18 gennaio 1985, Parigi. Nel mondo dell’atletica Giuliana Salce non è certo una sconosciuta, ma il grande pubblico deve ancora scoprire le sue doti. Gli auspici sono i migliori. E poi, per noi italiani vincere a casa dei francesi dà più gusto, c’è poco da fare. La gara è la marcia e la manifestazione è quella dei mondiali indoor. Ma la storia di Giuliana è anche la storia di una donna nata due volte. È una vicenda di doping, di errori, di pentimento, di redenzione. Di trappole invisibili e di ambienti che si vendicano perché di legalità non vogliono sentir parlare. Sono le parole della diretta interessata a ricostruire gli splendori di un’atleta che fa grande l’Italia e che poi finisce nell’oblio. Tanto da non trovare più lavoro da nessuna parte per tanto, troppo tempo.

SI’, Giuliana Salce non è una sconosciuta e le avversarie sanno di essere di fronte alla numero 1. Del resto, non è lei a dirlo, sono i fatti, i tempi realizzati e i risultati. Non sarà un’atleta che copre le prime pagine dei quotidiani sportivi, ma non è colpa sua se nella gerarchia dei lettori l’ultimo dei calciatori viene prima di qualsiasi campione di altre discipline. Due anni prima, a L’Aquila, l’atleta romana aveva stabilito il record del mondo sui 5 km di marcia all’aperto su pista, con un tempo per allora straordinario: 21’51″85. D’improvviso la russa Aleksandra Deverinskaya si trova fuori dal libro dei primati. Negli anni 80 il mondo è ancora diviso in occidente capitalista e blocco comunista e Giuliana, per non fare torto a nessuno, mette in fila anche le americane. Nel febbraio 1984 la statunitense Sue Brodock perde il record sul miglio che deteneva da 5 anni e nello stesso mese viene ritoccato anche il primato sui 3 km di marcia.

RITOCCATO? No, diciamo pure sbriciolato, distrutto, smaterializzato: tra il precedente record e quello appena stabilito passa qualcosa come 12 secondi, più del tempo che copre la distanza dei 100 metri piani. Nella tappa di avvicinamento ai mondiali di Parigi, la Salce manda alle avversarie un altro messaggio chiaro e inequivocabile. A Genova, una settimana prima del grande evento, stabilisce infatti la migliore prestazione mondiale indoor sui 2 km di marcia, fermando il cronometro a 8’21″13 e polverizzando il record sulla distanza che già da 5 anni le apparteneva. Fa già paura così, ma ciò che avviene il 18 gennaio di tanti anni fa al Palais Omnisports de Paris-Bercy è consegnato agli annali dell’atletica leggera. Del resto se il nome di Giuliana Salce è presente nella Hall of Fame dell’atletica leggera, ci sarà pure un motivo.

Giuliana, che cosa accade a Parigi quel 18 gennaio di 33 anni fa?

Innanzitutto va detto che quella era una manifestazione molto particolare, il primo campionato mondiale di atletica leggera indoor. Quello del 1985 era un inverno particolarmente freddo in tutta Europa. Ricordo la neve a Roma dopo 15 anni, figuriamoci che cosa poteva essere Parigi. Un inferno bianco. Nell’ultimo periodo mi ero allenata a Formia, dove il clima era un po’ più mite che altrove e c’era il pistino coperto. Il venerdì della gara, dopo essere arrivata a Parigi accreditata come una delle favorite, vedo una marea di marciatrici che stanno lì a contendersi il titolo con me. Avevo fatto tantissimi sacrifici e il mio unico obiettivo era vincere. Per dire, credo di essere stata l’unica a non avere visto la Torre Eiffel. Pino Dordoni, il responsabile della Nazionale di marcia, mi regalò una medaglia d’oro come augurio e mi diede un importante consiglio, quello di saper aspettare. Tattica immediatamente disattesa dal mio comportamento in pista. Partii molto forte, quasi senza rendermene conto, poi mi chiesi se avevo fatto bene. Arrivai all’unica conclusione logica: se avessi rallentato avrei compiuto un gesto inutile. Tanto valeva proseguire su quei ritmi. Rimasi in testa fino alla fine e ricordo bene che all’ultimo giro pensai “Ora vado a vincere e basta”. All’arrivo dissi a me stessa “Ora sono veramente campionessa del mondo”. Feci il giro d’onore con il cono di luce che mi seguiva, come se fossi a teatro. Nel Palais suonavano le note di “2001, Odissea nello spazio”, quella musica mi è rimasta nella testa. Finita la premiazione telefono subito a mio padre e in modo molto romano gli dico “Ah Papà, so arivata prima”. Un’emozione pazzesca per entrambi.

