Torino, domenica d’autunno. Il campione vuole festeggiare con il compagno di squadra e con le rispettive compagne. In campo Gigi ha dato spettacolo e nel pomeriggio la squadra ha vinto per 4-2 contro la Sampdoria. È sera e dall’altra parte della città un ragazzetto è alla guida della sua Lancia Appia. C’è voglia di fare onore a una partita un po’ sofferta ma al limite della perfezione. È un anno particolare, quel 1967. Un anno nel quale c’è qualcosa nell’aria. Si profila un vento di cambiamento ma è un’aria strana e le idee sul futuro del mondo non sono ancora abbastanza chiare. Un anno di fatti importanti ma quasi tutti spiacevoli. Prima il suicidio di Tenco a Sanremo, poi il golpe dei colonnelli greci, e poi ancora la “guerra dei sei giorni” fra Egitto e Israele. Per non parlare della morte di Totò e di Che Guevara. Il mondo è in preda a un’accelerazione improvvisa, tutto vorrebbe correre e anche Gigi Meroni è dentro quel movimento irregolare. Anche il ragazzetto alla guida si muove più veloce, la sua macchina ha bisogno di gas per salire di giri. Ma bisogna stare attenti quando si accelera troppo.

FLORILEGIO DI INSULTI. Quante ne hanno scritte. “Meroni il sovversivo”, “Meroni il pagliaccio”, “Meroni la vergogna del calcio italiano”. E ora che è morto tutti a incensarlo, a osannarlo, a dargli l’estremo saluto in lacrime. Gigi è stato semplicemente se stesso, un ragazzo che voleva andare oltre l’orizzonte grigio e allineato dell’Italia del suo tempo. Uno che usa la propria unicità per mostrare una verità scomoda: tutto è forma, convenzione, tutto è pronto a trasformarsi in linguaggio ipocrita, di regime. Quella sera in città fa freddino, piove, e chi è in giro a piedi va di fretta, senza formalizzarsi se attraversare sulle strisce o no. Il ragazzetto alla guida continua la sua corsa in macchina. Senza esagerare, ma senza mai fermarsi. Si chiama Attilio Romero ed è un grande tifoso granata. In camera sua troneggia il poster del numero 7 del Torino.

15 OTTOBRE 1967. Meroni e il suo amico Poletti stanno attraversando a piedi Corso Re Umberto, le loro donne stanno aspettando. Ma Cristiana in realtà non è la signora Meroni, o non ancora. Forse un giorno si sposeranno, forse no. Convivono e anche questo è un intollerabile motivo di scandalo. Forse un giorno avranno anche un figlio, chissà, c’è tempo, la vita è lunga. Per ora c’è un grande amore ma per molti è un dettaglio secondario. Contano lo status, gli anelli, i pezzi di carta. La Lancia Appia di Attilio Romero sta per imboccare il Corso. Sono le 21,30 circa e la sonnolenta Torino è davanti alla tv. Sta per cominciare la Domenica Sportiva. La conduce Enzo Tortora.

LA BELLA DEL LUNA PARK. Ovunque sia andato a giocare fino a quel momento, Gigi Meroni è diventato un idolo. I dribbling, le finte repentine, le giocate d’ingegno e una plateale irriverenza agonistica hanno incendiato il cuore dei tifosi fin dal primo momento. A Genova, sponda rossoblù, scoppia un feeling sul filo della simbiosi. Sarà la fase storica, sarà un carattere insofferente alle regole, sarà quel vento di contestazione che comincia a soffiare alla metà degli anni 60. Saranno tante cose insieme ma Luigi - subito ribattezzato in modo confidenziale Gigi da chi rimane estasiato dalle qualità tecniche di un mingherlino con una fantasia che non vuole limiti e confini - si sente a casa sua. È lì che un giorno incrocia lo sguardo di Cristiana: una storia d’amore che scandalizza e che tiene banco. Quando i due si conoscono a Genova, lei ha 17 anni, e nella vita ricarica i fucili nel tiro a segno del Luna Park. Madre tedesca e padre napoletano, giostrai di tradizione. La famiglia non vede di buon occhio la relazione e nel 1964 Gigi deve assistere impotente al matrimonio della ragazza con un altro. Quel “sì” viene imposto dalla madre alla Bella del Luna Park. Ma dopo il fatto Cristiana, d’accordo con Meroni, si rivolge alla Sacra Rota. Quel matrimonio non s’aveva da fare e non durerà.

GRANATA. Nel frattempo Gigi è passato al Torino, i tifosi già impazziscono per quel numero 7 geniale, incostante, pronto a tutto purché non gli si chieda nulla. Troppo individuo per essere leader, troppo talentuoso per i gol facili. Abiti particolari, barba incolta, atteggiamenti da eterno outsider. Per molti la sua è voglia di stupire, per lui è semplicemente essere “un’altra cosa”. Ed è in nome di “quell’altra cosa” che Cristiana lo ama. Lei prende e si trasferisce con lui a Torino, Corso Re Umberto 46. Anche Attilio Romero, che con la sua Lancia Appia ha appena imboccato con decisione Corso Re Umberto, adora Gigi. Addirittura si è fatto crescere i capelli, proprio come lui. Somigliargli è essere un po’ Meroni, anche senza quei piedi e quella fantasia.

