aspe’, ti spiego, io …”. “… Milazzo, ho chiuso con la politica”. Quel coglione non fece una piega, aveva gli occhi furbi, la voce a siringa e la faccia di bronzo: “Sì, ma a votare ci vai? Perché a me ...”. “… No, non ci vado!”, tagliai corto. Ma se non fosse stato per un cliente che doveva pagare, quello avrebbe insistito ancora, senza batter ciglio, senza accennare ad alcuna reazione al mio atteggiamento palesemente invelenito. Sì, perché scorreva veleno nelle mie vene, odiavo Milazzo, lo odivo dal più profondo del mio cuore. 

La reazione arrivò invece dal mio principale, quello stesso giorno. Avevo fatto il primo turno, ogni tanto capitava. Appena smontai, alle 14 e 05, Malvagno mi chiamò in disparte, fuori dal bar. Fumava, era infastidito. Sempre così quando doveva affrontarmi. “Dimmi pure, Nando”. “Giuse’…” Mi sguardò. Lo sguardai. “Andrea Milazzo è amico nostro”. “Mi fa piacere”, lo rintuzzai con perentorietà. “No no, non hai capito. L’ha trattari buanu”. “Non l’ho mica trattato male”. “Invece sì, vi ho visti stamattina”. “Mi scassa la minchia”, ammisi scocciato. “Addirittura!”. “Sì, addirittura. Non voglio rotti i coglioni, ok?”. Malvagno non si aspettava una reazione di quel tipo da parte mia: “Che sei, un antipolitico?”. “Lascia perdere, Nando, non ha importanza che cosa sono. Mi dà il tormento. Anzi, visto che è amico tuo, digli di finirla”. Mi prese il braccio, arrestando i nostri passettini: “Tu fa passari, u’ toimmento, Giuse’. Me l’ha detto Milazzo …”. “Cosa?”. “Che prima facevi politica”. Ricacciai dentro, non so nemmeno io cosa. Ma lo ricacciai dentro. E Malvagno parve avvedersene: “Un ci pinsari chiù”. “Ma chi ci pensa più!”. I miei occhi parlavano per me, ma non sapevano cosa dire. “Lo devi ascoltare e gli devi calare la testa”, insistette lui. Cominciai a sentire una specie di bollore salirmi in fronte. Malvagno cercò di rabbonirmi. Mi prese sottobraccio, facemmo altri due passi sul marciapiede antistante il bar. “Giuseppe …”. “Eh”. “M’ha fatto un mare di cortesie, Milazzo è uno che si mette a disposizione”. Passeggiammo. Io non dicevo nulla, lui parlava tra una pausa e un’altra più lunga di quella precedente. “Questa volta si porta a consigliere comunale, capisci a me …”. Azzo, fa carriera, la capra! Me lo tenni per me. “… Ci dobbiamo dare una mano, peicciò un pigghiari impegni, av’acchianari”. “Non prendere impegni … deve salire”, ripetei io, sogghignante. Malvagno si accigliò appena: “Mi pigghi pu’ culu, Gusè?”. “Per niente. È solo che penso a quanti danni queste parole hanno fatto alla nostra terra”. “Non fare l’idealista, a noi danni non ce ne fanno”. Macché idealista, sono il primo ad aver fatto danni con queste parole. Tenni per me anche quest’ultima considerazione e aspettai la fine dell’ennesima pausa di Malvagno. “Lo vedi là?”: indicò verso il Castello alla Zisa, dove da qualche settimana c’era un certo fermento, e ancora una pausa: “Devono allargare il marciapiede di fronte al castello. Milazzo ci farà avere il suolo pubblico per metterci i tavolini”. Volevo vomitare. Ma in quell’istante passò davanti a noi la signora Pirrone, questa volta a testa bassa. E a testa bassa entrò al bar, sempre in compagnia delle stesse due persone dell’altro giorno. Non mi degnò di uno sguardo. “Eccola, a’ dottoressa Dragotto ra me minchia!”, esclamò Malvagno quasi a farglielo sentire. Io tacqui, incerto. “U sai cu è?”, mi chiese schiumante. Sapevo chi fosse. Anzi, evidentemente no. Comunque, non dissi nulla. “Quella è la sovrintendente ai Beni Culturali. Milazzo dice che non l’autorizzerà mai sta cosa dei tavolini, ma se lui sale … poi u’ viriemu!”