Ci sono lui e Maradona. Poi segue pian piano il resto del mondo del calcio, ma stavolta gli anni li compie solo lui. Nella sua vita Edson Arantes do Nascimento ha avuto mille soprannomi: il re, il re del futebol, la perla nera, Gasolina e altri meno conosciuti al grande pubblico. Ma se dici più semplicemente Pelé, in quattro lettere hai declinato il calcio con la massima scioltezza. Uno pseudonimo semplice, una sorta di creazione inconscia della mente per far apparire facili numeri difficilissimi in campo, quasi impossibili per i comuni mortali. La sua è una storia che inizia in una piccola località dello stato di Minas Gerais il 23 ottobre 1940. Quel luogo si chiama Três Corações e quel nome sembra creato apposta per lui.

IL FIGLIO DI DONDINHO. Chi ha due cuori sembra possedere una doppia natura, chi ne ha tre è un pozzo senza fondo. Nessuno in realtà ha tre cuori (nemmeno due, in realtà), ma un cuore diviso in tre parti, sì, forse. Sono infatti tre le grandi direttrici sentimentali di Pelé: il Santos, la Nazionale verdeoro e infine il Cosmos di New York. Três Corações è un paesotto non molto distante da Belo Horizonte ma da lì il mare è lontano. A fare il bagno nell’Oceano ci può andare soltanto chi ha un mezzo personale e nel Brasile di allora soltanto la minoranza bianca possiede una macchina. Se poi la vita costringe una famiglia povera di Três Corações a spostarsi a Bauru, ancor più nell’entroterra, il mare diventa davvero un miraggio. A quelli come il signor João Ramos do Nascimento detto Dondinho, papà di Pelé, non resta che il calcio per consolarsi di una vita difficile. Dondinho insegna a suo figlio tutti i trucchi del mestiere. È stato un buon calciatore e se non ha fatto la carriera che poteva è per via di un ginocchio un po’ anarchico. Il piccolo Edson non sembra avere problemi di apprendimento perché a meno di 10 anni fa già quel che vuole anche con un pompelmo o con un pallone di carta straccia. Figuriamoci un po’ se gli danno anche una sfera di cuoio, cosa può inventare.

NIENTE MALE, IL RAGAZZO. Nella squadra dilettantistica di Bauru hanno subito la sensazione di avere a che fare con un talento al di sopra della media, ma nessuno si fa troppe illusioni: se Pelé è solo un narciso del pallone, il pallone si sgonfierà da solo. Se invece è davvero bravo come sembra, qualcun altro se ne accorgerà. In ogni caso, andrà via da Bauru, questo è certo. Il Santos, che sguinzaglia informatori in giro per il Brasile, si accorge per primo del ragazzo. I dirigenti della società paulista non credono a ciò che un giorno vedono: il figlio di Dondinho non è soltanto talentuoso, è anche concreto, fisicamente ben messo, completo nel repertorio. Sul piano tecnico non presenta lacune, possiede due piedi fantastici e uno stacco aereo imperioso. Ha carattere, è autocentrato quanto basta per credere appieno nel proprio potenziale. Ha un suo equilibrio, non tende a strafare nelle giornate di vena né a buttarsi giù nei momenti difficili. Insomma, il ragazzo ha proprio tutto per sfondare. Tanto che il 7 settembre del 1956 – a 16 anni non ancora compiuti – Pelé esordisce in prima squadra. Quel giorno il Santos vince per 7-1 contro il Corinthians de Santo André e l’ultimo arrivato, partito dalla panchina, va perfino in gol. Il cuore, la sua strada l’ha trovata. Poche partite e qualcuno deve fargli spazio: lui è titolare di sicuro, gli altri forse. L’anno dopo, prodezza dopo prodezza, è capocannoniere del campionato paulista. Altro che Dondinho, il figlio è parecchio più forte.