ENZO TORTORA sta per andare in onda, la Domenica Sportiva è quasi ai titoli di testa e qualcuno lo chiama un attimo in disparte. È successo qualcosa ma non si sa bene cosa. Dietro le quinte all’improvviso gli dicono la verità. In serata una macchina ha investito all’improvviso Meroni mentre il calciatore stava attraversando una via del centro di Torino. Con lui c’era Fabrizio Poletti, che si è fatto male ma se la caverà con poco. Il numero 7 granata invece è in fin di vita. L’urto di una FIAT 124 ha spinto all’indietro il ragazzo nella corsia opposta, dove una Lancia Appia non ha potuto evitare di centrarlo in pieno. Attilio Romero ha investito in pieno il suo idolo. Tortora si rifiuta di dare la notizia in diretta, così come un’ora più tardi sarà categorico nel non voler annunciare la morte del calciatore. La televisione non può dare spettacolo in nome di un presunto quanto malinteso diritto di cronaca.

AMICO NESTOR. L’urlo straziante di Cristiana apre il cielo in due, i compagni di squadra restano ammutoliti. Poche ore prima Gigi Meroni era stato il trascinatore in una domenica trionfale e ora non c’era più. Fossati, inseparabile compagno di stanza fin dai tempi del Genoa, è una maschera di dolore, Nestor Combin non ci vuole ancora credere. Negli spogliatoi del “Comunale” lui e Gigi si erano lasciati giurando solennemente di battere la Juve la domenica successiva, per la soddisfazione loro e del popolo granata. “Domenica gliene farai tre" sentenzia Meroni all’amico, senza possibilità di replica.

LA DOMENICA SUCCESSIVA c’è il derby con la Juventus. I ragazzi sentono di giocare in 10 anche se formalmente qualcuno la maglia numero 7 la indossa. La indossa il giovane Carelli. Nestor Combin non ha dimenticato quelle parole: “Domenica gliene farai tre”. Ha avuto la febbre a 39 per tutta la settimana, l’attaccante franco-argentino è nella lista dei sicuri assenti per domenica 22, ma sta facendo di tutto per rimettersi. C’è un patto e i patti si rispettano. A quel punto per “l’indio” vincere ha il sapore del dovere morale, anche perché Meroni non aveva mai vinto con la Juve. A Gigi quella vittoria è dovuta. Il Torino gliela deve. Il popolo granata avrà pure diritto un sorriso. Non c’è tempo per recriminare, si gioca e basta.

LO STADIO E' PIENO. Sono passati pochi minuti, due, forse tre. Bercellino, commette fallo al limite dell’area su Moschino. Calcio di punizione per il Toro. La barriera è piazzata, ma stranamente si apre. Botta secca di Combin e la palla entra nella rete del portiere Colombo fermo lì a guardare. Corre sotto la curva “l’indio” in una gioia cui si mischiano sentimenti contrastanti. Quel gol lo vuole condividere con i suoi tifosi, loro sanno bene perché. Lui, il suo segno sul derby l’ha già lasciato. Ma tutto questo non basta a placare il suo fuoco. Mancano ancora 86 minuti da giocare. Passano altri quattro minuti e l’attaccante scambia palla con Facchin, vede un corridoio buono e ci prova ancora. A volte l’effetto sorpresa funziona meglio di qualsiasi schema preparato in allenamento. Un tiro da trenta metri e il portiere bianconero resta come una statua. 2-0. Non è una doppia botta di fortuna, il Toro è superiore in tutti i reparti, corre di più, ha testa e cuore dalla sua parte. Nella ripresa la Juve ci prova, e non giocherebbe neanche male, ma non è giornata. Crea azioni, ma dalle parti del portiere Vieri proprio non ci arriva. E al quarto d’ora della ripresa, cala il sipario. Combin dopo un’azione manovrata a centrocampo, alla quale la difesa avversaria non sa opporsi, supera l’ultimo uomo e la mette dentro ancora una volta. Lacrime e sorrisi si mischiano in modo indistinto. Nestor è stato di parola. Tre gol a zero. Ma la partita non è ancora finita. La Juve ci prova ancora, per salvare almeno la faccia, ma il giovane Carelli non è d’accordo. Del vero e insostituibile titolare non ha molto, se non la buona volontà in campo, ma quel pomeriggio d’autunno sembra sorretto da un motore supplementare. La riserva di Meroni si scatena sulla fascia, converge verso il centro, nel tentativo di servire ancora Combin. Ma il terzino avversario scivola, lasciando un corridoio spalancato verso la propria porta. Carelli si presenta solo davanti a Colombo e va in rete con una freddezza che da lui non si era mai vista prima. Forse ha segnato Carelli, forse ha soltanto segnato “la maglia numero 7”. 4-0 e finisce con il “torello” a centrocampo. Non era mai successo che il Toro battesse i cugini con quel risultato. Non sarebbe successo più. Dall’alto, spunta un sorriso che non tutti riescono a vedere.

Diego Mariottini