Gli occhi sognavano, la mente programmava e tutti i muscoli le andavano appresso. Lo svedese Ronnie Peterson aveva due anime che convivevano e talvolta si scontravano, ma che soprattutto in gara sapevano procedere all’unisono. Sembrava freddo, distaccato, ma era tutta apparenza. Lui, nei momenti che facevano la differenza, c’era. “Ronnie era grande, grandissimo, secondo me il migliore, anche se non ha vinto mai un mondiale”.
A celebrarne la memoria sono le parole di Niki Lauda, un altro fuoriclasse del volante, non certo uno dal complimento facile. Dunque, parole da prendere per oro colato.
Sono passati 40 anni dalla morte del grande driver scandinavo e molti hanno ancora davanti agli occhi le immagini tv di quell’11 settembre 1978 all’autodromo di Monza, quando un segnale verde dato con troppo anticipo crea i presupposti del tamponamento a catena che costerà la vita al pilota e il ferimento ad altri contendenti. Sono pochi tuttavia a ricordare che l’ 8 settembre 1974, su quella stessa pista, lo svedese trionfa al termine di una gara accorta e spregiudicata nello stesso tempo. E non sarà l’ultima volta, né la prima, come vedremo. Del resto, quando a fine percorso si è arrivati a mettere in fila gente di classe e di esperienza come i brasiliani Emerson Fittipaldi e Carlos Pace, il sudafricano Jody Shekther , il neozelandese Dennis Hulme, l’italiano Arturo Merzario e si sa approfittare di una giornata storta proprio del grande Niki Lauda, vuol dire che la stoffa c’è. Ma Ronnie, nome completo Ronnie Bengt Peterson, nato il giorno di San Valentino del 1944, a Örebro, appena 100 chilometri da Linköping (patria delle automobili SAAB) non è tipo da vantarsi delle proprie qualità. Da buon nordico, alle chiacchiere preferisce far parlare i fatti e rombare i motori.

IL KART COME TRAMPOLINO DI LANCIO – Come tanti suoi colleghi delle generazioni successive (Schumacher, Senna, Prost, lo stesso Alonso) anche il giovane Ronnie si fa le ossa sui Kart, ottenendo, già giovanissimo, risultati di rilievo. Negli occhi e nella mente ci sono già le monoposto della Formula 1: quelle grandi, potenti, rischiose, difficili. Ma alla Formula 1 si arriva per gradi. Passa così dai Kart alla Formula 3 sul finire degli anni ’60 e per la prima volta incrocia il proprio destino con l’Italia. Sono quelli della Tecno i primi a notare le qualità di un pilota apparentemente essenziale, ma di grande solidità mentale e capace di piazzare il colpo giusto al momento giusto. Uno di quelli piloti che oggi pochi prenderebbero sul serio perché non si fa il piercing, i capelli da galletto e non litiga con il prossimo su Twitter. Del resto il kart è così: ti insegna a dominare l’istinto ma non a reprimerlo, a studiare l’avversario e a superarlo al momento opportuno, approfittando di qualsiasi defaillance dell’altro. Il giusto mix di spregiudicatezza e di attendismo. E vedono ben oltre le apparenze, gli italiani della Tecno, perché quel ragazzone timido che in apparenza vive su una nuvola, fa subito centro, anzi ne fa due. È infatti campione del mondo nel 1968 e poi l’anno successivo.

SI APRONO LE PORTE DELLA FORMULA 1 – Il 1970 è l’anno della consacrazione e degli addii. Della consacrazione, perché è chiaro a tutti che Ronnie è pronto per il grande salto in Formula 1. Degli addii, perché la casa italiana si rende conto di non poter più trattenere il campioncino svedese e gli lascia spiccare il volo. Ma l’Italia, e in particolare l’autodromo di Monza, avranno un ruolo importante per la carriera del pilota, che nel frattempo ha firmato per la inglese March. Dopo un primo anno interlocutorio, praticamente privo di risultati, sarà il 1971 l’anno della svolta. Lo stile da “attaccante prudente” di Ronnie, il cui marchio di fabbrica sarà la controsterzata bruciante, si impone nel circus della Formula 1. Al termine di quel mondiale il “ragazzo su una nuvola” è secondo, alle spalle di un imprendibile Jackie Stewart. Del resto quando un campione come l’inglese arriva a vincere 6 Gran Premi su 11, vuol dire che è aperta soltanto la battaglia per le piazze d’onore. Alla Tecno saranno stati i primi a intravedere le qualità di Peterson, adesso tutti possono ammirare di che pasta è fatto il pilota di Örebro. Dopo un 1972 deludente, soltanto un terzo posto al GP di Germania e una 9° posizione in classifica finale, l’anno successivo avverrà il passaggio a una casa più importante.