Dopo quella grandissima affermazione non ti fermi certo lì…

Ho avuto altre bellissime soddisfazioni, Parigi è soltanto la più significativa in assoluto. Nella mia carriera ho migliorato 17 volte il record del mondo nella marcia, sia indoor che outdoor, perfino nella mia ultima corsa. I risultati più importanti degli anni successivi sono stati l’argento agli Europei di Liévin, sempre in Francia, del 1987. Nello stesso anno arrivo seconda anche al Mondiale di Indianapolis, negli Stati Uniti. Poi, a causa di qualche problema di salute smetto l’attività nel 1988, a 33 anni e per un decennio io e lo sport ci dividiamo.

Poi però passi al ciclismo e anche sulle due ruote i risultati arrivano…

Il ciclismo mi è servito per recuperare un buono stato di salute, poi quella delle due ruote è diventata una pratica sportiva a buon livello. Nel 1999 sono stata inserita nella Categoria Master, dopo due anni di corsa amatoriale. Ho fatto parte della Nazionale e agli Europei in Austria del 2000 mi sono classificata sesta. Ho vinto anche il Campionato italiano a cronometro e quello della Montagna nel 2000.

All’inizio del nuovo millennio sei improvvisamente al centro di una vicenda di doping nella quale però alla fine dimostri di quale pasta sia fatto il tuo carattere. La vogliamo ripercorrere brevemente?

La riassumo per stati d’animo. Nel doping si può cadere per tanti motivi, ma anche i modi posso essere più d’uno e il brutto è che in certi frangenti neppure te ne accorgi. In certi casi ci si scivola quasi inconsapevolmente, oppure per frustrazione. Quasi sempre si è malconsigliati. Nel mio caso – e non vuol essere una giustificazione, ci mancherebbe – mi sono dopata per migliorare prestazioni e salute, ma non dici a te stessa che ti stai dopando: essenzialmente ti stai aiutando. Il mio poi è stato un caso abbastanza particolare perché per anni sono stata bulimica e anoressica, era più la testa a portare avanti il corpo che il contrario. Ad ogni modo, il mio “rapporto” con il doping è durato 4 mesi. Ho deciso di autodenunciarmi dopo la morte di Pantani, a seguito di una grave crisi interiore. Anni prima avevo fatto una denuncia anonima, ma non si può dire che sia la stessa cosa. Per nulla. Se vuoi portare in evidenza un problema devi farlo esponendoti sul piano mediatico, c’è poco da fare. Ho dovuto superare l’ostilità di tutto l’ambiente sportivo, che si è completamente chiuso a riccio. Al punto che anche trovare un impiego è stato un grande problema. Me la stavano facendo pagare con ogni mezzo. Oggi lavoro come operatrice ecologica presso l’AMA (l’azienda municipalizzata che si occupa della nettezza urbana a Roma, nda). Quando posso vado nelle scuole a portare la mia testimonianza. Quella di una persona che ha sbagliato e che i ragazzi non devono imitare.

Cosa ti manca di oltre 30 anni fa, quando hai compiuto un’impresa come quella di Parigi?

Non vorrei essere fraintesa ma mi manca il clamore dell’impresa su giornali e televisioni. Non tanto per me quanto per la visibilità dell’atletica e della marcia nello specifico. Ogni volta che vincevo era come avere fatto uno spot all’atletica leggera ed era bello, perché il movimento nel suo complesso cresceva. Per assurdo più di trenta anni fa il calcio non aveva il predominio mediatico sugli altri sport, così come avviene oggi. Ed è veramente assurdo, perché rispetto ad allora ci sono più mezzi di comunicazione e più canali dedicati. Quindi esistono spazi che però non vengono utilizzati. Sì, l’interesse dei media mi manca davvero.

Diego Mariottini