CON UN COLPO SOLO vengono sconfitte rassegnazione e povertà. E il cuore trova una seconda via, perché la Nazionale gli apre presto le porte. Non ha ancora 17 anni, il 7 luglio del 1957. Quel giorno si affrontano, in un Superclàsico de las Americas, Argentina e Brasile. Perdere con la “albiceleste” non è mai un piacere ma farlo in casa propria è anche peggio. Vince l’Argentina per 2-1 ma Pelé segna e incanta gli spalti. Quell’anno lo scudetto paulista non arriva ma è solo questione di tempo. Un tempo che il giocatore del Santos impiega per convincere il CT Vicente Feola a portarlo ai Mondiali 1958 in Svezia. Pelé disputa la prima partita contro l'URSS nella fase a gironi. È il giocatore più giovane del torneo e il più giovane ad avere mai giocato una partita della fase finale della Coppa del Mondo. Segna il primo gol contro il Galles il 19 giugno 1958. Una rete che consente al Brasile di qualificarsi alle semifinali. In semifinale contro la Francia Pelé mette a segno una tripletta che fissa il 5-2 finale. Grazie a questo exploit è il più giovane marcatore nella storia della Coppa del Mondo (17 anni e 239 giorni) e anche il più giovane a realizzare tre gol (17 anni e 244 giorni). Il 29 giugno 1958 Pelé scende in campo allo stadio Råsunda di Stoccolma nella finale contro i padroni di casa e a 17 anni e 249 giorni stabilisce un altro record: è il più giovane calciatore a giocare una finale di Coppa del Mondo. E a vincerla, pure. La Seleção s’impone per 5-2 aggiudicandosi il suo primo titolo mondiale, anche grazie a due reti del numero 10. Il primo gol di Pelé, un pallonetto a superare il difensore che lo sta marcando, seguito da un preciso e bruciante tiro al volo, viene scelto negli anni successivi come uno dei più grandi gesti tecnici nella storia della Coppa del Mondo.

AL RITORNO IN PATRIA Pelé è già una star di livello mondiale. Molti, anche anziani, si dicono convinti di non avere mai visto nella loro lunga vita uno così. Negli anni, il palmarès del campione si fa pesante. Grazie al suo numero 10, in 15 stagioni il Santos vince il campionato paulista 10 volte. Lui è capocannoniere per 11 stagioni: nel 1958 arriva a segnare 58 gol in una sola annata. A livello internazionale il Santos può mettere per due volte le mani sulla Coppa Libertadores e altrettante volte sull’Intercontinentale.

ESTRELA DO MUNDO. Dei Três Corações iniziali, due funzionano a meraviglia. Il terzo comincerà a battere parecchi anni più tardi. 4 anni dopo il Mondiale di Svezia, il Brasile difende il titolo in Cile. E lo difende molto bene, perché in attacco c’è sempre lui. Ma stavolta il vero eroe è un altro: si chiama Manè Garrincha e tocca a lui guidare il Brasile verso la riconferma quando Pelé si infortuna. Inizia bene il Mondiale, O’ Rey. Segna e fa segnare, nella partita d’esordio contro il Messico. Ma il 2 giugno del 1962, proprio mentre l’Italia subisce la “mattanza di Santiago” contro i padroni di casa, a Viña del Mar si stanno affrontando Brasile e Cecoslovacchia. Pelé colpisce male un pallone. Un impatto fortuito, il piede poggia male a terra. Il numero 10 è costretto a saltare tutto il resto del torneo. Il Brasile è ugualmente campione del mondo: con i fuoriclasse che ha nella rosa si potrebbe fare perfino a meno di lui. Senza esagerare con il numero di assenze, però. Nel 1966 Edson Arantes do Nascimento è un’icona del calcio mondiale di 26 anni che sta tentando un‘impresa che non è ancora riuscita a nessuno: vincere un Mondiale per 3 volte, per giunta consecutive. L’impresa non si concretizza, anche perché in quell’edizione il primo pensiero degli avversari sembra quello di azzoppare la star con costanza e regolarità. Quando il Brasile è in campo la partita si trasforma in una vera e propria caccia all’uomo. L’eccessiva tolleranza di molti arbitri europei completa il tutto. Il fuoriclasse è costretto a giocare quasi con una gamba sola e il Brasile è eliminato al primo turno. Lui, il campionissimo, giura solennemente che ai Campionati Mondiali non lo rivedranno mai più. Quello cui ha assistito non è calcio. Mai più. Ma è sempre meglio andare cauti con la parola “mai”, perché spesso la politica ha la meglio anche sulle promesse solenni. Alla fine del decennio, al dittatore brasiliano, il generale Emilio Garrastazu Medici, il terzo titolo mondiale farebbe molto comodo. Il consenso popolare è importante e Medici non è uno che scherza, quando chiede qualcosa.

