Domenica 13 settembre 1981, stadio “Dall’Ara”. Si sta giocando Bologna-Cagliari. La squadra di casa non riesce a passare e la partita è bloccata sull’1-1. A 16 minuti dalla fine l’allenatore Tarcisio Burgnich gioca una carta abbastanza ardita: mette fuori un bomber consumato come Giuliano Fiorini e inserisce in campo un giovanissimo, non ancora 17enne. Si chiama Roberto Mancini, viene dalle Marche e nell’ambiente si dicono buone cose di lui: ha classe, carattere (non esattamente facile, secondo qualcuno), determinazione, senso innato della leadership, visione di gioco. Nelle giovanili ha già fatto vedere cose eccellenti e il mister decide di rischiare. Un po’ di sana sfrontatezza giovanile può forse sfondare il muro avversario. Non è così, la partita rimane ferma sull’1-1 fino alla fine ma quella domenica rappresenta la prima in campo di un futuro fuoriclasse. Uno di quelli che rappresentano l’evoluzione della maglia numero 10 nel calcio italiano. Il punto di congiunzione fra Rivera e Totti, senza passare per Baggio.

TALENTO DA VENDERE, ANZI DA COMPRARE. In effetti, quel 13 settembre il Bologna non va oltre l’1-1 casalingo: è la prima giornata di una stagione da dimenticare. Al termine del campionato 1981/82 la squadra conosce la sua prima retrocessione in serie B dopo decenni di storia calcistica pluriscudettata, malgrado una rosa di giocatori che potrebbe garantire un campionato tranquillo. L’unico motivo per sorridere è la scoperta e la valorizzazione in prima squadra di Roberto Mancini, un giovanissimo che da esordiente segna 9 reti (un record per un minorenne che neppure Gianni Rivera ai tempi dell’Alessandria può vantare), mostra giocate di qualità superiore e la cui vendita al migliore offerente può risollevare il bilancio societario. Sì, perché Mancini non è ancora maggiorenne ma molte società importanti si sono già accorte di lui. Del resto, è difficile tenere celato un simile talento, che non sta solo in ciò che fa e in come lo fa, ma soprattutto nel riuscire a esaltare il gioco corale senza lesinare numeri individuali decisivi. Anche al cospetto di compagni di squadra di maggiore esperienza e con parecchi anni in più, il giovane Roberto Mancini rimane sempre se stesso. Anzi, sono gli altri a seguirlo. Se fosse un olandese, oggi si direbbe che quel giovincello dai piedi d’oro è il prodotto evoluto del calcio totale per la sua capacità di svolgere ai massimi livelli un ruolo ma non soltanto quello. Invece Roberto Mancini è italiano e stupisce per una duttilità sul fronte dell’attacco che, almeno da noi, non si impara e neppure si insegna. È un trequartista, ma sa segnare – per quantità e qualità dei gol realizzati – come una punta di ruolo. È un attaccante, ma sa tornare indietro a conquistare palloni per poi impostare il gioco. Può stare al centro dell’attacco ma anche svariare lungo entrambe le fasce. E quando la manovra passa attraverso i suoi piedi, la cosa si vede. Dopo un anno di serie A vengono scomodati paragoni quasi imbarazzanti per un esordiente convinto dei propri mezzi ma sempre con i piedi per terra: c’è chi vi percepisce l’estro di Meazza, chi invece vede in quella classe pura, la maturità tattica di Nandor Hidegkuti, il primo “falso nueve” del calcio. Esordisce in serie A due mesi prima di compiere 17 anni e da quel momento diventa poco alla volta un punto di riferimento per una squadra che in vari momenti non appare alla sua altezza. Non tanto per caratura tecnica quanto per via di uno spogliatoio a cui manca la necessaria serenità.

