... Segue 

qui per la parte VI

Il cassiere allittratu

Altro che Bar di VXL, in un bar finii per lavorarci...
Coi soldi della mia ex moglie mi tolsi dalle scatole il freelance Marco e la sua società di strozzini legalizzati. La bella giara l’avrei ripristinata a poco a poco, al signor Pantano ci avrebbe pensato u' Signuri (non potevo farci nulla) e, chissà, magari il miracolo sarebbe successo davvero e il suo figliolo mezzo scemo avrebbe ottenuto il tanto agognato tempo indeterminato.
Ero più tranquillo.
Ripresi la mia vita, con rinnovato spirito fattivo. Appunto, trovai pure un lavoro. Mi assunsero come cassiere di un bar, quello vicino al B&B, dove tante mattine avevo fatto colazione. Mi aveva chiamato il proprietario, il quale aveva sperimentato, sulla pelle sua e della sua fidanzata extraconiugale, la mia assoluta affidabilità. La paga era quella che era (mille euro al mese, senza messa in regola), gli orari infernali (dalle 6 alle 14 o dalle 14 alle 22), il lavoro abbastanza monotono. Ma era un lavoro e lui pagava puntualmente, cosa che dalle nostre parti è tutt’altro che scontata.
Instaurai un rapporto cordiale col personale, compresa Rossella, la fidanzatina extraconiugale del titolare che faceva la banconista. Insomma, Ferdinando Malvagno (così si chiamava il proprietario del bar “Alla Zisa”) s’intratteneva in relazioni amorose con le sue impiegate. Dico le sue impiegate perché ci misi poco a capire che con Rossella era finita ed era cominciata con Marzia, un tronco di femmina, sposata, che faceva l’altro turno alla cassa. Sperai solo che al principale non piacessero pure i maschi.  
Manie del titolare a parte, orari infernali a parte e monotonia a parte, ero contento. Avevo di nuovo un lavoro. C’era un altro aspetto di quel lavoro che non mi piaceva. Un bar è una specie di porto di mare (oltre che un laboratorio di sociologia), perciò dovetti abbandonare l’idea suadente dell’invisibilità e accettare di rispondere, pur sempre a monosillabe e a denti stretti, alla fatidica domanda, che meccanicamente e un po' sadicamente mi veniva ripetuta da chi mi conoscesse: “E tu che ci fai qua?”. Ma ormai non m’importava più. Se c’è una cosa che il quasi suicidio mi aveva insegnato è che l’unica persona di cui preoccuparsi di non vergognarsi è quella che compare tutte le mattine allo specchio del bagno.
Che andassero a farsi fottere, tutti quanti! Tanto, quand’ero in voga (o pensavo di esserlo) mi guardavano con invidia, adesso guardavano al mio fallimento con quell’alone di goduria ferina tratteggiato tra i lineamenti gaudiosi. Che si fottessero! Non me ne importava nulla. M’importava solo esserci per mio figlio. Certo, non si sarebbe vantato con gli amici del mio lavoro, nessuno lo avrebbe guardato come al figlio di qualcuno, però avrebbe avuto in me un punto di riferimento solido. Oramai era questo il mio unico obiettivo di vita, aveva ragione Angela, contava solo questo. Al mondo eravamo solo io e lui. E il mio lavoro di cassiere d’un bar di periferia.  
Anche lì gli inizi furono difficili, dovevo calarmi in una nuova realtà, fatta di colleghi rozzi e clienti sgarbati.
Era il terzo o il quarto giorno (non lo ricordo bene), quando questionai animosamente con un habitué del locale, uno di quegli uomini al cui alluce la vita ha affibbiato l’etichetta di una morte lenta, quanto i loro pomeriggi svogliati. “Pagati!”, pensò d’ingiungermi costui, lanciando sul rendi-resto una carta rimpicciolita a un quadratino di cinque euro.  
