Il 21 giugno è la notte più corta dell’anno. Nel 1941, per gli uomini dei  reparti della Wermacht, accampati nella foresta di Pratulin, quella notte fu invece lunghissima.
Tra gli abeti della fitta selva il silenzio era  assoluto. Dal vicino fiume Bug giungeva solo il gracidare delle rane.
A soli 4 chilometri dal fiume c’è Brest-Litowsky. La possente fortezza occupata dai russi dopo lo smembramento della Polonia nel 1939. “La notte è dominata dagli orologi - ha scritto lo storico Paul Carell - ogni ora pare un’eternità. Dappertutto sul lunghissimo confine tra la Germania e l’Unione Sovietica. Dappertutto sono svegli. Da un’estremità all’altra del continente. Dal Baltico al Mar Nero. Milleseicento chilometri lungo i quali tre milioni di soldati aspettano. Nascosti nelle foreste, nei prati, nei campi di grano. Coperti dalla notte. Aspettano.”
Quando le lancette degli orologi sincronizzati, si posizionarono sulle 3,15 improvvisamente un lampo, poi un mare di fumo e di fuoco di là dal Bug. Scattava l’Operazione Barbarossa. I tedeschi invadevano la Russia.
La pace è morta – ha scritto ancora Carell – la guerra trae il suo primo terribile respiro.”
La scelta della data, da parte dello stato maggiore germanico, per l’attacco all’Unione Sovietica, non è stata un fatto casuale. Evocava due importanti avvenimenti. Il 21 giugno del 1940 la Francia, a Compiegne, aveva firmato la resa. E ancora, 129 anni prima, lo stesso giorno, Napoleone aveva attraversato il Neman puntando, a sua volta, alla conquista di Mosca.

A UNO CHE SE LO MERITA
Ottantuno anni fa, a Kiev, non tanto distante dal centro della città, tra il cimitero Staroobryadnyts’ke e lo Zoopark c’era uno stadio di calcio. Definirlo ‘stadio'’ forse è decisamente troppo...
Alla fine degli anni ’80 l’’erbaccia aveva invaso tutto il terreno di gioco e le tribune in legno, sopravvissute allo sfregio del tempo. Ragazzini arrancavano dietro un pallone sognando di diventare campioni come quel giovane ucraino Andrij Mykolajovyč Ševčenko, stella della Dinamo Kiev, che, nel giro di qualche anno, avrebbe indossato la maglia di un prestigioso club italiano: il Milan. I sogni dei ragazzi non hanno frontiere, sono universali, uguali dappertutto.
Ma, torniamo alla nostra storia.
Proprio, nella piazza antistante questo piccolo stadio, c’era una statua. Raffigurava un atleta che calciava un pallone, come un proiettile, verso il becco di un’aquila e sotto la statua una scritta “A uno che se lo merita”. A meritarselo era Nikolai Trusevich che, in quello stadio, 72 anni prima, rese onore al popolo ucraino.
Adesso, dobbiamo riannodare i fili della narrazione, e seguire un percorso cronologico alla fine del quale torneremo a Nikolai Trusevich e ai suoi meriti.

LA CADUTA DI KIEV
Il 19 settembre 1941 le armate del Terzo Reich entrarono a Kiev
. Fu un’occupazione feroce, atroce. Una delle più inumane di tutta la Seconda Guerra Mondiale. I tedeschi stabilirono che solo chi era in grado di lavorare avrebbe ricevuto una razione di cibo.
Ma, l’orrore, come spesso capita in guerra, non ha mai fine. Tra il 29 e 30 settembre si consumava uno dei capitoli più neri dell’occupazione nazista, il massacro di Babij Jar. 33.771 ebrei vengono strappati alle loro famiglie, portati nei pressi del dirupo di Babij Jar e fucilati.
A Kiev, le condizioni di vita della popolazione, sono durissime. Il baratto è l’unica forma di transazione economica possibile, chi ha qualcosa la scambia per un pasto caldo e delle coperte.
Lo fanno tutti tranne uno. Si chiama Makar Hončarenko e ai suoi scarpini da calcio non rinuncia. Makar è un calciatore, ma non uno qualsiasi. Nel 1938 è stato il capocannoniere della Vyssaia Liga ( la serie A sovietica) con la squadra più importante di Kiev, la Dinamo. Il calcio è la sua unica ragione di vita, la speranza che l’aiuta a sopportare la cruda realtà del tempi. In questo drammatico e cupo scenario fa la sua comparsa un personaggio che, come vedremo, si rivelerà un protagonista importante della storia che stiamo raccontando: Iosif Ivanovič Kordik.