AGLI ORDINI, PRESIDENTE. “Ordem e Progresso”, c’è scritto nella bandiera brasiliana. L’ordine interno è garantito – non c’è dubbio – la parola “progresso” potrebbe essere meglio sostituita da “pallone”. Pelé, che a detta di molti sarà anche un fuoriclasse ma non certo uno che per indole si mette contro il potere in carica, è di nuovo pronto per regalare una gioia al suo popolo. Pur con una formazione di giocatori fuori ruolo e con un 4-2-4 oltremodo spregiudicato, il Brasile 1970 non conosce rivali. Del resto, quando in squadra hai gente come Gerson, Tostao, Jairzinho, Wilson Piazza, Rivelino, Carlos Alberto e naturalmente O’ Rey, te ne freghi della tattica. Ti puoi anche permettere il lusso di tenere in porta Felix al posto di Émerson Leão. Ai Mondiali messicani la squadra verdeoro gioca tutte le partite a Guadalajara e le vince una a una. L’unica volta che si sposta dal suo quartier generale è per andare a vincere la Coppa a Città del Messico, contro l’Italia. Con il “triplete mundial”, il rapporto fra Pelé e la Nazionale perde rapidamente di senso. La sua ultima partita è Brasile-Jugoslavia del 18 luglio 1971. Il cuore non ha smesso di battere, ma pulsa anche in altre direzioni.

1.281 REALIZZAZIONI. Nel 1974 anche il sodalizio quasi ventennale con il Santos s’interrompe. 619 realizzazioni in 638 partite, tutte con la stessa maglia, possono bastare. Il re abdica, o almeno così sembra. Ma nel 1975, quella che all’inizio sembrava una voce priva di fondamento si rivela una notizia più che vera. Pelé torna a giocare. Il re del futebol si riprende la corona. Viene ingaggiato dai New York Cosmos, squadra della North American Soccer League (NASL), che gli offre, con il beneplacito del governo brasiliano, un contratto triennale di circa 4,5 milioni di dollari per tre anni. La Warner Communications intende lanciare in grande stile il calcio negli Stati Uniti. Per farlo, ha bisogno di grandi nomi: per esempio, Franz Beckenbauer, Giorgio Chinaglia, Carlos Alberto. Quello di Pelé è un cuore di calcio che riprende a battere dopo un anno sabbatico. Due anni da ambasciatore del calcio a New York e poi, il 1° ottobre 1977, il ritiro. Quello vero, quello definitivo. Esce dal calcio giocato dopo aver realizzato 1.281 gol e aver fatto sognare intere generazioni. Sì, 1.281 gol, un bottino che gli vale il titolo di più grande goleador della storia del calcio. Quel 1° ottobre di 41 anni fa c’è commozione in tutto il mondo. Molti sono convinti che nel calcio uno come lui non capiterà mai più. Ma proprio in quel 1977 c’è chi giurerebbe di aver notato un ragazzo con qualità da marziani. Certo, non è brasiliano, si chiama Diego Armando e viene da una favela di Buenos Aires. Nemmeno a dire che abbia un gran fisico ma quel ragazzo ritiene di avere un sinistro e una classe degne di O’Rey. Vedremo se è vero, perché di millantatori è pieno il mondo. In fondo, quanti manicomi sono pieni di persone che si credono Napoleone. O Pelé, perfino.

Diego Mariottini