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qui per la parte V 

Quand'ero bambino
Quand’ero bambino mi piaceva coricarmi sotto l’albero di Natale e portarmi col corpo indietro fino a che i miei sottili capelli non sfiorassero la parete. Con le mani fatte a cuscino e portate alla nuca, m’immergevo in quel piccolissimo mondo incantato, ricavato tra la parete stessa e gli aghi di vero abete, che si libravano quasi fino al tetto e profumavano di magia, muschio e finta neve a spruzzo. Una cascata di vita a colori s’infrangeva nel vociare dei parenti che giocavano a carte e lo inghiottiva, schiumeggiando nei mille maliardi colori della fantasia. Mi nascondevo al mondo e, di nascosto al mondo, immaginavo, pensavo, traboccavo d’immenso, mi commuovevo, sognavo.

È inspiegabile come certe cose ti rimangano appiccicate addosso per sempre. Nel momento più buio della mia esistenza s’accese il bagliore di quella meravigliosa sensazione di rimpicciolimento rassicurante che avvertivo sotto l’albero e rimasi appeso alla vita. Come le palle di Natale, ogni anno sempre le stesse, un po' meno luccicanti dell’anno prima ma sempre le stesse e sempre capaci di addobbare a festa il nostro tempo migliore.
Ero vivo, anche se consumato dai miei mille inverni e dai debiti.
Ero vivo, la più grande passione della mia vita, il calcio, mi aveva quasi ucciso, ma ero vivo.
Chiusi a chiave la porta, mi misi a letto, sotto le lenzuola, la tv accesa, l’animo in subbuglio, la testa in tilt. Ci rimasi per tutto il resto della giornata, fino a sera, fino a notte, fino all’aurora. Senza mai chiudere occhio. Mia madre venne a bussare per la cena, le risposi che avevo mal di testa. Mia madre. Mio padre, la mia famiglia. Ciccio… Non dovevo solo denaro, dovevo delle scuse e dovevo riparare.
Questa volta feci tesoro d’un altro detto di mio nonno, analfabeta più saggio di un laureato alla Bocconi: megghiu arrussicari na vuata, c’aggiainnari centu vuati. Sì, a quel punto non potevo che afferrare il toro per le corna, affrontare i miei genitori, subire mia moglie, implorare la benevolenza di mia sorella, insomma... arrossire una volta anziché impallidire cento volte.
Mi rimisi seduto alla scrivania di legno scarso, che milioni di volte aveva accolto gomiti e gomitoli di pensieri. Lì sopra c’era ancora il foglio su cui poche ore prima l’obnubilazione aveva vergato l’estrema disperazione. Lo accartocciai, sospinto dall’impulso di far scomparire per sempre la vergogna di quegli attimi smarriti. Poi però, nell’andirivieni inarrestabile dei ripensamenti, decisi di recuperarlo, lo stirai col palmo della mano e lo conservai tra le mie carte. Ancora non so perché lo feci, forse perché rimanesse traccia del fondo che avevo toccato (e tutto ciò che avrei comminato avrebbe comunque segnato una risalita) o forse perché non ero del tutto convinto di volerci ripensare; non lo so.
So soltanto che quel foglio stropicciato sta ancora lì, mischiato tra torri di carte e quadernetti e fotografie, come un personalissimo monumento al caduto.

