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La strada senza uscite
'A’ schrata è ri cu sa pigghia!', la strada è di chi se la prende. Uno dei tanti slogan utilizzati dai borgatari più incalliti e perincritati, affascinati da Il capo dei capi, una vecchia fiction che fece del mafioso per antonomasia una specie d’eroe per bulli e pupazzi di strada.
Già... la strada. La strada è di chi se la prende: è ciò che anch’io ho sempre pensato e invero mai praticato, ciò che mio padre aveva sempre cercato d’insegnarmi. La tenacia, la determinazione, il merito. Tutte minchiate. La tenacia non mi era mai mancata, la determinazione nemmeno, il merito idem, visto che il mondo che avrei voluto scalare era popolato di spietati arruffatori di voti che il congiuntivo non sapevano coniugare; eppure, erano ancora lì e scalavano posizioni, mentre io ero ormai irrimediabilmente precipitato nel precipizio del mio precipuo prenderla sempre in quel preciso posto.
Ma forse aveva ragione mio padre e pure l’attore Claudio Gioè in versione Totò Riina: a’ schrata è ri cu sa pigghia e io semplicemente non ne ero stato capace, forse avevo sopravvalutato i miei meriti, mentre tenacia e determinazione non sono certo la rabbia e la fame.
Ad ogni modo, strada per strada, io ero di nuovo in mezzo alla strada. Una strada dalla pece rovente, piena di buche, curve a gomito e apparentemente senza fine.
Davanti a me avevo due strade (tanto per restare in tema): o cercare d’impormi quella cattiveria e fame che non avevo mai avuto oppure arrendermi alla mia arrendevolezza e aspettare che succedesse qualcosa.
Scelsi la seconda, ovviamente. Ero accidioso come non mai, fragile, piagnucolone, impigrito dalla sfortuna, miserabile vittimista. Una cosa inutile: anche questo mio padre mi aveva ripetuto centinaia di volte, forse nel tentativo, ogni volta, di stimolare in me una qualche reazione; solo che la sua crudezza adesso era crudeltà e quelle parole, a cui avevo sempre destinato un sorriso esorcizzante, in quel periodo bastardo della mai vita bastarda avevano su di me un effetto sconquassante. E mi rifugiavo nella mia cameretta, sempre più solo et meno pensoso. Il rewind della mia vita mi aveva ricondotto a casa dei miei. Alle ore dedicate a mio figlio. Agli sberleffi venefici di Angela. Alla depressione.
Piangevo. Ascoltavo musica e piangevo. Guardavo un film e piangevo. Rileggevo i miei vecchi discorsi, scritti a penna su dei fogli posticci, e piangevo. Mi riguardavo su You Tube e piangevo. E non facevo nulla. Passavano i giorni nell’inedia d’un amaro far nulla. Continuavo a scrivere questa storia, con meno voglia però. Preferivo perdere tempo a postare aforismi sul mio account farlocco di Facebook, trasformandomi sostanzialmente in uno di quei tuttologi avidi di like, che avevo sempre dileggiato con studiata noncuranza.  

Proprio da Facebook avevo appreso dell’arresto dei coniugi Leotta, a meno di un mese da quel giorno infausto. Se n’erano andati a Nova Gorica, a spendere soldi al Casinò e a godersi la vita, nascosti al mondo da false identità e approssimativi cambiamenti d’aspetto (Pino s’era fatto biondo, la sua vita e lui adesso mi apparivano come una tragicommedia).