SI SALVI CHI PUO’. È un insieme di buoni talenti che non riescono e essere una squadra, il Bologna. Ci sono attaccanti d’esperienza come Fiorini, Chiorri e Chiodi, un centrocampo solido come quello composto da Paris, Colomba e dal tedesco Neumann, un portiere affidabile come Zinetti e in difesa, fra gli altri, un (due volte) campione d’Italia come Roberto Mozzini. Eppure i risultati non arrivano. Arriva però il primo gol in serie A di Roberto Mancini. È il 4 ottobre 1981 e la partita è Como-Bologna. Anche stavolta Mancini entra nella ripresa, quando il Como sta vincendo per 1-0. Al momento del raddoppio lariano a metà ripresa la partita sembra finita, ma un attaccante di quasi 17 anni prende in mano le redini del gioco. In 4 minuti si concretizza la rimonta. A un quarto d’ora dalla fine accorcia le distanze Pileggi, ma il vero capolavoro avviene poco dopo. Palla filtrante in area di Neumann, riceve Mancini lasciato stranamente solo. Colpo d’occhio immediato e pallonetto al volo. Il portiere comasco Giuliani non può nulla. Un tocco da attaccante consumato, applaude anche chi non è del Bologna. Da quel momento il ragazzo diventa titolare. Dalla numero 7 alla numero 11, indossa un po’ tutte le maglie me è comunque lui la stella fissa del reparto avanzato rossoblù. Se può esistere un dubbio sulle qualità del giocatore, è il diretto interessato stesso a metterle in fuga. Contro la Roma si ripete con un altro pallonetto: un colpo ancora più bello e più difficile del precedente. Comunque finirà la stagione del Bologna, quel ragazzo diventerà qualcuno. Anzi, lo è già. Sotto la Torre degli Asinelli ne sono convinti tutti, certi gol li fanno soltanto i campioni.

UN PRODOTTO DELLE GIOVANILI. Fin da ragazzino Roberto Mancini mostra in campo un talento superiore alla media. Suo padre Aldo, ex calciatore di discreto livello, è il primo a credere in lui. Nella sua Jesi gioca nell’Aurora, ma presto squadre ben più importanti si accorgono che nella cittadina natale di Federico II di Svevia gioca un piccolo fenomeno. Il Milan manda un emissario per sondare il terreno ma la prima squadra importante a concretizzare, battendo sul tempo le altre, è il Bologna. Nelle giovanili allena Marino Perani, bomber dei rossoblù Campioni d’Italia 1964. Perani ha l’occhio lungo e non si lascia sfuggire l’occasione. Per 700.000 lire sono felici tutti: il Bologna che ha acquistato Mancini e l’Aurora che con quella somma può finalmente cambiare i pulmini della squadra. È la fine degli anni 70, un grande campione come Rivera sta per lasciare il calcio, un talento emergente sta per irrompere sulla scena. Tempo al tempo. E c’è un tempo per tutto: per farsi notare, per sfondare e per cambiare casacca.

AND THE WINNER IS…Dopo il primo anno al Bologna le quotazioni di Roberto Mancini sono letteralmente salite alle stelle. 9 reti, quasi tutte di notevole fattura, giocate di pregio, rifiniture sontuose. Il tutto, nonostante una squadra che sta affondando in serie B. A fine campionato il Bologna retrocede ed è chiaro che la società non potrà trattenere il suo “golden boy”. La serie B sarebbe un vestito troppo stretto per un 17enne già XL. Si fa sotto la Juventus tramite un emissario di Boniperti, ma arriva tardi. Da qualche mese Paolo Borea non è più il direttore sportivo del Bologna ma è in ottimi rapporti con il presidente della Sampdoria Paolo Mantovani. Il quale è affascinato dal modo di giocare di quel ragazzino con l’aria di un uomo ed è deciso, più che deciso, a tesserarlo. Quando Borea diventa DS della società blucerchiata, di fatto porta con sé Mancini. Tanti saluti alla Juventus. Per Mantovani non è soltanto una scelta di natura tecnica. Quello fra lui e il nuovo acquisto della Samp è un vero e proprio incontro, un riconoscersi reciproco che va oltre il fatto calcistico in senso stretto. Il destino mette di fronte due leader nati, due spiriti liberi, quasi “antisistema”. La lotta contro i poteri forti del calcio che Mantovani porta avanti come dirigente, “il Mancio” la trasferisce in campo. La Sampdoria non desterà simpatie soltanto per la sua maglia diversa dalle conformi righe verticali o dalle tinte unite a volte altrettanto banali, ma per il suo voler mettere in discussione sul serio le gerarchie tradizionali di un calcio troppo appiattito su un malinteso senso della tradizione. Mantovani è testa e cuore, Roberto Mancini è gambe e fantasia. Inizia da quel momento, stagione 1982/83, un lungo sodalizio fra la Samp e il suo numero 10 per eccellenza. 15 anni vissuti con qualche delusione ma con tanti successi, in Italia e all’estero. Un po’ da outsider, forse, ma con lo stile e la grinta di chi vuole farcela (e ce la fa) anche senza la prossimità al potere politico. Salvo il fatto di divenire CT della Nazionale nel 2018. Quella stessa Nazionale che troppo spesso si sarà dimenticata di uno dei talenti più cristallini del nostro calcio, quando Roberto Mancini era un giocatore all’apice della carriera.

Diego Mariottini