“Scusi?”. Tano, si chiamava quel mezzo uomo di mezz’età che trascorreva più ore al bar che a casa sua. Tano mi guardò con indolenza, passandosi da una parte all’altra della bocca lo stuzzicadenti che aveva sempre con sé. “Pagati!”, ripeté con lo stesso tono, distrattamente perentorio, indicando col capo verso la banconota lanciata. Fino a qualche mese addietro quella testa di milinciana non avrebbe neppure osato guardami, la gente chiedeva un appuntamento per parlare con me e non era nemmeno facile che l’ottenesse; di certo, una cosa inutile del genere non ci sarebbe riuscito. Ma non ero più quell’uomo lì, ero il cassiere di un bar di periferia. Strinsi i pugni, strinsi i denti e strinsi le sopracciglia: “Non ho capito, mi scusi”. “Ullu capisti? Chiffà, ruaimmi?”. “Io non dormo, signore. Lei è sveglio?”.
Mi stavo surriscaldando e non era frequente in me. Non m’importava della reazione di quello là, non m’importava delle eventuali conseguenze che avrei subito al lavoro. Non ero più nessuno, ed era una condizione a cui ormai dovevo rassegnarmi, ma non avrei permesso mai ad alcuno di rivolgersi a me in quel modo. Mai.
Tano abbozzò, evidentemente apparteneva a quella nutrita schiera di palermitanucci di borgata, facce consunte e bocche larghe, che s’atteggiano a ciò che non sono e che, nove volte su dieci, riescono ad intimorire gli sbarbatelli come me. Peccato per lui che quel giorno s’era trovato davanti lo sbarbatello numero 10, che veniva dalla strada e che riconosceva benissimo il Dna dell’innocuo can che abbia e fa solo quello.
Tano non mi diede soddisfazione, ma chiaramente fece un passo indietro. “Un caffè e una brioscina”, disse sottovoce, preoccupandosi di non abbandonare la smorfia spocchiosa che gli attraversava lo sguardo. “Un caffè e una brioche vuota - feci io, con nonchalance - 1 euro e 50”. Gli diedi il resto e andò via, con la coda tra le gambe e l’antipatia giuratami in eterno.

Le giornate trascorrevano senza alti né bassi. Quel lavoro non mi piaceva, però facevo in modo che mi piacesse lo stesso.
“Tre caffè e un cornetto”. “Quattro euro”. “Tenga il resto”. “Ragazzi, per voi!”... “Buongiorno, due coni, uno con panna e uno senza”...“Una Ceres”. “Tre euro, cambiati non ce li ha?”... “Devo pagare il caffè ma ho cinquanta sane, vengo più tardi”..
. Era una litania senza soluzione di continuità, che riempiva ore pachidermiche appese a lancette che non giravano mai. Ce le avevo davanti agli occhi, le lancette, imprigionate in un tondo orologio a parete con la marca del caffè scritta al centro e i miei dodici peggior nemici intorno. Iniziavo il mio turno che già non vedevo l’ora che finisse.
A darci la giornata libera, a me e alla mia collega, pensava direttamente Malvagno e non succedeva mai di domenica, il che mi causava parecchio disagio dal momento che nei weekend Ciccio stava con me e avrei voluto dedicargli almeno una giornata intera.
Stavo pure ingrassando, la rosticceria era la specialità di quel bar ed è il paradiso della gola, specie quand’è gratis. Cercavo di contenermi, ma poi mi dicevo che non m’importava neanche più del mio aspetto, che invece avevo sempre curato. Non era depressione o mancanza d’amor proprio, semplicemente non m’importava. Mangiare è uno dei pochi piaceri della vita e me n’erano rimasti davvero pochi. Avevo persino abbandonato il padel, erano troppe 10 euro a partita e giocare una volta ogni tanto è roba da principianti avventizi, non da praticanti fenomeni da baraccone come me e i miei amici.
Frequentavo il circolo più competitivo e patologico di Palermo, dove ci si guardava e ci si rapportava per livelli, più che per simpatie o qualità umane. Preferii smettere, piuttosto che declinare inviti, rifiutare sfide e regredire (cosa che inevitabilmente accade se non giochi con continuità); la vera verità è che preferii smettere piuttosto che frequentare i notabili palermitani e non essere più uno di loro, anzi rendermi conto di non esserlo mai stato.