Adesso però veniva il difficile: arrossire. E non potevano esserci ripensamenti. In realtà non fu poi così difficile. Con un certo fare solenne, l’indomani convocai tutti a casa dei miei, anche mia moglie, la quale non protestò. Angela aveva mille difetti, ma l’intelligenza non le mancava. A mia sorella invece sì, tant’è che non venne e mandò quell’idiota panzone di uno sbirro suca inchiostro. Mario gross, lo chiamavo. Ma i soprannomi che gli appioppavo erano dei più disparati, perché ce li aveva tutti lui: peso, qualità e misure. Russu malupilu era comunque la ‘nciuria più gettonata, vista la folta chioma rubina e l’indole non meno cattiva del suo alito.
Era pomeriggio, stavano tutti seduti al tavolo rettangolare del soggiorno, dove tante volte c’eravamo riuniti per consumare pantagruelici pasti e sonnecchiose ore festive. Stavano tutti in silenzio, fatta eccezione per un paio di freddure, imbarazzate e imbarazzanti, dell’idiota Mario. Nessuno aveva la più pallida idea di cosa avessi da dire, io non avevo idea di quale sarebbe stata la loro reazione. Mia madre sperava, si vedeva chiaramente. La mia ex moglie attendeva, guardinga. Mio padre era l’unica persona al mondo capace di far tacere anche i suoi pensieri. Ciccio era rimasto nella mia stanza, non volevo che assistesse.
Mi sedetti a capotavola, di fronte a mio padre. Lo guardai e gli dissi con gli occhi che almeno quella volta non sarei stato un bluff. Lui capì, perché un flebilissimo lampo di comprensione gli attraversò il volto; o almeno così mi parve.
Poi abbassai lo sguardo e non lo avrei più distolto dalle mie dita, intrecciate fino ad imbiancar le nocche.
Raccontai tutto, tutto d’un fiato: le scommesse, le mie ruberie, il mio suicidio sfiorato.
E tutti rimasero senza fiato.
Anch’io. Mi sentii di colpo svuotato come un uomo che non ha più niente e niente da perdere, leggero come il primo battito d’ali di un bruco appena diventato farfalla. Mi alzai e andai di là, a capo chino. Avevo solo voglia di stare col mio bambino e regalargli il fiato di un uomo nuovo. Passai vicino ad Angela, che incredibilmente mi mise la mano sul braccio. Un gesto fulmineo, banale, inaspettato. Fu l’unica a comunicarmi qualcosa, non so cosa fosse, forse comprensione, molto più probabilmente sadico pietismo. Non lo so, so che per un istante, per un infinitesimo istante, lei tornò ad essere la mia ragazzina e fu una dolcissima tortura.  

