“Il primo gennaio del 1943 incontrai un amico
e ci scambiammo melanconici auguri. Questo anno
comincia di venerdì – mi disse- e per di più c’è la cometa”
(da Roma 1943 di Paolo Monelli)

Roma, novembre 1943. E’ una mattinata fresca, luminosa, con il sole già alto in cielo. Una di quelle giornate che solo la Città Eterna sa regalare ai suoi abitanti. In Piazza Adriana, dietro Castel Sant’Angelo, si sentono solo i passi frettolosi e cauti dei romani che si recano al lavoro e il netturbino che, con la sua scopa di saggina, tira via qualche cartaccia.
All’improvviso, come ad un  segnale convenuto, la scena si svuota, non si ode più nulla.
Su questo  scorcio di Roma, nel cuore di Prati, al crocevia di eleganti strade circondate da palazzi in stile umbertino, villini e importanti monumenti, cala un silenzio cupo, presago di qualche triste evento. Non si vede più nessuno. Una scena metafisica, come in un quadro di De Chirico. Dapprima un rombo cupo di motore e, dopo qualche istante, uno stridio di freni, un suono lugubre che mette angoscia. E’ una vettura tedesca, preceduta da un sidecar, con due soldati a bordo. Si fermano davanti al portone di un elegante stabile. Ordini concitati, urla gutturali e dall’auto scendono due agenti in borghese, indossano lunghi impermeabili di pelle nera. Non ci si può sbagliare: Gestapo!
Il portiere, appena li vede, capisce chi sono. Si leva il berretto e chiede:
-Buongiorno, chi desiderano?
- Dottor Barassi prego.
-Non c’è nessuno in casa ma…
- Quale piano per favore…
-Terzo piano se volete vi…
- No…rimanga qui.
I due salgono uno a piedi e l’altro in ascensore. Arrivati al 3° piano cominciano a bussare e a scampanellare come forsennati. Nessuna risposta. Se ne vanno seccatissimi e senza dire una parola.

IL GIORNO DOPO
Il portiere, di buon mattino, bussa alla porta del Dottor Barassi.
-Buongiorno commendatò… guardi che so' venuti due da Gestapo e cercavano de lei.
- Quando?
- Ieri
- Non ti hanno detto cosa volevano?
- No… commendatò. Se ne so annati senza dire una parola.
Congedato e ringraziato il portiere, il dott. Barassi sente nuovamente il trillo del campanello. Apre, con un certo timore, e sulla porta c’è un dirigente della Federcalcio.
-Ciao Ottorino…scusami per l’ora, ma sono venuto a dirti che ieri sono venuti in sede due della Gestapo…
- Ancora! Ma che volevano?
- Volevano sapere dove fosse la Coppa del Mondo…
-E tu che gli hai detto?
-Che non ne sapevo nulla..
-E poi?
-Sai come sono... hanno girato in lungo e largo per gli uffici, aperto tutte le porte, guardato negli armadi. Alla fine se ne sono andati e guarda che erano furiosi.

IL CONTESTO STORICO
Collochiamo la vicenda nel suo contesto storico.
Il 1943  - ha scritto lo storico Lucio Villari - è forse la data veramente problematica di tutta la nostra storia come nazione. E’ l’anno in cui l’Italia si mostra finalmente com'è e fa prevedere come sarà. Nel 1943 è contenuto infatti il tempo politico, culturale, psicologico delle tante crisi italiane”.
In quell’anno accadde di tutto. Il 10 luglio gli Alleati sbarcarono in Sicilia; il 19 luglio Roma subì un bombardamento pesantissimo: il 25 luglio la caduta di Mussolini; l’8 settembre l’Italia si arrese e chiese l’armistizio agli Alleati e, nello stesso mese in cui si svolge la storia che stiamo raccontando, -il 16 novembre- ci fu la deportazione degli Ebrei di Roma. Sono date che segnano il destino di un  paese e rimangono impresse nella memoria e nella coscienza collettiva.
A questo proposito, consentiteci di riportare il passo più toccante e struggente di Roma 1943 di Paolo Monelli.
Vedemmo questi romani, che ci erano apparsi brulicanti e clamorosi nei poveri mercati, per le vie gremite, queruli e litigiosi nelle file, nei tranvai stipati, ovunque li ammucchiasse la squallida miseria quotidiana, subire le offese mortali con una fierezza malinconica e austera, li vedemmo frugare tra le case distrutte, cercare i famigliari scomparsi, non si vedeva un viso stravolto, non si udivano imprecazioni né lamenti, non brillavano lacrime. Paziente dignità della gente nostra, che la sventura rivela”.