Con mia enorme sorpresa, lessi anche dell’arresto dei coniugi Prester. Carlo Prester era un commerciante di pietre preziose molto conosciuto nel suo ambiente. Era venuto a Palermo per acquistare da Pino una partita di diamanti rubati e aveva pensato bene di nascondersi alla luce del sole, venendo in vacanza a Palermo con la famiglia. C’era andata di mezzo pure la moglie, rea di aver contribuito, quella notte, alla fuga di Cinzia Mannino. Alla fine, i coniugi Leotta avevano cantato come usignoli in calore, presumibilmente dietro la promessa di un qualche sconto di pena. Io ero stato saggio, quella sera, a dire tutta la verità, nient’altro che la verità. Mi chiedevo solo, e sarebbe stato un chiodo fisso, se dalle bocche spalancate dei due coniugi spaccaossa fosse in qualche modo emerso che io e lei eravamo stati insieme. Insomma, Pino sapeva che m’ero fatta sua moglie? (lui l’avrebbe detta così, nuda, volgare e cruda). Quanti anni gli avrebbero dato? Cinque, dieci? Prima o poi sarebbe uscito. Sapeva qualcosa? Probabilmente no, anche lei aveva solo da perderci. “Probabilmente” però non è “sicuramente”, alla semantica io ho sempre dato il giusto peso e quel “probabilmente no”, con cui chiudevo il cerchio infuocato dei miei ragionamenti in merito, pesava sulle mie paure come un macigno su una formica. Mi sforzai di non pensarci e andai avanti. Anzi, non andai proprio da nessuna parte, mi chiusi in casa e mi dedicai alla mia nuova, staticissima, comodissima e pericolosissima attività.  

La noia. La sventura d’un uomo che si mette davanti a un computer è la noia. La sventura diventa rovina, se quell’uomo lì è un quarantasettenne (erano quarantasette) senza arte né parte e senza un lavoro.
Mi diedi alle scommesse on line. Amavo il calcio da sempre, mi ammorbai con un sito di scommesse dov’è possibile puntare o essere il banco. Non ero mai stato uno scommettitore, perciò architettai un metodo per vincere 50 euro al giorno: scommettere sulla stessa tipologia d’evento, l’over 2,5 (vale a dire la realizzazione complessiva di almeno tre gol nella stessa partita) e aumentare la puntata fino a quando non la prendevo, guadagnandoci. Era statistica e statisticamente la prendi sempre, in quel posto lì. Era la scoperta della pietra filosofale per una vita di dolce far nulla e stipendio sicuro. Fu la mia rovina, la strada senza uscite. 
Cominciai un sabato mattina, me lo ricordo bene perché il palinsesto era ricco sin dalle prime ore del giorno. È incredibile la moltitudine di eventi calcistici su cui è possibile scommettere, d’Estate come d’Inverno. Insomma, collegarsi a un sito di scommesse sportive per un giocatore vizioso è come festeggiare il compleanno di un cocainomane in astinenza con una torta al gusto di panna e cocaina; e non una volta l’anno, ma ogni giorno. Caricai sul conto 500 euro, cominciai a scommettere su squadre sconosciute di campionati sperduti. La prima scommessa la piazzai che erano le 8 del mattino, mi ritrovai alla sera con un positivo di 52 euro. Ne fui felice, bastava farlo ogni giorno senza farsi prendere la mano ed era fatta.
Ma al terzo giorno la mia resurrezione tramontò col primo incredibile filotto negativo e la mia cieca fiducia nella statistica vacillò: inanellai sei scommesse perse di fila, il conto si prosciugò inesorabilmente. Pensai tuttavia che la statistica è statistica, perciò caricai duemila euro e li scommisi tutti sul primo evento disponibile: scommessa presa, avevo ragione io, prima o poi l’over 2,5 esce sempre. Proseguii per un altro paio di giorni, avevo già guadagnato circa trecento euro. Rimaneva la paura per quelle duemila euro che avevo puntato in una sola volta, ma la cosa funzionava. Continuai.
Non uscivo da casa da una settimana, ero completamente soggiogato dalle maliarde lusinghe d’un guadagno facile e legale. Ciccio non lo vedevo da un po', avevo preso la scusa di una febbre, non volevo che mi vedesse dedito al gioco, non avrei mai rinunciato ad essere un esempio per lui.
La scusa bastò a tenerlo lontano da casa dei miei per il weekend successivo, un tranquillo weekend calcistico che per me fu di paura. Era domenica, un altro filotto di stramaledetti over 2,5 mancati.