A proposito di mangiare, una mattina il figlio del titolare si presentò al bar, erano da poco passate le dieci. Non era entrato a scuola, ai miei tempi questo si chiamava “buttarsela”. Frequentava il liceo scientifico, secondo anno. Non era un tipo da liceo, avevo la netta sensazione che i suoi genitori avrebbero fatto meglio a ottimizzarne le braccia anziché la testa. Non era stupido, tutt’altro. Era brillante, simpatico e un po' pacchiano, spavaldo quanto bastasse, uno dalla battuta facile, mai banale, uno che la faceva a tutti sotto il naso, che ti toglie le scarpe mentre cammini. Avrebbe potuto fare qualsiasi cosa nella vita, ma la sua pigrizia era paragonabile a quella di un messicano assonnato nel bel mezzo della siesta. Giovanni quella mattina aveva un problema. Ne aveva due, ad essere precisi. Il primo lo risolse facilmente, ingurgitando due calzoni fritti accompagnati da un chinotto … “bello freddo!”. L’altro problema era l’interrogazione di latino. Non che gl’importasse di prendere un altro 4, solo che quell’interrogazione di fine quadrimestre era l’unico possibile bonus che potesse giocarsi col padre per riavere la moto. Gliel’avevano sequestrata i suoi stessi genitori, dopo ch’era stato visto farsi su una ruota buona parte del lunghissimo e transitato “Corso Livuzza”.
Il problema (e risolverlo non era certo facile come bere il chinotto) era che lui e il latino erano due rette parallele che non si sarebbero mai incontrate. L’anno prima l’avevano graziato, il sospetto che a concedere la grazia fosse stata la manica un po' larga della scuola privata era fondato. Forse l’avrebbero graziato anche quell’anno ma, secondo la filosofia del corpo docente del liceo Don Bosco, al primo quadrimestre non si facevano sconti. Me lo spiegò lui stesso in pochissimi secondi, con quella sua lingua lesta e i vispi occhi azzurri. Quella mattina s’era presentato al bar, sicuro di non trovarci né il padre né la madre, perché aveva pur sempre il primo problema da affrontare.
Approfittando di un momento di stanca, gli diedi a parlare: “Che ci fai qua a quest’ora, Giovanni?”. Sbuffò: “Minchia, non mi dire niente, la professoressa di latino mi voleva scannare”. “L’essertela buttata non ti risolve il problema”, gli dissi con fare quasi paternale. Mi piaceva quel ragazzino. E mi piacque il modo in cui mi rispose: “Meglio illudersi di prendere 6 domani, che tornare a casa con un minchia di 4 oggi”.
Sorrisi, ilare.
E se ti ci mettessi un po'? Non sei mica scemo”. Mi guardò con una certa diffidenza. “T’aiuto io, amunì”, insistetti. “Tu! Ne capisci?”. L’idea che un cassiere di bar capisse qualcosa di latino dovette sembrargli quantomeno bizzarra e non potevo certo biasimarlo. “Ho qualche reminiscenza”, gli risposi. “Che?”. “Ricordo ancora qualcosa dei miei studi al liceo ...”. Aumentai il tono della voce.
“... Azzo, manco sai cosa vuol dire reminiscenza? Sei messo male, Giova’!”.
“Tu al liceo …”. Giovanni l’Asciutto (questo era il suo ossimorico soprannome) pronunciò mento e labbra. Non sapeva niente di me, solo che ero il nuovo cassiere del suo bar. Mi aveva sempre trattato con simpatia. Ed io, fiero: “Sì, al Classico! Picchì chi è?”. Il dialetto mi serviva ad accentuare il contrasto tra il banco del bar, dove lavoravo, e i banchi del liceo classico Vittorio Emanuele II, dove mi ero maturato. La cosa mi divertiva. L’Asciutto mantenne l’espressione di sorpresa. “Minchia! Ed eri bravo?”. “Me la cavavo”, minimizzai. “Minc …” “Minchia, sì!”, sbruffai infastidito “E in latino?”. “Me la cavavo”. S’intromise un cliente: “Un caffè e un pezzo”. “Due e cinquanta, grazie … Giovanni, allora, la vuoi una mano, sì o no?”. “Perché no? - rispose poco convinto - Aspe’, prendo il libro …”. “… No no no no no!”, aggrottai la fronte, scuotendo testa, capelli, orecchie, naso arricciato e sopracciglia strette sugli occhi. “Che è, Giuse’?”. Mi feci subito austero, inconsciamente ero già entrato nel personaggio. “No, Giovanni. Stacco alle due, fatti trovare qua, ci sediamo e studiamo”.