1928, NASCITA DEI MONDIALI
Perché i tedeschi cercavano la Coppa del Mondo? Dissolvenza, come nei migliori film ad alta suspense e spostiamoci indietro nel tempo.
29 maggio 1928, siamo ad Amsterdam, dove si svolge una riunione della Federation International de Football. Presiede la riunione Jules Rimet, francese, avvocato, grande appassionato di calcio. Alla fine dei lavori si decide di organizzare una competizione per nazionali, in sostanza il primo Mondiale che si disputerà due anni dopo, su proposta di Henry Delaunay, il cui nome è è legato sia alla nascita del campionato europeo di calcio che al suo trofeo. Questo dirigente francese fu il primo segretario generale dell’UEFA e l’ideatore degli Europei, che pensò alla fine degli anni ’20 e divenne realtà soltanto dopo la sua morte. Con Jules Rimet è stato il dirigente sportivo che ha creato il calcio moderno e internazionale. Rimet sosteneva la tesi che il calcio potesse essere professionismo e che quindi le Olimpiadi non bastavano. Ci voleva un Mondiale, tanto più che il CIO non amava il professionismo e stava lavorando per escludere il calcio dai Giochi Olimpici, cosa che, peraltro, poi avvenne. Per la realizzazione della Coppa venne ingaggiato Abel Lafleur, orafo di scuola Cartier. Realizzò una coppa di 30 centimetri, piedistallo di marmo, 3.800 grammi. Scelse l’effigie di una vittoria alata che regge una coppa di un chilo e ottocento grammi d’argento e oro 18 carati su base ottagonale di marmo tempestata di lapislazzuli. Il nome della neonata coppa è Victory. Il primo mondiale si svolgerà, nel 1930, in Uruguay e se lo aggiudicheranno proprio i padroni di casa.

OTTORINO BARASSI
E’ giunto il momento di fare entrare in scena il protagonista di questa nostra storia. Ottorino Barassi. Era il segretario della FIGC. Nato a Napoli vi rimase per poco tempo.  
Suo padre, colonnello di artiglieria, venne trasferito a Cremona e qui trascorse la sua gioventù. Giocò a calcio nell’Unitas. Combattè nella prima Guerra Mondiale. Si laureò in Ingegneria elettrotecnica. Frequentò il corso arbitri e divenne anche corrispondente de La Provincia. Venne eletto vice-presidente dell’Associazione Arbitri. Successivamente entrò nella Federcalcio. Grazie alla sua preparazione arrivò, velocemente, ai vertici dirigenziali. Fu incaricato di organizzare il Mondiale ’34 di Roma. Lo vinse l’Italia è come da consuetudine tenne la Coppa fino al prossimo campionato.
Nel ’38 si giocò in Francia. La nazionale di Vittorio Pozzo bissò il successo di Roma. La Victory dunque rimarrà in Italia fino al prossimo torneo mondiale fissato per il 1942. Non si disputerà, ovviamente, perché, in quell’anno, il mondo era impegnato in più cruente partite. Se si fosse giocato nel 1942, la nazionale azzurra avrebbe avuto ottime possibilità di vincerlo e quindi di detenere la coppa per sempre. Jules Rimet aveva stabilito, infatti, che sarebbe andata per sempre alla nazionale capace di conquistarla tre volte.
Nel 1943, custode della Victory era ancora Ottorino Barassi, che aveva anche la pericolosa missione di evitare che finisse nelle mani dei tedeschi.

HITLER, TROVATE QUELLA COPPA!
L’ordine, al Platzkommandantur (Comando militare tedesco ndr) di Roma arrivò direttamente dalla Cancelleria del Führer. La Victory doveva  essere assolutamente trovata e portata immediatamente a Berlino. Perché tanto ostinato interesse verso una statuetta? Nella contorta psicologia di Hitler, esoterismo e simbolismo hanno spesso dominato la sua condotta. Per capirci meglio, ricorriamo a un episodio storico.
Il Führer, quando i tedeschi nel 1940 occuparono la Francia, chiese ossessivamente del famoso Arazzo di Bayeux. Perché? E’ uno dei più preziosi manufatti del Medioevo, uno straordinario capolavoro di maestria e abilità che racconta in immagini la storia della battaglia di Hastings del 1066, evento decisivo nella conquista normanna dell'Inghilterra. Impresa cui lui ambiva. La Coppa Victory era stata vinta da due volte da una nazione alleata della Germania e simboleggiava la nazionale di calcio più forte del mondo. Barassi l’aveva nascosta negli uffici della Federcalcio. Ma, dopo la visita dei tedeschi, si rese conto che bisognava trovarle un altro rifugio.
-Dove posso metterla? Si chiedeva continuamente.
-Ma sì… come diavolo ho fatto a non pensarci prima? Ma certo! In banca!
Con i tedeschi padroni assoluti della città, però, nemmeno la banca rappresentava un posto sicuro. Quando la Gestapo bussava, le porte si aprivano immediatamente. Bisognava cambiare nascondiglio. La riportò a casa e la mise dentro una scatola di scarpe sotto il letto.
Provò a giocare d’astuzia: fece circolare la voce che la mitica Victory si trovava a Firenze. I tedeschi però non abboccarono. Bussarono, invece, come usavano fare gli uomini della Gestapo, al 3°piano di casa Barassi all’alba.
Aprì la signora e, naturalmente, si fiondarono dentro come due furie. Cercò di intrattenerli con garbo femminile, nel salotto. Ma, i due agenti, non desideravano affatto fare… salotto! Perquisizione a tappeto davanti a un pallidissimo Barassi che, tremante come una foglia, mormorava qualcosa, presumibilmente si raccomandava l’anima a Dio. Alla fine, non trovando nulla se ne andarono più furiosi del solito. Si accasciò stravolto su una sedia. Non si è mai capito per quale arcano motivo non abbiano aperto quella scatola di scarpe sotto il letto. Merito delle preghiere di Ottorino? Forse.

