Se non giochi a tre punte, non sei nessuno e questo Arkan lo ha sempre saputo. In attacco ci vuole un tridente a tutto campo: i contatti giusti con la politica, possedere (o controllare) le televisioni e avere una squadra di calcio che rafforzi la propria immagine sui mercati. Altrimenti, che imprenditore sei. E Željko Ražnatović, conosciuto nell’ex Jugoslavia e nel mondo come il comandante Arkan non è mai stato uno che gioca tanto per giocare. Alla fine della guerra nei Balcani, Arkan è un uomo ricchissimo e oltremodo potente. Dal del tu ai vertici della politica serba, è ogni giorno in televisione e il suo personale bottino di quattro anni di imprese belliche è stimato intorno ai 500 milioni di euro di oggi.

CON IL SUO INGEGNO CRIMINALE è diventato, fra gli anni ’70 e il decennio successivo, il numero uno della malavita a Belgrado. Con un uso spregiudicato del tifo calcistico, ovvero reclutando i tifosi peggiori della Stella Rossa e trasformandoli in un corpo paramilitare particolarmente spietato, denominato le “Tigri”, “il comandante” si è distinto nella guerra che per quasi tutti gli anni ’90 insanguina i Balcani. Terminato il conflitto, Arkan, più volte sfuggito alla giustizia internazionale, vuole far dimenticare il proprio passato e si propone come un imprenditore che investe in attività del tutto legali. L’ex Tigre apre una catena di panifici, è proprietario di lussuosi casinò ed entra con forza nel ramo immobiliare. Investe anche nel sociale quando lancia Terzo Figlio, un’organizzazione filantropica in grado di fornire sostegno economico a famiglie serbe con tre o più bambini a carico. Arkan è uno dei pochi in grado di offrire impiego a centinaia di persone, in un Paese ancora devastato da anni di guerra e dall’embargo imposto dalle Nazioni Unite. Ma finché non possiedi una squadra di calcio forte e vincente non sei ancora nessuno, perché non hai la visibilità giusta a livello globale. Tale è il motivo per cui decide di concentrare capitali anche nel calcio: non più “semplice” capo degli ultrà (la guerra è finita e almeno per ora non servono più Tigri da reclutare), bensì proprietario di un club di successo internazionale.

LA SCELTA NATURALE dovrebbe cadere sulla Stella Rossa di Belgrado, ma il proprietario rifiuta la pur allettante offerta. La scelta successiva è molto mirata e ha davvero il sapore della sfida lanciata al mondo: nel 1996 Arkan compra infatti l’Obilić Football Klub di Belgrado. Non si tratta di una squadra di grido e di fama internazionale, tutt’altro. La società Obilić è attiva dal 1924 è ha alle spalle una storia di dignitosa comprimaria del calcio jugoslavo. Naturalmente il piccolo team di Belgrado non è in grado di competere con le formazioni jugoslave più blasonate e non riesce mai a salire dal fondo della classifica in modo stabile, pur giocando un calcio tecnico e veloce. Alla fine della guerra, all’Obilić viene imposto il cambio di nome ed è costretto a rifondarsi con la denominazione di FK Cuburac, ripartendo dai campionati minori. Nel 1953 alla squadra viene consentito di riappropriarsi della vecchia denominazione e nei 30 anni successivi il nuovo Obilić si barcamena sulla soglia della Terza Divisione. La diaspora delle squadre croate, slovene e bosniache consente all’Obilić di avanzare fino alla Seconda Divisione, la Prva Liga Srbija a 16 squadre, a partire dal campionato 1991/92.

TUTTO NUOVO. Da nuovo proprietario della squadra, il “presidentissimo” dà vita a un’operazione di restyling senza precedenti. Il vetusto stadio, che non può ospitare più di 4500 spettatori e che si trova a Vračar, comune dell’hinterland della Capitale, è tappezzato sia all’interno sia all’esterno di foto della milizia guidata dal comandante Arkan durante la guerra in Croazia e in Bosnia. Una sorprendente contraddizione per un imprenditore che vorrebbe far dimenticare le imprese di sangue del recente passato. Al primo tentativo l’Obilić raggiunge il traguardo della massima serie del campionato di calcio del suo Paese. Ma appare ovvio a tutti che quello è solo un primo passo. Anche le squadre più blasonate cominciano a temere l’ineluttabile. Il campionato serbo sta per trasformarsi in una farsa a beneficio del Comandante. La forza dell’Obilić è la stessa forza del presidente e proprio come il suo presidente, quasi mai la squadra vince in modo pulito. Ma vince. In quel periodo si verifica più di una denuncia alla magistratura: il calcio in Serbia appare corrotto e i risultati delle partite vengono talvolta falsati a vantaggio dell’Obilić. Tuttavia gli effetti di quelle azioni legali sono di fatto nulli.