Persi tutto, circa 3000 euro.
Dovevo recuperare.
Quello zero nel conto di gioco era un cerchio che si stringeva al mio collo, mancava poco per un cappio e una trave. Mi servivano, sì e no, 4500 euro, per riprendere i miei soldi e realizzare il solito guadagno giornaliero. Avevo già inanellato ben sei scommesse perdute, la statistica non poteva tradirmi, prima o poi l’over 2,5 sarebbe uscito per forza. Ma quando? Questo era il problema. Non avevo tutti quei soldi a disposizione, mi occorreva reperirne almeno mille.
Andai di là, nel posto dove mia mamma conservava la sua postepay. Non era la prima volta che la utilizzavo io, qualche settimana prima l’avevo chiesta per comprare un libro su Amazon. La usai di nuovo, ma questa volta di nascosto.
Puntai tutto, incredibilmente coraggioso, incommensurabilmente stupido. Scommessa persa. Mi crollò il mondo addosso.
Nell’arco di una settimana, e in poche ore, avevo bruciato circa ottomila euro.
Ricordai le parole di mio nonno, grande giocatore di carte: “Un mi scantu ca pieiddi, mi scantu ca ti vo’ rifari”. Verità assoluta: la rovina di ogni giocatore non è il fatto di perdere, bensì il fatto di volersi rifare e la cosa assurda è che ogni povero cristo scommettitore ne ha piena consapevolezza.
Quelle parole mi ronzavano nella testa come tanti grilli strillanti, ma ovviamente non ne feci tesoro, ormai quella torta alla cocaina dovevo divorarla tutta, fino a divorare la mia stessa esistenza.
Decisi di continuare, ma di cambiare metodo, avrei bancato sugli esiti finali, scegliendo squadre nettamente favorite. Quota di rischio alta, ma rischio minimo. Funzionerà, mi dissi. Prima, però, dovevo trovare dei soldi, tanti soldi, considerato che avevo già una grossa perdita da recuperare. Dai miei genitori ottenni tremila euro, con la scusa di dover saldare il debito con l’avvocato, il che spostava il focus della colpevolezza su Angela, che mi aveva lasciato solo e in un mare di guai. Comunque, me ne servivano di più, per questo chiamai Aurelio Pantano e vendetti per sempre la mia anima al diavolo.
Aurelio Pantano mi era devoto più che a Santa Rosalia.
Gli avevo sistemato il figlio: contratto a tempo determinato, attraverso un’agenzia interinale, come autista dell’ART, l’azienda regionale dei trasporti, di cui ero stato presidente (il mio ultimo incarico, prima d’esser divorato dal mio personalissimo Ugolino). Non era la sistemazione della vita, perché per legge dopo due anni, e due rinnovi, il contratto non era più rinnovabile e l’agenzia non assumeva a tempo indeterminato. Tuttavia, dalle nostre parti è vulgata assiomatica che: “Il grosso è entrare, poi si vede ...”. Quel “poi si vede” vuol dire tutto e non vuol dire niente, vuol dire votarsi a Santa Rosalia e a qualche altro santo in giacca e cravatta. Per noi palermitani, le leggi e le procedure non conteranno mai quanto un santo che suda. Per il buon Aurelio Pantano, pensionato, casa in affitto, vita di stenti e due figli senza prospettive, ero io quel santo. Vedere suo figlio alla guida di un bus con la scritta ART sulla fiancata era un miracolo e … “fra due anni ci pensa u’ Signuri e l’amico nostro” (o “poi si vede”, se preferite).