“Seeee … a’ minchia!”, protestò col braccio alzato. Non mi stava prendendo molto sul serio, anzi forse voleva solo sfottermi. Io invece sì, mi presi molto sul serio.
“Minchia, minchia … ma sempre sta minchia in bocca hai?”, lo sfidai sul suo stesso campo di battaglia. Lui abbozzò, non sapeva cosa rispondermi. “Lo sai che anche questa parolaccia, a te tanto cara, deriva dal latino?”. Giovanni strabuzzò gli occhi. Colpito! O almeno ci sperai. “Viene dal latino mentula, termine che indicava volgarmente il nostro organo genitale … il pisello, va”. Lui rise, io pure. E andai avanti: “Forse a sua volta derivava da mentum, il mento, o forse da mons-montis, la montagna, due termini che evocano una sporgenza. Sta di fatto che mentula è poi diventato, con le evoluzioni fonetiche del caso, la tua beneamata minchia”.
Scoppiammo entrambi in una fragorosa risata, mentre un tizio dal banco della rosticceria mi guardava ammirato. O almeno me ne illusi. Io compresi che era il momento di sferrare il colpo finale: “Alle due fatti trovare qua, ci sediamo e studiamo. O così o niente! Non possiamo studiare aggritta aggritta”.
Giovanni spense il suo sorriso guascone in un’espressione di disagio, aveva capito che facevo sul serio e che accettare il mio aiuto significava mettersi seduto e studiare. Una cosa che quasi non concepiva nemmeno. Lui aveva sempre studiato aggritta aggritta, tutti i peggiori studenti studiano nelle posizioni più improbabili: chi all’impiedi (per l’appunto), chi sdraiato per terra, chi se ne va in biblioteca, chi al parco seduto su una scomodissima panca; chi proprio non ce la fa e non fa niente. “Vabbè - fece - vediamo allora … oggi c’ho da fare”. Io insistetti, più per soddisfare il mio ego che per dissetare di cultura chi sete non aveva. Però avevo scorto in lui una scintilla di curiosità e questo non mi fece desistere: “Che da fare hai?”. Lo guardai, di nuovo paternale, sfruttando l’empatia che sin dal primo giorno s’era stabilita tra di noi: “Dedicati un po’, dai! - insistetti - Un’oretta, che vuoi che sia? Faresti pure contenti i tuoi, dai!”. Stava cedendo, glielo leggevo negli occhi; o almeno ci sperai. “Alle due ci sediamo e alle tre ci alziamo e alle tre e mezzo sei a casa”. “Alle due qua, alle tre e mezza a casa … e cu sugnu, Cenerentola!”. Questa volta rise solo lui.
“Si paga per favore?”: nel frattempo non m’ero accorto del cog*** che stava ritto davanti a me, portafogli in mano e lingua tra i denti a ripulir la bocca dai rimasugli del cornetto. Lo feci pagare, Giovanni ne approfittò e dileguossi. È inutile, pensai scrollando le spalle, lui e la scuola erano due rette parallele che non si sarebbero mai incontrate.

Le maledette lancette finalmente si posizionarono sui numeri giusti, quelli che segnavano la fine del mio turno.