LA CONSACRAZIONE ALLA LOTUS. Con la nuova vettura ogni traguardo sembra possibile e il 1973 sarà un anno denso di soddisfazioni ma anche di qualche delusione. Il pilota, ormai 29enne, si aggiudica 4 Gran Premi: Francia, Austria, Stati Uniti e soprattutto Monza. Finisce terzo nella classifica finale alle spalle di Emerson Fittipaldi e del nuovamente iridato Stewart. È tuttavia convinzione comune il fatto che senza i troppi ritiri subiti a inizio stagione la corona mondiale andrebbe senz’altro in terra scandinava. Sembra affezionato all’Italia e in particolar modo a Monza, Ronnie Peterson. Infatti l’anno dopo, Ronnie bissa. Ma l’affermazione più bella, la più difficile, quella che lo fa entrare nel cuore dei tifosi italiani (che lo amano anche se non guida una Ferrari) avviene nel 1976, quando lo svedese si afferma a Monza per la terza volta, al termine di una gara incredibile, sotto un tempo da lupi, in un clima del tutto inconsueto per il Belpaese dei primi di settembre. Quel giorno il ferrarista Clay Regazzoni e il francese Laffite su Ligier devono accontentarsi dei gradini più bassi del podio. La Lotus e Ronnie Peterson sembrano un binomio vincente, inossidabile, ma non sarà così.

LA ROTTURA CON COLIN CHAPMAN E LA FINE – Dopo una breve parentesi alla Tyrrell, nel 1978 il campione svedese torna alla Lotus ma il patròn Colin Chapman sembra avere occhi soltanto per l’altro pilota, l’italoamericano Mario Andretti. Non sarà vero, forse, ma il contratto capestro che Ronnie Peterson è costretto a firmare lo relega di fatto a seconda guida della casa di Norfolk. Proprio lui, più volte vicino al titolo iridato e ora ridotto a comprimario del collega-rivale. Per questo motivo, Ronnie firma per la Mc Laren in vista dell’anno successivo, ma prima di cambiare casacca c’è ancora una stagione da terminare. Poi si libererà di Chapman e comincerà una nuova avventura in Formula 1. Il 10 settembre 1978 è di scena ancora una volta il Gran Premio d’Italia. Per Ronnie è la “sua” gara, Monza è la “sua” pista. Si parte, ma qualcosa non va. Un’accensione troppo anticipata del semaforo verde. Dopo una collisione il pilota svedese si schianta contro il muretto del collegamento con la pista junior e, dopo essere stata colpita dalla Surtees di Brambilla, la sua auto prende fuoco. I soccorsi sono lenti e caotici: all’italiana diranno i maligni. Sid Watkins, medico ufficiale della FIA, viene inspiegabilmente allontanato dai Carabinieri. È James Hunt il primo a raggiungere l'auto di Peterson e ad adoperarsi per liberarlo dai rottami. L'ambulanza arriva dopo 18 minuti. Il campione è estratto dalla vettura vivo e cosciente, ma con sette fratture alla gamba sinistra e quattro alla destra. Viene trasportato all'ospedale Niguarda di Milano e ricoverato nel reparto di terapia intensiva. La mattina seguente un’embolia lipidica ne causa la morte, proprio quando sembrava che il peggio fosse passato. Il grande Ronnie Peterson, secondo nella classifica finale del 1978 post mortem, perde la vita in quello stesso autodromo in cui 4 anni prima, l’8 settembre 1974, i tifosi italiani lo avevano applaudito vincitore. Come direbbe Lucio Dalla, “Nuvolari rinasce come rinasce il ramarro, batte Varzi e Campari, Borzacchini e Fagioli, Brilliperi e Ascari”. Ma troverebbe nello svedese Ronnie Peterson un osso duro, molto duro, aggiungiamo noi.

Diego Mariottini