ORDINE & DISCIPLINA. Gli ordini del presidente Arkan non risparmiano niente e nessuno. Se uno o più giocatori vengono sorpresi a bere alcolici prima della partita, la pena per i malcapitati può essere anche la fustigazione. Non parliamo poi di cosa può succedere in caso di sconfitta: si racconta che una volta i giocatori siano stati costretti a scendere dal pullman e a percorrere 30 chilometri a piedi per fare ritorno a casa. Insomma, tra agevolazioni arbitrali, intimidazioni dagli spalti e punizioni corporali per mantenere la disciplina interna, in un anno la squadra passa dalla serie B serba al titolo di campione nazionale. È il 1998. Una squadra dell’hinterland di Belgrado venuta dal nulla si guadagna così il diritto di disputare i preliminari della Champions League. Dopo avere superato in scioltezza (e senza nemmeno bisogno di ricorrere a trucchi) gli islandesi dell’IBV, la squadra slava verrà eliminata al secondo turno dai tedeschi del Bayern Monaco. Troppo accentuata la disparità rispetto all’avversaria, che proprio in quell’edizione arriverà a disputare la finalissima di Coppa, perdendo poi in modo rocambolesco con il Manchester United per 2-1. Con il declino del Comandante, che viene assassinato a Belgrado il 15 gennaio 2000, una squadra di modesta entità quale l’Obilić tornerà alle sue dimensioni tradizionali. Una pagina nera della storia dei Balcani corrisponde a un momento altrettanto nero del calcio nell’ex Jugoslavia.

METODI SPICCI. Arkan si è mosso nel calcio come in guerra, e la sua gestione è stata violenta dentro e fuori dagli spogliatoi. Una volta un centrocampista avversario si sentì dire che se nel secondo tempo avesse segnato gli avrebbero spaccato le rotule. Agli allenatori delle squadre avversarie veniva intimato di dare partita vinta all’Obilić, altrimenti sarebbero stati guai. Prima di ogni partita lo stadio si riempiva di uomini in nero, in nero come le Tigri. Gli arbitri venivano accolti ai cancelli e ricevevano ‘suggerimenti’ su come dirigere l’incontro. Sugli spalti i tifosi brandivano pistole contro i giocatori avversari e facevano capire che aria tirasse. Alla fine del primo tempo, se il risultato era in bilico, i sostenitori di Arkan scendevano negli spogliatoi. C’erano campioni che si ritiravano misteriosamente prima della gara. Altri venivano esclusi a forza: uno dichiarò in seguito ai giornalisti che gli uomini di Arkan lo avevano rinchiuso nel garage per tutti i 90 minuti della partita contro l’Obilić. È in effetti la pagina più brutta di quello che una volta era uno dei campionati più divertenti d’Europa. Il calcio dell’ex Jugoslavia è piegato prima alle logiche della guerra etnica, poi al bisogno di propaganda mediatica di uno dei più lucidi, risoluti e spietati criminali del XX secolo.

A BEN VEDERE, nemmeno la morte di Arkan chiuderà in modo definitivo quella pagina. Certe pagine forse non si chiudono più. Il calcio balcanico, fino agli anni ’80 fucina di talenti assoluti, avrà perso per sempre la sua età dell’innocenza. La Super Liga (così si chiama oggi il campionato serbo, orfano da oltre 20 anni delle squadre croate, slovene, bosniache e in ultimo montenegrine), oggi di super non ha proprio nulla. I migliori giocatori trovano fortuna in Occidente e – cosa peggiore - lo spirito di Arkan sembra ancora aleggiare. L’unica buona notizia è che l’Obilić, la cui presidentessa da qualche anno non è più la moglie di Arkan, è tornato a militare nelle serie minori (nel 2018/19 sta giocando in quella che è la quinta serie nazionale). E questo non sarà molto in termini assoluti, ma è già qualcosa.

Diego Mariottini