PANE E CALCIO
Kordik è un ceco della Moravia, di madrelingua tedesca, nato e vissuto nell’Impero Austro-Ungarico. Aveva combattuto, nella Prima Guerra Mondiale, per gli Asburgo. Rimase ferito in combattimento e  si rifugiò a Kiev dove poi rimase per il resto della sua vita. E’ uno che ci sa fare. Astuto, empatico, socievole tutte qualità che lo aiutano, per dirla alla buona, a sfangarla nella drammatica situazione della capitale ucraina.
Inoltre, ha una grande passione: il calcio, passione è dire poco, diciamo, meglio, che vede nel football una religione salvifica. Riesce ad entrare nelle grazie dei tedeschi. Come cittadino di provenienza tedesca, che si trovava a Kiev, poteva gestire un’attività. Lavorava per un panificio, il più importante della capitale ucraina. I tedeschi gliene affidarono la direzione.
Un giorno, in un locale pubblico, un caffè, tra gli avventori notò un uomo. Lo fissa, nella sua memoria scatta un ricordo. L’uomo è irriconoscibile: magrissimo, emaciato, cencioso e sporco. Ma Kordik, come abbiamo detto prima, è un grande appassionato di calcio. Notò un particolare che per lui era una conferma: una cicatrice sulla guancia sinistra. L’uomo era Nikolai Trusevich, portiere della Dinamo.
La cicatrice se la procurò in uno scontro di allenamento contro il cognato e compagno di squadra Josyf Livshitz. Kordik invitò Trusevich al suo tavolo e gli offrì un pranzo. Trusevich gli raccontò le sue traversie. Diviso dalla moglie e dalla figlia, rifugiatesi a Odessa. La vita di stenti e, soprattutto, la costante minaccia di essere arrestato e deportato in Germania. I nazisti, nella lista dei nemici del Reich, avevano inserito anche i giocatori della Dinamo per un motivo molto semplice. La compagine  era considerata la squadra del NKVD, la polizia segreta, sovietica. Per i calciatori era solo un modo per essere tesserati da una squadra importante, ma, nella realtà dei fatti – a livello formale, burocratico – ogni giocatore era un dipendente del Ministero degli Interni. Un bel pasticcio con i nazisti al potere. Kordik, che una ne pensa e cento ne fa, risolve il problema. Offrì subito un posto di lavoro a Trusevich nel panificio che gestiva e lo convinse a ritrovare tutti i giocatori presenti in città. Anche per loro un posto di lavoro e, soprattutto, un pasto caldo al giorno. Era una proposta che non si poteva  rifiutare.

LA SQUADRA DEI PANETTIERI
Kordik
aveva in testa un piano preciso: radunare tutti i giocatori della Dinamo e mettere su una nuova squadra.
Nasceva così la Start Football Club. Trusevich ne divenne il capitano e Mikhail Sviridovskiy allenatore-giocatore grazie alla sua esperienza. In primavera, gli invasori nazisti capirono che dovevano cambiare atteggiamento nei confronti della popolazione civile.
Non potevano continuare ad angariarla con sistematica crudeltà. Si fecero due conti – i tedeschi sono pragmatici – tra i civili chi non era morto per le rigidità dell’inverno o per le loro angherie, si teneva  in piedi per puro miracolo, figuriamoci per lavorare. Un serio problema per l’occupante, che veniva a perdere una forza-lavoro indispensabile per l’impegno bellico. Allestirono così cantieri, ripristinarono i trasporti, riaprirono alcune botteghe. Una boccata d’ossigeno per una popolazione stremata. E, naturalmente, progettarono un torneo di calcio. Sport che, come tutti ben sappiamo, è stato sempre, per qualsiasi sistema di potere, un efficace strumento di propaganda.
Sei le squadre partecipanti. La Ruch, del movimento nazionalista antisovietico e filonazista; due squadre di ufficiali ungheresi, una di ufficiali rumeni; la PGS, unica compagine tedesca e, infine, quella dei panettieri, fortissimamente voluta da Kordik, la Start Football Club. Una squadra dove nessun giocatore aveva scarpini o gli indumenti da gioco. Poco prima che il torneo iniziasse, Trusevich, trovò in un magazzino delle maglie rosse. Erano di lana e si era in agosto, ma, come si dice, bisogna fare di necessità virtù.