Adesso però doveva arrivare la mia smonta e quella bagascia di Marzia non arrivava ancora, come al solito. Non era ritardataria, solo che probabilmente qualcuno doveva averle insegnato che si arriva sempre cinque minuti dopo. Solo cinque minuti, quanto detestavo quei cinque accademici minuti che Marzia rosicchiava alla mia indolenza! Ogni giorno era così e anche quel giorno lei sarebbe apparsa sulla porta fresca e pettinata e io, per ripassata, le avrei canticchiato una canzone che amavo tantissimo perché mi ricordava la mia infanzia, quando mi mettevo in salone ad ascoltare mio padre che all’organo la strimpellava: “Cinque minuti e un jet partirà …”. Lei avrebbe ammiccato, io le avrei sorriso e tutto sarebbe finito lì.
Quel giorno, però, alle 14 in punto qualcuno apparve alla porta del bar, ma non era Marzia ovviamente. Giovanni alla fine s’era convinto. Io ne fui sorpreso dal momento che, scintilla o non scintilla, poche ore prima mi aveva quasi mandato a quel paese. Cercai comunque di non darglielo a vedere, volevo che non considerasse, la sua, una decisione eccezionale.
Volevo impartirgli la prima lezione e cioè che mettersi seduto a studiare non è nulla di eroico, pensai che forse così gli sarebbe pesato un po' meno e forse, col tempo, lo studio sarebbe entrato dalla porta principale della sua esistenza. Forse.
Il bar Alla Zisa era sostanzialmente diviso in due ambienti, separati da una parete a vetri. Entrando, ci si trovava al cospetto di un lungo banco - caffetteria che proseguiva, a L, con il reparto della rosticceria e con quello della gelateria; la cassa stava davanti alla macchina del caffè, sulla parete di destra, subito dopo l’ingresso. All’altro ambiente, una saletta adibita alla consumazione al tavolo, si accedeva superando una vetrata, che cominciava dove finiva il lungo banco e aveva al centro un’apertura. Gli ambienti erano perciò separati e allo stesso tempo fusi in un unico grande spazio.
Ci sedemmo al tavolino più distate dal fulcro del locale, in un angolo, dove il vociare e i rumori del bar perdevano la loro sgradevole invadenza, attenuati peraltro dai vetri della saletta. La puzza di frittura invece era sempre la stessa, ma lì dentro non ci fai più caso, te ne ricordi solo quando torni a casa e togli i vestiti, impregnati di quell’olezzo che pure tanti palati ed olfatti accarezza. Accanto a noi, tre ragazzi stavano pranzando con bibite e arancine, ci guardavano un po' straniti, mentre l’Asciutto prendeva il libro e lo metteva sul tavolo. Stranito, e anche più di un po', ne fu il padre. A quell’ora Luca Malvagno era sempre al bar (nel pomeriggio pure, o questo era ciò che raccontava alla moglie). Si avvicinò, era il dipinto del volto d’un uomo che vuole spiegazioni. Lo svogliato figlio seduto al tavolo col cassiere e tra loro l’immacolato libro di latino: era probabilmente la cosa più inaspettata a cui potesse capitargli di assistere. Dare lezioni di latino al figlio del mio titolare, alla fine del mio turno alla cassa di un bar, era la cosa più inaspettata che potesse capitarmi di fare.

Il tavolino più discreto del bar, disposto nell’angolo più lontano, quasi nascosto e quasi a ridosso della toilette, divenne l’improbabile cattedra del cassiere allittrato. Così venni chiamato, prima da quelli del bar, poi da quelli della zona. E cominciarono tutti ad approcciarsi a me con la deferenza che si deve a un letterato, perché da quelle parti lo ero, proprio come un guercio tra gli orbi è re.
Giovanni migliorò sensibilmente il suo latino e, cosa per lui più importante, riconquistò la sua moto. I suoi genitori inizialmente ne furono felici, il principale mi aumentò di duecento euro lo stipendio, dopo che mi rifiutai d’essere pagato per quelle lezioni.