Chiesi alla mia ex segretaria notizie sul contratto del figlio. Ottavia (proprio lei) mi rispose al primo squillo e fu anche solerte nel darmi la risposta che volevo: il contratto sarebbe scaduto da lì a quattro mesi. Ottimo, pensai. Ricordai la totale e incondizionata devozione di quell’uomo, la sua prostrazione, la sua totale sottomissione. Pantano avrebbe ucciso per me, se solo fosse stato capace di far male a una mosca. Quando il figlio mezzo scemo era stato chiamato a firmare il contratto, lui era venuto a trovarmi in segreteria. Abbandonando la reverenza e le formalità da educanda dell’Ottocento, che sempre lo avevano accompagnato nei lunghi pomeriggi passati dietro la mia porta, l’aveva aperta scavalcando il filtro di Ottavia e m’era venuto incontro con le lacrime agli occhi; se non lo avessi fermato, mi avrebbe baciato le mani e non so quante volte mi aveva detto che potevo chiedergli qualsiasi cosa. Allora ero un idealista, gli avevo risposto che non mi doveva nulla, che la sua amicizia e la consapevolezza di avere aiutato un padre di famiglia mi ripagavano di tutto.
Fandonie! Il principio è dei ricchi, di sicuro non alberga nel cuore di un ludopatico, perché il cuore di un ludopatico è nero come il carbone. Insomma, avevo bisogno di soldi.
Lo chiamai, lo incontrai per strada, al Piazzale Giotto, facendogli così intuire che si trattava di una questione delicatissima. Il modo in cui mi salutò mi riportò indietro nel tempo, per un frammento di momento mi sentii il vecchio Giuseppe Mendola e la nostalgia alitò violentemente sul mio animo.
Ma stavo per perdere la statura morale che m’ero costruito nel tempo e il solo pensiero mi fece ripiombare nella cruda realtà d’un fallito che ha bisogno di soldi per giocarseli.
“Tuo figlio rischia …”, andai subito al dunque. Il povero Pantano sbiancò e non disse nulla, ma la luce di docile impotenza che gli attraversò lo sguardo urlò per lui.
Io lo rassicurai immantinente: “… Tranquillo, sono rimasto in buoni rapporti col direttore generale, però …”, abbozzai una smorfia che, accompagnata a due spalle allargate, sottolineava la necessità di fare qualcosa, anche se non mi piaceva.
Pantano capì al volo: “… Non c’è problema, dottore. Quello che c’è da fare lo facciamo”. Mi studiò, aggrottando la fronte, poi la domanda fatidica: “Quantu c’iama ddari?”. Mi guardai intorno, ero sì a disagio, ma non quanto mi sforzai di manifestare: “La richiesta è di cinquemila euro, ma io gliene porto tre e s’accorda, non ti preoccupare”. A farmi sentire più sporco delle fogne scarafaggiose di Caracas non fu tanto il fatto d’aver rinnegato me stesso e tutto ciò in cui avevo sempre creduto e neppure la consapevolezza che stessi commettendo un grave reato, quanto il modo in cui, con quegli occhi innocenti e con quella purezza sempliciona, Aurelio Pantano mi ringraziò. Quel pover’uomo, che avrebbe dovuto fare i salti mortali per racimolare la cifra richiesta, mi ringraziò.
Ma fu un attimo, perché subito il turbinio della mia mente si sintonizzò con quel sito e con quello che dovevo fare; anzi, quasi mi pentii di non avergli chiesto di più. Ovviamente non avrei potuto intercedere con nessuno, perché ormai non ero più nessuno, non mi rimaneva che sperare nella buona sorte del ragazzo guidatore di autobus e in Ottavia, a cui avrei chiesto di sbattere le ciglia e intercedere col direttore per il mezzo scemo.  

Avevo di nuovo del denaro, potevo farmi un’altra volta. E, come le altre volte, l’ineluttabile destino del giocatore si compì.