START, SIMBOLO DI  RISCATTO
Il 7 giugno 1942 cominciò il torneo. I calciatori-panettieri della Start, ovviamente, erano in condizioni fisiche pessime. Oltre alle privazioni, cui erano stati sottoposti per lungo tempo, sulla loro condizione fisica gravava anche il peso dei turni di lavoro.
La prima partita li vedeva opposti alla Ruch. Non un cliente facile oggettivamente. Ma, come spesso accade nel mondo del calcio, orgoglio e voglia di rivincita sono propellenti in grado di compensare una condizione fisica deficitaria. E cosi fu. I rossi della Start piegarono per 7 a 2 gli arroganti  filonazisti della Ruch.
E da qui cominciarono i problemi. Il capitano della Ruch, a fine partita, urlava e strepitava. Chiese che la Start venisse eliminata dal torneo. Secondo lui non era concepibile che una squadra di prigionieri partecipasse al torneo e -aggiungiamo noi- soprattutto, vincesse.
Ovviamente Kordik, ammanicato con i tedeschi, riuscì a convincerli a non dare seguito alla richiesta del capitano della Ruch. Decisero, però, di far giocare la Start in un altro stadio. Piccolo e in periferia: lo Zenith. Non servì a nulla. I rossi batterono tutte le altre compagini partecipanti al torneo. Travolsero per 6 a 2 la squadra degli ufficiali ungheresi; sbaragliarono i rumeni per 11 a 0: rifilarono altri 6 goal al PSG e piegarono (5 a 1) la MgsWal.
A questo punto i nazisti capirono che la Start era diventata un problema politico. La squadra era assurta a simbolo della resistenza sovietica. I tedeschi non se lo potevano permettere. Decisero allora di organizzare una finalissima per stabilire il vincitore del torneo. Alla Start opposero la Flakelf (squadra dei militari della Luftwaffe. L’aviazione militare germanica) da tutti considerata la migliore compagine calcistica delle forze armate tedesche. Una partita destinata a entrare nella storia della 2a guerra mondiale e intorno alla quale si creò un clima da leggenda.
Una narrazione epica che ha resistito al trascorrere del tempo ed è ricordata, ancora oggi, come la Partita della Morte!

LA PARTITA DELLA MORTE
Si giocò il 6 agosto 1942. Lo Zenith, il piccolo stadio di Kiev, era stracolmo. Tantissima gente sugli spalti eppure regnava un silenzio assoluto. Quel silenzio angosciante che fa da preludio allo svolgersi di un evento il cui esito può rivelarsi drammatico. C’era un popolo oppresso su quelle vecchie tribune di legno che affidava agli  eroi dello Start la sua voglia di rivincita. Finirà 5 a 1 per i panettieri-calciatori. Vincono alla grande e per i tedeschi la sconfitta divenne un affronto da cancellare al più presto.
Chiesero la rivincita.
Ne fissarono lo svolgimento soltanto tre giorni dopo. Inutili le proteste di Kordik e di tutti i giocatori dello Start che chiedevano una data meno ravvicinata. Erano stanchi, venivano da un anno di patimenti e sofferenze. In più faceva un caldo atroce che stroncava fisico e mente. Niente da fare: Si sarebbe giocato il 9 agosto. Nel frattempo, i tedeschi organizzarono un battage mediatico, intorno all’evento, con tinte apocalittiche da Armageddon. Tutti i muri delle strade di Kiev erano ricoperti da manifesti con i quali si annunciava che la ‘forza ariana’ -incarnata nel Terzo Reich- avrebbe annullato le velleità sovietiche.
Un aspetto fece capire alla popolazione di Kiev che i tedeschi non avrebbero lesinato alcun mezzo pur di raggiungere il loro scopo.
Sui volantini, che venivano distribuiti incessantemente e che annunciavano data e luogo del match, c’era la formazione della Start, ma nn quella tedesca.
La Flakelf non sarebbe stata la stessa della prima partita. I nazisti, infatti, richiamarono dal fronte tutti i calciatori più forti.

(segue)