In zona si sparse la voce. Le lezioni seguitavano, quando l’Asciutto l’indomani aveva latino studiavamo insieme. Poi successe che studiavamo insieme tutti i giorni, non lo aiutavo solo col latino, ma anche con tutte le altre materie letterarie (di matematica e simili non avevo mai capito una mentula). Cominciò a chiamarmi “parrì” e io ne fui fiero. L’appellativo di padrino a Palermo non è cosa da poco, è un’investitura bell’e buona, che diventa sacra se sancita dal crisma della cresima, cosa che comunque accade di rado. Non sapevo se sarei mai diventato il suo padrino di cresima, ma stavo diventando importante per lui, un punto di riferimento e questo mi piaceva, m’inorgogliva, mi responsabilizzava, mi faceva sentire di nuovo importante.
Piaceva meno a Malvagno, lo percepivo. Il principale masticava amaro, dondolava tra la soddisfazione di un figlio che migliorava il suo rendimento scolastico e la frustrazione di non riuscire a trasmettergli quello che gli trasmettevo io. Non gli trasmettevo le nozioni di latino, ma la cultura dello studio. Non gl’insegnavo la perifrastica passiva, ma a non accettare passivamente le scelte degli altri. E che non si impenna con la moto.
Sua madre cominciò a farsi vedere più spesso al bar, incuriosita dal cassiere allittrato che stava aiutando il figlio (e il principale masticava amaro). Era una donna dall’aspetto gradevole, ben curata e dagli identici tratti caratteriali del figlio. Ci rimase male quando, stentoreo, le dissi che non poteva sedersi con noi. Anche Giovanni c’era rimasto male, non tollerava l’idea che a sua madre qualcuno potesse dire di no. Perciò, mi premurai di dargli una spiegazione: “Dire no è difficile, ma a volte è ciò che ci rende uomini e non dei clown. I clown dicono sempre sì. Tu cosa vuoi essere, un uomo o un circense?”. Lui mi guardò come non mi aveva mai guardato e riprendemmo a studiare la Divina Commedia.
Tutti i pomeriggi lì, dalle 14 fino a quando non si finiva. A volte facevamo sera, intervalli compresi, che pur non mancavano. A Giovanni non importava, nemmeno a me. Ci divertivamo, anche fuori dal momento - merenda a base di lingua di suocera con crema gialla; ci divertivamo a studiare. Importava, invece, alla mia collega Marzia, la quale dovette accettare di fare sempre il turno pomeridiano, non era più per la cocca del titolare e forse non era più nemmeno la sua amante o non lo era più con l’assiduità dei primi tempi. Le duecento euro al mese in più presto diventarono trecentocinquanta. Non l’ho mai saputo, ma sono convinto che fu per l’intercessione della moglie di Malvagno. Graziella mi adorava, nonostante quell’incidente diplomatico. Un sabato sera m’invitò a cena, a casa loro. Io accettai, ovviamente. Ci andai con mio figlio Francesco. Era un modo per ringraziarmi di tutto, fu in quell’occasione che mi annunciarono l’aumento dello stipendio e la promessa dell’imminente messa in regola. La cena era buona, Malvagno fu gentile, sua moglie ancor di più. Ciccio e Giovanni legarono e io constatavo come fosse un legame vero, che l’Asciutto si fosse affezionato al mio bambino e non perché era il mio bambino. Ci sarebbero state altre cene, presto sarei diventato uno di casa. Presto abbandonammo quel tavolino del bar e tutti i pomeriggi, alla fine del mio turno, mi recavo a casa dei Malvagno per studiare col loro unico figlio, con mio figlioccio. Con buona pace del principale e della sua silente idiosincrasia strisciante verso ciò che rappresentavo per il figlio.