. Io ne fui letteralmente allibito. Ricordai quando l’avevo cercata su Facebook, ottenendo solo qualche foto dal profilo del marito e nulla più, mentre mi sarebbe bastato digitare il suo nome su Google per sapere tutto di lei. Ma come potevo immaginare! Ovviamente conoscevo il nome della temutissima sovrintendente ai beni culturali (era stato il mio mondo, quello), ma mai avrei pensato che l’Adele Dragotto sovrintendete fosse proprio quella donna lì, la padrona di casa Pirrone. “Va bene, ho capito Nando” e lo lasciai lì, indirizzandomi a passo spedito verso il bar. “Ma dove vai? Non ho finito, Giuseppe!”. “Ho capito, ho capito … tranquillo. Devo fare pipì”. “Allora, mezza parola?”. “Sì, sì …”, lo liquidai, mentre entravo al bar. Non dovevo fare pipì. Andai al banco, chiesi dell’acqua. Mi feci notare, forse prima non mi aveva riconosciuto. “Lei sempre qua sta?”: me lo disse sorridendo. Sorrisi anch’io: “Sono io che dovrei dirlo a lei”: “E’ vero, ha ragione”. “Adele Dragotto, giusto?”. Lei non capì e me lo diede a vedere con una smorfia colorita. “No, è che per me è sempre stata la signora Pirrone. Qua invece …”. “Tu sei venuto in casa mia, che è casa Pirrone, il cognome di mio marito. Ma io sono Adele Dragotto”. Mi tese la mano. Non fui reattivo. “Ripresentiamoci, no?”, mi disse ammiccando scherzosa. “Ah sì, giusto!”. Le diedi la mano: “Piacere, Giuseppe Mendola”. Ridemmo entrambi, lei s’era completamente scordata delle persone che l’accompagnavano. Io aumentai l’intensità della risata, lei mi guardò incuriosita e allora le spiegai, imbarazzato: “Il fatto è che quando venni a casa sua avevo paura di darle la mano, chissà lei non ricambiasse e io rimanessi come un broccolo con la mano così”. Rise di gusto, poi si fece fintamente seriosa: “Ti ho dato questa impressione?”. Io portai la mano tra i capelli, tanto bastò per risponderle di sì. Intervenne Carmelo, il banconista, a smorzare il mio disagio: “Professore, acqua pronta. Ti faccio pure un caffè?”. “No, grazie”, risposi io. La signora riprese un qualche filo della chiacchierata: “Ah, ti presento Sergio Valloni, il funzionario del mio dipartimento, e Donatella Sabatino, la mia segretaria”. Diedi la mano a entrambi: “Giuseppe Mendola, onorato”. “Com’è che siete di nuovo da queste parti?”, chiesi. “Ma come, il tuo titolare non te l’ha detto? Si è limitato a darmi della …?”. Lo disse senza adombrare la luminosità del suo viso. Aveva preso a darmi del tu. “Sì, in effetti mi ha spiegato chi è lei e cosa ci fa qua”. Abbassai la voce, guardandomi intorno: “Se devo essere sincero, sto dalla vostra parte!” “Wow! Menomale, va”. Fece per andarsene. La sua segretaria si avvicinò alla cassa, mettendo le mani in borsa. “Lascia Marzia, sono ospiti miei”. “No no no … non possiamo, Giuseppe. Capiscimi, ti prego”. Io capivo perfettamente, capivo un po’ meno come mai lei entrasse lo stesso in quel bar, forse solo per assoluta noncuranza o forse per dipendenza da caffè. “Siete ospiti miei, non del bar”, la rassicurai, mentre andavo alla cassa a pagare. La signora accettò, ma senza entusiasmo. Andò via, salutandomi con un gesto della mano: “Buona giornata, Giuseppe … professore. Questa poi me la spieghi, eh?”. “Buona giornata a lei” “E smettila con questo lei …”. E andò via, con lo stesso sorriso cortese.