Un uomo nuovo, volevo essere un uomo nuovo. Lo volevo con tutta la mia anima incancrenita.
La feci finita con quel sito di scommesse. Evidentemente non ero un vero ludopatico (quelli non guariscono così facilmente, la maggior parte non guarisce mai), ero stato semplicemente un disperato alla ricerca d’una soluzione comoda. Ma non può esserci comodità in un’impresa e riprendersi in mano la propria vita, nel mezzo del suo cammino, è pressocché un’impresa. Sapevo cosa fare: dovevo lavorare, qualsiasi cosa, purché mi desse un minimo di autonomia e la possibilità di sanare i miei debiti. Ci fosse voluta anche un’eternità, li avrei pagati fino all’ultimo centesimo.
Ma prima dovetti affrontare Angela, che volle incontrarmi al solito bar del centro. Era trascorsa, sì e no, una settimana dal raduno in casa dei miei, sentivo ancora il tocco della sua mano sul mio braccio. In quei giorni c’eravamo scambiati un paio di messaggi telegrafici e abbastanza formali, quasi distaccati, perlomeno non più acidi. Questa volta si fece trovare seduta al tavolino del dehors delimitato da un gazebo in legno, era un pomeriggio di fine settembre e il sole scialbo delle 4 lasciava campo a una frescura che penetrava fin dentro le calzette. Era bella, come sempre. M’illusi che volesse tornare insieme a me, la pietà e i sensi di colpa hanno un potere enorme sulle persone, ne ero consapevole, però non m’importava. L’orgoglio era un lusso che non potevo e non volevo più permettermi.
Mi sorrise, era un buon inizio. La baciai sulla fronte e mi sedetti, mettendo entrambe le mani sulla faccia, distesa e senza corrugamenti. Sembravamo due buoni amici, forse due innamorati al primo appuntamento, forse due ex nemici che vogliono fare la pace e presto faranno l’amore. Quanto avrei voluto fare l’amore con lei! Quanto mi mancava il suo corpo! Lo conoscevo centimetro per centimetro, ne volevo ogni centimetro. Me ne ero nuovamente innamorato, o forse non avevo mai smesso di amarla.
Insomma, quel pomeriggio poteva essere il preludio d’una serata meravigliosa, come non ne trascorrevo da tempo immemore, poteva essere un secondo inizio, la fine di un incubo, il ritorno a casa.
“Come stai?”. Sorrideva, d’un sorriso imbarazzato.
“Bene. E tu?”.
“Ok”.
“Il bambino, dov’è?”.
“Da mia madre”. Per un attimo temetti che mi avrebbe risposto di averlo lasciato alla cura del suo compagno e capii quanto avessi appena rischiato di rovinare tutto e subito.
“Bene”, dissi, tanto per dire e tanto per non dire. Non ero mai stato bravo a tenere una conversazione, a differenza di lei, capace di farsi cento piani in ascensore con uno sconosciuto senza concedere un solo secondo al silenzio che cala impietoso su situazioni del genere.
Lei sorrise ancora, interpretando alla perfezione il mio disagio; del resto, anche lei mi conosceva centimetro per centimetro, neurone per neurone, battito per battito. Poi si fece seria, d’improvviso. Prese una busta dalla borsa, me la porse, facendola scivolare sul tavolino rotondo in ferro battuto.
“Cos’è?”. Pensai a qualcosa che avesse a che fare con gli avvocati. Mi rabbuiai. La aprii, nel silenzio totale di Angela. C’era un assegno. La guardai stranito, non capivo.
“Prendili, me li restituirai quando potrai”.
Avrei dovuto esserne contento, eppure un graffio al cuore mi disse chiaramente che fosse quello il motivo dell’incontro. E solo quello.
“Non c’è bisogno, non ti preocc …”.
“… Sì che c’è bisogno”. Mise la sua mano liscia sulla mia, stoppando ogni mio intento di rifiuto. Abbassai gli occhi, abbassai ogni difesa. Li presi, senza dire niente. Eccome se ne avevo bisogno! Arrivarono i due caffè, che lei aveva ordinato appena m’aveva visto arrivare.
Mi concentrai sulla mia tazzina.
Lei si concentrò su di me: “Devi rimetterti in piedi, Giu’”. Non mi chiamava così da tanto, troppo tempo.
“Non devi sentirti obbligata”, le dissi.
“No, Giuseppe no!”.
“No cosa?”.
“Non lo faccio per te e nemmeno per me. Lo faccio per nostro figlio. Non devi smettere di essere per Ciccio il padre che sei”.
Strinsi le labbra, per rinchiudere in un magone la commozione.
“Non lo fai per me …”, sorrisi sardonico. Lei capì e abbassò lo sguardo, come se nel fondo di quella tazzina imbrattata di caffè vi fosse lo spiritello della sua coscienza a suggerirle cosa dire.
“Mi dispiace - disse, di colpo asettica - ma non tornerò sui miei passi”.
“Ma quali passi! - alzai il tono della voce, riappropriandomi improvvisamente dell’orgoglio - Io non voglio che si torni indietro su nessun passo”. Angela non raccolse la provocazione d’uno sconfitto che cerca a tutti i costi di uscirne a testa alta.
Rimise la mano sul dorso della mia. “Io ti ho amato, ma è finita. E Non è colpa di nessuno”.
“E’ colpa tua!”, non resistetti.
Nemmeno lei. Si alzò, mi accarezzò sul mento e se ne andò. Senza acrimonia, senza sentimento. Ancora una volta mi lasciò lì, da solo, con una miriade di sensazioni contrastanti. E con una busta contenente un assegno da diecimila euro. Già, in effetti non fu proprio come la volta scorsa.