Giusto il tempo di assaporare la torta e l’overdose si abbatté sulle mie illusioni. Quello zero sul conto si strinse ulteriormente al mio collo di gallina, uno strozzino era già pronto a tirarlo. Con la disperazione disegnata sul mio viso emaciato e irsuto, mi rivolsi a Marco. Non conoscevo il suo cognome e non sapevo nulla di lui, solo che se la faceva in un bar di Piazza don Bosco e che faceva il freelance per una discutibile società finanziaria, di cui sapevo ancor meno che di Marco, però sapevo che prestavano soldi con una certa disinvoltura, bastava una busta-paga o, nel mio caso, la pensione di mio padre, la cui documentazione non mi risultò difficile da reperire.
Diecimila euro, a un tasso folle. Ma avevo diecimila euro.
Li caricai nel conto gioco, nessuno mi fermava, nessuno sapeva. Nemmeno mia madre se n’era accorta: le mie ore davanti al computer erano apparentemente spese per la scrittura di questa storia, il mio nervosismo inconsueto era ascritto alla situazione che stavo vivendo, il mio fisico smagrito (mangiavo poco e male) era il frutto dell’inquietudine.
Piangeva mia mamma, piangeva tanto, sebbene non immaginasse in quale cerchio dell’inferno suo figlio fosse realmente precipitato. Quanto a mio padre, il mutismo era sempre stata la sua unica opzione.

Ero pronto ad un’altra abbuffata di torta alla cocaina. Prima, però, mi concessi un pomeriggio con Ciccio, andammo al mare, odiavo il mare. Poi in pizzeria, amavo la pizza. Passai delle ore piacevoli, ed era parecchio tempo che non accadeva. Ma il pensiero di quel conto di gioco nuovamente rimpinguato andava e veniva. Erano intervalli d’euforia e disagio, che avrebbero dovuto aprirmi la mente, ma un ludopatico non ha bisogno di qualcosa che gli apra la mente, avrebbe bisogno di qualcuno che gli spacchi la testa in due.
In due mi si spaccò il cuore, invece, quando Ciccio m’abbracciò chiedendomi: “Ci vediamo domani? Non voglio stare da mamma, quel Renato non lo sopporto… sto coglione!”. “Ci’ … dai!”: lo redarguii per la parolaccia, godetti intensamente della sua idiosincrasia verso il nuovo compagno di Angela, arsi di rabbia al pensiero che un altro uomo dormisse sotto lo stesso tetto di mio figlio e dividesse con lui ore della giornata.
La consapevolezza che questo tizio esistesse già prima della separazione mi lasciava del tutto indifferente, sebbene il retrogusto del vittimismo mi piacesse, mi faceva sentire ancor di più in credito con la vita.
Ciccio insistette, con quella faccia tonda da coniglietto supplice che annichiliva. Non sapevo cosa rispondergli, non potevo portarlo con me. Angela non avrebbe protestato, anzi. Il fatto è che non mi sentivo degno, ero l’esatto contrario di ciò che dev’essere un padre e il pensiero che Renato Salemi, medico al Policlinico, potesse rappresentare per il mio Ciccio quell’esempio mi uccideva dentro. Ero un ludopatico, ero sull’orlo del baratro.
E il baratro m’inghiottì, quando persi nuovamente tutto. Ero perso, ero solo, ero finito. Dovevo soldi a Dio e a tutto il mondo. C’era una sola cosa che poteva salvarmi: la bella giara.

In casa dei miei c’era un salvadanaio, un enorme giara di terracotta con una feritoia in alto, dalla quale transitavano monete da 1 e 2 euro. Era stata messa lì, all’ingresso, il giorno della nascita di Roberto, il primo dei due figli di mia sorella Ludovica. L’ubicazione non era casuale, mio padre aveva simpaticamente stabilito la regola del pedaggio: l’ingresso in casa Mendola costava l’introduzione di almeno una moneta; Ciccio era uno dei più ligi, questa cosa del pedaggio lo divertiva da matti. La chiamavamo “la bella giara” e un giorno, quando la sua pancia sarebbe stata ricolma, l’avremmo rotta e ne avrebbero goduto i tre nipoti.