“Ma la conosci?”. Dal marciapiede, quasi quattamente, il principale aveva assistito al siparietto tra me e la sovrintendente. Era manifestamente sorpreso. “E’ la moglie del direttore di banca dov’è correntista mio padre”. “Sembrate buoni amici”. “Macché, l’ho vista tre volte nella mia vita”. Malvagno fece la bocca a cucchiaio, per nulla convinto. Io lo lasciai nelle sue perplessità. E nel suo rimuginare. Sapevo che per lui la discussione non era finita lì.

La discussione continuò l’indomani, a casa di Malvagno. Ero a cena da loro, compleanno di Giovanni. Festa in casa tipo anni 80, con tutta la sua classe. L’appartamento dei Malvagno non era enorme, ma bastava a contenere la quindicina di giovinotti euforici e chiassosi. E poi, da noi si dice: cap’a casa quantu voli u patruni. Monica Leoni era un meraviglioso fiorellino appena sbocciato. Giovanni la trattava come una reginetta, con buona pace della madre, che lottava con la sua gelosia. Ero in cucina, assieme ai coniugi Malvagno. Stavamo mangiando anche noi la rosticceria della festa, ma ci tenevamo in disparte dagli ormoni adolescenziali e dalle loro effervescenze. “Giuse’, non mi è piaciuto come ti sei comportato ieri”. Trasalii, Malvagno voleva chiaramente questionare, riprendendo una discussione che per me era morta e sepolta. “Ancora ci pensi?”, feci con atteggiamento asettico. Malvagno sbatté la mano sul tavolo, la verità è che non mi aveva mai sopportato. “Ti pare che me lo scordo?”. La moglie andò di là, con una scusa. Io rimasi calmo: “Ma di che parli?”. “Di Milazzo. E di quella grandissima buttana”. “Abbassa la voce, Nando”. “Ou! Chista è casa mia, u capisti? Decido io se abbassare la voce o no. Chi ti mittisti n’tiasta, ah?”. Credo che stesse per alzarmi le mani, era paonazzo. Ma forse non c’entrava Milazzo e neppure la sovrintendente, forse la vera ragione era l’atteggiamento di suo figlio e le attenzioni che, al cospetto dei suoi amici, mi aveva appena riservato. Sì, doveva essere questo il motivo. Lui che viveva per l’approvazione di chi lo circondava; lui che aveva faticato e faticava come un mulo per non essere ciò che le sue origini avevano decretato che fosse; lui che vestiva d’oro moglie e figlio perché fossero la moglie e il figlio di Ferdinando Malvagno, “u figghiu ru zu’ Nittu u bummularu” che aveva fatto i soldi; lui che l’etichetta di pirocchiu arrinisciutu non se la sarebbe mai scrollata di dosso. Lui veniva di fatto scavalcato da un fallito come me, un suo dipendente, il suo cassiere, il custode del segreto dei suoi peccati extraconiugali. Doveva essere una cosa insopportabile, che per troppo tempo aveva sopportato e quella discussione era l’eruzione piroclastica di un vulcano che non ce la faceva più a tenersi tutto dentro.   Mi alzai dal tavolo, lasciando l’arancinetta a metà. “Hai ragione, è casa tua”. E me ne andai, senza neanche degnarlo di uno sguardo. E senza dargli la possibilità di spingersi oltre, qualunque fosse il limite che avesse deciso di oltrepassare. Salutai Giovanni con un abbraccio, ma ero impermalito e non riuscii a dissimularlo. Mio figlioccio ovviamente protestò, mi voleva lì fino alla fine della festa. “Ha chiamato la mia ex moglie, Ciccio non si sente bene e chiede di me, devo andare”. L’Asciutto assentì, deluso e poco convinto. Era troppo sveglio per non aver capito tutto dal momento in cui mi aveva visto uscire, trafelato, dalla porta di cucina. Non l’avrei più rivisto per un po' di tempo.

Continua ...