Quello stesso pomeriggio, subito dopo l'incontro con la mia ex moglie, mi recai nel mio quartiere d’origine, non ci mettevo piede da un sacco di tempo. Letteralmente non ci misi piede neanche quella volta, perché rimasi in auto, gironzolando per le strade e le viuzze di Villa Tasca.
La chiesa, il campetto dove da bambino giocavo partite infinite, il viale alberato, i negozi, quelli storici e alcuni nuovi, i palazzi verdognoli che nelle mattine assolate s’ingiallivano maculandosi di ombre, i box semibui e misteriosi a cui accedevamo da cancelli mai troppo alti e mai troppo chiusi per le nostre adolescenziali scorribande, i marciapiedi segnati da miliardi d’invisibili impronte, la scuola elementare, il moto calmo della gente, le facce sconosciute e quelle familiari rigate dagli anni…
Passai in rassegna quei posti, osservandoli dall’auto, che conducevo a passo lento, come se sfogliassi le pagine d’un diario che non avevo mai scritto. Mi soffermai soltanto davanti alla mia prima casa, un reducesse che dava su un’anonima stradina seminascosta, col portoncino in legno scorticato e la finestra della cucina, alla quale restavo affacciato per ore, salutando ogni persona che passava di là e mangiando biscotti ammorbiditi con l’acqua. Per il resto, fu un giro abbastanza rapido, durò una quindicina d’intensi minuti. Non volevo che qualcuno mi riconoscesse e mi costringesse a fermarmi, scendere dall’auto, salutarlo e indugiare in un’inutile chiacchierata tra vecchie conoscenze macerate dal tempo. Non volevo che qualcuno rovinasse la camminata tra i corridoi vuoti del mio passato migliore. Erano i posti di quand’ero bambino, di quand’ero felice. Francesco meritava la stessa felicità.

La felicità per Ciccio era andare allo stadio. Quello stesso giorno, di sera, giocava il Palermo, partita di coppa Italia, contro la Triestina.
Può sembrare strano, ma anche questo, per certi versi, era un alito di nostalgia che il passato sbuffava sul mio umore. Assurdo come un qualcosa di assolutamente banale possa, in un momento particolare della vita, bussare alla porta della tua percezione e presentarsi come una parte di te che riaffiora. Sto parlando della Triestina, sì. Mentre compravo i biglietti dello stadio, a un Tabacchi non distante dal mio quartiere d’origine, pensavo alle figurine Panini e a quanto mi piacevano quelle a coppia, cioè ritraenti i giocatori in tandem: una diminutio per i calciatori della serie B, che a me però pareva un vezzo, mi piaceva. "Ce l’ho, mi manca" … avrei dato un braccio per vivere un altro solo istante di quella spensieratezza. La Triestina in particolare mi aveva sempre affascinato, probabilmente per via dell’alabarda, simbolo ben evidente nelle figurine che (capitomboli mentali d’un bambino) evocava in me quella spaziale di Goldrake, declamata con voce echeggiante dal mitico Actarus. Magari ne avrei condiviso il ricordo con mio figlio, i cui eroi, ahimè, erano strillanti youtuber che giocavano a Fortnite.

Quella sera andammo allo stadio, a Ciccio concessi la gradinata superiore: lui sarebbe voluto andare in curva nord, io gli spiegai che non era il caso di mischiarsi nel caos del tifo più caldo e derubricai la querelle col più proverbiale dei “appena sarai più grande”.
Mi augurai solo che quando sarebbe stato più grande avrebbe voluto, e potuto, la tribuna. La tribuna! Che poteva saperne, Ciccio, di quanto già mi pesasse la soluzione mediana della gradinata, io che per anni ero andato sempre e solo in tribuna vip e senza nemmeno spendere un centesimo? Quella tribuna adesso era davanti a me, ci separavano un campo di calcio, gradoni, vetrate ed inferriate e uno status che non era più il mio. La Palermo che conta era tutta lì, non tutti erano lì per tifare, per diversi era solo apparire, ma erano tutti lì. Io un tempo sarei stato lì. Non potei non pensarci. Ma non volevo farmi incupire anche da questo, mi sforzai perciò di concentrarmi su mio figlio; e sulla partita.
Il Palermo vinse con un rotondo 3-0. Forse era un buon auspicio. Forse in tribuna, un giorno, ci sarei tornato. Sì, quella doveva proprio essere una sera all’insegna dell’ottimismo.
Lo lasciai fare, del resto concedersi ad esso non costa nulla, se non il rischio dell’illusione, che tuttavia uno come me, in quel momento, non poteva affatto correre.
A correre era invece il tempo, dovevo trovare un lavoro e ritrovare un certo equilibrio smarrito.
"Ci penserò domani", canticchiai tra me e me alla maniera dei Pooh, mentre uscivamo dalla stadio.

Continua...