UN PIANO ASTUTO
Nello stabile di Piazza Adriana abitava anche il generale della Milizia, Giorgio Vaccaro, presidente della Federcalcio e membro del CIO. Stesso piano e balconi vicinissimi. I due si accordarono sul cosa fare nel caso di una nuova visita dei tedeschi. Entrambi davano per scontato il fatto che sarebbero, prima o poi, tornati. Infatti, la mattina dopo... trillo prolungato del campanello. La signora si avviò lentamente ad aprire. Ottorino scattò velocissimo, con la coppa avvolta in un panno, sul balcone di casa. Sull’altro c’è Vaccaro che, ovviamente, allertato dal vociare concitato dei tedeschi sul pianerottolo, si fiondò a sua volta sul balcone di casa. Ottorino gli passò la statuetta e rientrò velocemente in casa. Si trovò davanti, addirittura, il comandante della Platzkommandantur ovviamente imbufalito.
-Dottor Barassi, lei pensa tedeschi stupidi… voi italiani furbi, troppo furbi. Non ci costringa ad usare altri metodi… ci dica dov’è la Coppa.
A questo punto Barassi fece ricorso alla sua indole di napoletano e si esibì in una sceneggiata degna della migliore scuola partenopea, alla Eduardo Scarpetta tanto per intenderci.
-Herr Kommandant, io sono solo un povero segretario, a me certe cose non le dicono. Forse l’hanno portata a Milano, al Coni…

Ottorino per imprimere più pathos al suo racconto si inginocchiò con le mani giunte e per dare un ulteriore tocco drammatico alla scena si fece venire anche una copiosa lacrima. Il comandante tedesco sbuffa, non sa cosa fare. Ordinò l’ennesima perquisizione, più che altro per darsi un tono. Nulla di fatto. I suoi agenti non trovarono nulla. Allora, come colto da un’improvvisa intuizione, uscì, come una furia, e cominciò a scampanellare da Vaccaro, il quale aveva nascosto la Victory sotto le lenzuola del lettino del figlioletto che, naturalmente, dormiva beatamente.
Ora, se Ottorino Barassi si esibì in un numero alla Scarpetta, Vaccaro, per non essere da meno, s’ispirò al miglior Eduardo De Filippo. Indossò l’alta uniforme e con decisione aprì la porta. Saluti e sbattute di tacchi degni della più rigida tradizione prussiana.
-Herr Kommandant a che debbo l’onore di questa sua improvvisa quanto gradita visita?
L’alto ufficiale tedesco divenne titubante e cauto. Spiegò le ragioni della visita.
-Capisco, tra militari ci si intende vero? Comunque entri. Grazie a questa circostanza inaspettata, mi farà l’onore di ammirare la mia collezione di armi. Prima però, tirò fuori una lettera di Hermann Goering, in cui si esaltava l’amicizia tra i due paesi.
A quel punto il comandante tedesco si rese conto che, visto il personaggio e il grado ricoperto, era meglio levare le tende e scusarsi per il disturbo arrecato. Meglio evitare una grana diplomatica.

NEL FUSTO DI OLIO EXTRA VERGINE
Barassi, dopo lo scampato pericolo, si consultò con Vaccaro e presero una decisione definitiva. La Coppa Victory venne portata su un carro bestiame e trasportata in Puglia. Il ‘pacco’ verrà ritirato alla stazione di Torremaggiore, in provincia di Foggia, dai coniugi Leonardo e Lisetta Barassi, parenti dell’ingegner Ottorino. La nascosero nella loro abitazione, in via Monte Grappa, in un fusto di olio extra vergine d’oliva.

Nel 1946, in Lussemburgo, si tenne il primo Congresso FIFA del mondo libero.
Ottorino Barassi, sul finire dei lavori, con un colpo di scena spettacolare, tirò fuori una scatola nera e ne estrasse la Coppa Victory. Delegati in piedi, standing ovation – diremmo oggi – per Ottorino. Da quel giorno la coppa si chiamò Rimet in onore di Jules che inventò i Campionati Mondiali di calcio.
Le tribolazioni per la Rimet non finirono in quell’anno. La sua storia tormentata proseguì con un furto nel 1966 in Inghilterra durante i Campionati del Mondo. Fu ritrovata da un cane in un giardinetto. Nel 1970, il Brasile se l’aggiudicò definitivamente. Fu rubata e mai ritrovata.
Ma questa è un’altra storia che forse... un giorno o l’altro... vi racconteremo.