Su’ pi’ picciriddi!”: era l’anatema dei miei genitori contro gli sporadici tentativi di rompere gl’indugi e rompere la giara, che affioravano dalla mente contorta di quell’arpia di mia sorella, quando si trovava a dover affrontare una qualche inutile spesa che l’inutile marito, poliziotto squattrinato, declinava dietro il più classico dei “per ora non può essere”.
Quei soldi erano dei bambini e non si toccavano, per nessuna ragione al mondo. La bella giara esisteva da undici anni, mancava davvero poco perché tra i suoi cocci si potesse finalmente raccogliere la messe agognata. Non avevo la più pallida idea di quanto ci fosse in quel ventre ampolloso, ma la cosa non faceva differenza. Era l’ultima spiaggia d’un naufragio ormai scritto ma che mi rifiutavo di leggere, dovevo tentare e dovevo fare in modo che nessuno se ne accorgesse.
Se chi commercia col denaro pubblico è un ladro di cose sacre (citazione con cui tante volte m’ero fatto la bocca), chi ruba i soldi dei picciriddi è il rituffo della melma delle fogne di Caracas di cui sopra. Avevo un bisogno estremo di quei soldi e avevo lo stesso bisogno di celare il furto.
Escogitai un piano, tanto semplice quanto diabolico, e sperimentai come l’ingegno di un ludopatico in cerca di danaro è aguzzo più di quello d’un famelico digiuno da tre giorni.
Andai al mare con Ciccio e, con la scusa farfugliata di dover fare un esperimento, raccolsi una quantità indefinibile di piccole pietre, che portai a casa, contenute in un sacchetto di plastica e ben nascoste nella mia stanza, dove ero sempre più solo et molto pensoso. Dovettero trascorrere due giorni perché potessi attuare il piano, dovetti attendere il giorno della spesa.
Una volta a settimana mamma e papà uscivano insieme a fare la spesa, era un rito che si rinnovava da quarant’anni e più. Avevo la mattinata tutta per me. Capovolsi il grosso salvadanaio e feci uscire tutte le monete, sfidando l’ingorgo con un cucchiaino da caffè, che infilavo e sfilavo dalla feritoia affinché la bella giara vomitasse soldi e svuotasse la sua pancia. Poi, ci misi dentro le pietrine che avevo raccolto al mare e il gioco fu fatto.
E io tornai a farmi di gioco. Questa volta ero straconvinto che avrei prevalso su quel maledetto sito, sui numeri, sul caso, sulla statistica e sulla mia disperazione. Niente calcio, meglio la roulette. Metodo infallibile: puntare sempre sul rosso fino a quando non sarebbe uscito.
La bella giara aveva partorito milletrecento e cinquantotto euro, li caricai tutti, neppure mi preoccupai di lasciarvi qualche moneta che, mescolata al pietrisco, assicurasse il tintinnio alle future introduzioni.
Funzionò: giocate da un euro a raddoppiare, fino al solito guadagno giornaliero.
Funzionò, sì, fino a quando ben undici neri consecutivi trasformarono il gioco in una tragica roulette russa. Un colpo alla tempia, mortale, definitivo. Il suicidio era compiuto. Avevo ammazzato la mia anima, decisi di ammazzarmi per davvero.
E di lasciar testimonianza tra le righe di questa storia, lasciata a metà.
E lasciare una lettera d’addio.

«L’estate è finita, arriva l’autunno, cadono le foglie, cado anch’io.
Non c’è ragione né ragionevolezza, soltanto l’impossibilità di andare avanti senza guardarsi continuamente indietro e inciampare ad ogni ostacolo che la vita mi frapporrà.
Ho fallito. Ho fallito come figlio, come marito, come padre. Sono l’eterno giovane con un futuro roseo alle spalle.

Mi ero messo su questo foglio con l’intenzione di scrivere una lunga lettera d’addio, ma a cosa servirebbe? Serve solo chiedervi scusa.
E dirvi che vi amo.

Ci’, perdonami! Vedrai, passerà. Vivi al massimo, fallo per me».

 

Continua?