Ebbene sì, in zona s’era sparsa la voce su un tizio, una specie di mentore, che migliorava il rendimento scolastico dei ragazzi di strada, tutti pallone, zite e motorini. Ma non era così. C’ero riuscito con l’Asciutto, certo, ma forse era stata solo fortuna o semplice intesa tra noi due; e comunque, più che da me era dipeso dalla brillantezza di quel ragazzo, che andava solo pungolato a mestiere. Il mio merito era quello d’averlo toccato nei punti giusti, a insegnare il latino non avevo alcun titolo, avevo padronanza della materia, sì, ma non abbastanza da potermi definire un insegnante o qualcosa di simile. Anzi, mi sentivo un abusivo a tutti gli effetti, quasi un impostore. Anche per questo rifiutai un’offerta di lavoro supplementare: fare doposcuola a un ragazzino di quelle parti, che andava in terza media. Non volevo che l’alone di fascino generatosi attorno a me svanisse al primo fallimento, non volevo fallire ancora, non volevo mettere all’asta la credibilità che m’ero riconquistato. Avevo paura, insomma. Il rispetto con cui di nuovo la gente mi guardava era l’insperata ultima goccia di fierezza che la vita mi aveva concesso benevolmente e non volevo sprecarla. E comunque avevo Giovanni a cui dedicarmi e il mio lavoro da cassiere, che cominciava a piacermi. Mi piaceva da matti il contrasto che impersonavo, essere il Giano Bifronte della Zisa, il cassiere allittrato. Rifiutai tuttavia non soltanto la prima, ma anche la seconda, la terza e la quarta proposta. Non avrei fatto doposcuola a nessuno e questo alla famiglia Malvagno piacque molto.
Ero diventato uno di famiglia. Anche Ciccio. Riceveva regali in continuazione e aveva in Giovanni una specie di miglior amico/mito da emulare. Gli avevo categoricamente vietato di farlo montare in moto con lui, per il resto mio figlio e mio figlioccio passavano tanto tempo insieme. Giovanni si sforzava di essere per Ciccio ciò che io ero per lui e questo, se non altro, contribuiva a sottrarlo all’ozio di ore passate in sella a quella moto, parcheggiata, con tante altre, in prossimità di qualche muretto o su qualche piazzola, a non far nulla, anzi a farsi del male col fumo e con le cazzate adolescenziali.
Andava tutto a gonfie vele, Dio era di nuovo con me. Mi ero ripreso la mia vita, o quel che ne restava. E mi ero preso pure un bi-vani in affitto, lì in zona. Andavo a trovare in miei con regolarità e ogni volta che ci andavo mettevo qualcosa nella bella giara, sotto gli occhi, finalmente fieri, di mio padre. Anche i miei genitori conobbero l’Asciutto. Per la felicità di Francesco, una domenica lo portai a pranzo da mia madre, per fargli mangiare la pasta al forno più buona dell’universo scibile. Giovanni piacque anche a loro, la pasta al forno di mia madre ovviamente piacque anche a lui.
Con la mia ex moglie le cose erano migliorate. Non l’avrei più riavuta, questo l’avevo già capito quel pomeriggio al bar, ma ne ebbi la conferma definitiva quando m’informò di essere incinta. All’inizio ci rimasi male, tuttavia fu solo la reazione compostissima e intima d’un momento. Le feci gli auguri ed ero sincero. Era giusto così, doveva andare così. Le donne non m’interessavano più di tanto. Non dico che stavo diventando asessuato, ero semplicemente concentrato su altro.
Una sera uscii con la mia ex segretaria, proprio con lei (alla fine m’ero deciso). Ottavia era una stupenda, magrissima quarantenne divorziata. Nei tre anni che aveva lavorato con me, c’eravamo intrattenuti in tutte le stanze possibili e immaginabili dell’ART. Io avevo sempre pensato che fosse attratta non tanto da me quanto dal mio ruolo di presidente e il suo silenzio di quegli ultimi mesi ne era forse la conferma. O forse no, forse semplicemente il suo silenzio era il risultato di quella ultima lite furibonda tra noi. In realtà, più che una lite, era stata una specie d’incontro di boxe unilaterale: sul ring del mio ufficio, lei a boxare, io il pungiball (perché le femmine non si toccano).
Invece, una sera mi chiamò. Quando l’avevo cercata per la faccenda di Pantano, l’avevo fatto consapevole di darle il La per riavvicinarsi. Andammo a cena fuori, senza nascondimenti e senza secondi round. Ci divertimmo, parlammo tanto, ci raccontammo, poi facemmo l’amore nel mio appartamentino ed era la prima volta che un letto accoglieva la nostra intesa sessuale. Forse, pensai, da quel talamo sarebbe potuto nascere qualcosa, ma la sensazione di mia indifferenza della mattina dopo fu sentenza. Forse ci saremmo rivisti, forse avremmo fatto ancora sesso. Ma non saremmo stati mai una coppia, di sicuro non per me.

Finì l’anno scolastico, Giovanni fu promosso e, questa volta, non per gentile concessione della scuola dalla manica larga. L’Asciutto aveva raggiunto la sufficienza in tutte le materie, in latino l’aveva addirittura oltrepassata con un bel 7 finale.
Per festeggiare, andammo in pizzeria, io, lui e Ciccio.
Francesco gli regalò la cover del telefonino, nerazzurra con lo stemma dell’Inter. Io gli regalai un orologio, il Sector. Non lo avevo comprato, avevo semplicemente riciclato un regalo, che qualche anno prima mi avevano fatto per ringraziarmi di un grosso favore, un posto di lavoro presso una società di sicurezza privata. Non ebbi il coraggio di dirglielo, lui apprezzò molto, anche se non mancò di freddarmi con una delle sue battute: “Non è un Rolex, ma grazie lo stesso” e mi diede il cinque. “Macché Rolex! - lo sfotticchiai, ridendo - U’ Rolex …”. “Troppo bello il Rolex, parrì! Cose di gente che conta”. “Ho visto grandi orologi su gente di poco polso!”, declamai, con la faccia da pesce lesso che mi mettevo quando m’esibivo in citazioni e frasi fatte. “Questa di chi è?”, mi chiese. “Di Cicerone”. “Minchia, bella!”. Lo trafissi con occhi di zucchero: “Giovanni, cabbasisi, può essere mai di Cicerone?”. Lui non mi concesse resa: “Perché, non può essere che c’erano andati gli alieni e gli avevano regalato un orologio?”. “Gli alieni, sì. Tu si’ un alieno, si’ alienatu n’tiesta”. E scoppiammo a ridere.
Poi lui tornò sulla questione: “No vero, di chi è sta frase?”. “La frase è di Lorenzo Jovanotti - gli risposi, asciugandoi la bocca ai lati, macchiati di salsa - ma non è importante di chi sia, è importante il suo significato”. Mi protesi verso di lui, comprimendo l’addome sul tavolo e lo guardai, questa volta serio: “Non ti serve un Rolex per essere qualcuno. Anzi, l’esperienza mi suggerisce che un orologio più è di marca e meno segna un tempo speso bene”. Mise la bocca a casseruola: “Questa è tua?”. “E’ mia, sì. T’è piaciuta?”. Molto - rispose, facendosi serio - ma qual è il tempo speso bene?”. “Questo dovrai scoprirlo da solo”. “In che senso?”. Giovanni si stava facendo incalzante, buon segno. Io ci misi un po' prima di rispondergli ancora, mi ero sempre sforzato di non sembrargli banale. Anzi, non gli risposi proprio.  
Lui tornò a concentrarsi sulla sua pizza e a rimuginare sulle mie parole. Io guardai il mio, di orologio, cioè quello del telefonino, sul cui display c’era l’avviso di un WathsApp: Ottavia era già a casa mia, mi aspettava. Le avevo dato le chiavi del bi-vani e forse non era stata una grande idea, perché stava diventando un po’ troppo ossessiva. Avrei dovuto aspettarmelo, era recidiva. Ciccio avrebbe dovuto dormire da me, quella sera, tuttavia non volevo fargli trovare una donna in casa. Mi sarei ripreso le chiavi dell’appartamento quanto prima, forse avrei troncato quella sera stessa. Lo ripromisi alla Coca-zero che sorseggiavo e all’immagine del posteriore di Ottavia, sodo come i cubetti di ghiaccio che sbattevano sulle mie labbra. Magari avrei troncato domani, che bisogno c’era di farlo proprio quella sera?
Finimmo di mangiare, accompagnai Ciccio a casa di mia moglie, che rabbonii con una scusa plausibile (un cambio turno al bar). Non avrebbe dormito con me, io avrei dormito con Ottavia.
Per l’ultima sera. Forse.

Continua...