Lo sport racconta storie, non tutte a lieto fine. In questo caso il lieto fine proprio non c’è.Un tardo pomeriggio di 52 anni fa muore il nuoto italiano. O perlomeno il destino elimina in pochi istanti un lavoro di anni, che avrebbe sicuramente portato in dotazione al Paese grandi campioni. È venerdì 28 gennaio 1966 e le agenzie di tutto il mondo battono una notizia che lascia attonito anche chi non ha dimestichezza di piscine. A Brema, nel nord della Germania (allora Ovest) un aereo della Lufthansa partito da Francoforte precipita in fase di atterraggio. Nebbia, luci difettose, errore umano. Nessun superstite. Tra le 46 vittime (i passeggeri, più l’equipaggio al completo) c’è una selezione della Nazionale italiana di Nuoto e un giornalista RAI diretti al meeting di Brema, il più prestigioso appuntamento della stagione indoor. Le vittime italiane saranno 9. La RAI diffonde la notizia all’ora di cena e azzera il sorriso dalla  faccia di chi vorrebbe guardare il Festival di Sanremo in santa pace. Mentre Modugno canta “Dio, come ti amo”, loro muoiono. L’opinione pubblica è scossa, poi sulla notizia cala pian piano la nebbia.Oggi questa storia la ricordano in pochi. Ci vorranno decenni di ricostruzione da parte della Federazione e del CONI per creare le basi di un movimento ancora una volta competitivo a livello internazionale.Ma quella di Brema non è soltanto una tragedia, appare piuttosto come una sorta di “Spoon River” in trasferta. Testimonianze di vita sportiva che vita non è più.

 

 

LA BALLATA DEL LAMPO NEL CIELO. Sono giovani, molto promettenti. Hanno davanti a sé un futuro di grandi soddisfazioni professionali. Qualcuno ha già conseguito buoni piazzamenti, perfino a livello internazionale. Non hanno vinto medaglie olimpiche, ma per quelle c’è tempo. Il più anziano dei ragazzi deve ancora compiere 23 anni, la più giovane ne ha 17 ed è già soddisfatta per essere stata convocata. Devono andare in Germania a difendere il Tricolore in un importante meeting di nuoto. Non hanno la notorietà dei calciatori e neppure il conto in banca dei più ricchi fra loro. Sono semplicemente atleti che hanno un rapporto speciale con l’acqua e che in piscina stanno costruendo il loro futuro. Ricordiamoli con le loro ipotetiche parole. Spoon River, sì. O La Ballata del lampo nel cielo, se si preferisce.

BRUNO BIANCHI(22 anni). Ero el vecio, l’anziano del gruppo. Di me si fidavano, dicevano che davo sicurezza. Addirittura, che portavo fortuna, permettetemi di dubitarne. Facevo stile libero.E quando nuotavo mi sentivo veramente libero. Alle Olimpiadi di Roma 1960 arrivai sesto nella staffetta 4 x 100. Non male per un ragazzo di 17 anni, vero? Poi il record italiano sui 100 e i 200 è stato mio. Sì lo so, oggi ci mettono la metà del tempo, ma almeno non mi dopavo, io. Vivevo da solo, a Torino, non era un problema. Lavoravo alla Fiat per mantenermi, non ero mica figlio di papà. A Trieste, la mia città, qualcuno ancora si ricorda di me. Mi hanno dedicato una piscina, meglio che niente. Non ho nulla da recriminare, quella sera è stato un errore umano. Pioveva, succede. Però, porca miseria, io volevo nuotare e ora volo.

SERGIO DE GREGORIO (20 anni). Ma quali 20 anni, non ci sono mica arrivato. Mi mancava un mese. Ero bello, lo so, non è colpa mia. Piacevo. Dicevano che sembravo un attore, uno di quelli che fanno i film o i fotoromanzi, ma che senso ha, adesso. Ho conquistato cinque titoli italiani e ho battuto 16 record. Ero gajardo, come dicono dalle parti mie, a Roma. Tempi da record alla mano, andai perfino a Tokyo nel ’64, alle Olimpiadi. Non potevamo vincere, eravamo troppo giovani e inesperti, però in finale ci siamo arrivati lo stesso. Ma che senso ha, adesso. Ci credevo, ho faticato, mi allenavo anche di notte. A Brema avrei fatto vedere a tutti chi ero, sarebbe stata la volta buona. Poi, nessuno mi avrebbe fermato più. Ma che senso ha, adesso.

AMEDEO CHIMISSO (19 anni).Io andavo a dorso, filavo che era una bellezza. Andavo all’indietro in piscina, forse perché nella vita mi piaceva andare controcorrente. Certe volte è meglio andare senza guardare dove vai.Tanto, se è destino arrivi pure a occhi chiusi. Oppure no. Ero di Venezia, abitavo alla Giudecca ed è lì, tra un canale e l’altro che ho imparato a nuotare. Il successo stava per arrivare, l’ultimo giorno della mia vita ho addirittura stabilito la miglior prestazione italiana sui 200 misti. Sì, a dorso ero forte, ma la morte l’ho dovuta per forza guardare dritta in faccia. Curioso, no?

LUCIANA MASSENZI (20 anni). Avevo tutto per sfondare. Il talento, la grinta, la voglia continua di migliorarmi. Ero di Roma, come Sergio, e come Sergio avevo una grande “tigna”, si dice così da noi quando hai cattiveria agonistica da vendere. Con Amedeo invece avevo un altro aspetto in comune: facevo dorso. Se avessi 20 anni oggi forse farei gli spot dello shampoo e le passerelle in défilé, ma sono altri tempi, per carità. Non mollavo mai, sono andata perfino in Francia per migliorarmi. Quel giorno invece dovevo andare in Germania per consacrarmi. Daniela Benecknon aveva la mia stessa grinta e allora al suo posto per Brema scelsero me. Per giunta, quel giorno si sposava la sorella. Daniela è ancora viva.

CARMEN LONGO (18 anni). A Bologna, rane come me non ce n’erano. Anzi, permettetemi di essere un po’ immodesta: in Italia. Sì, ero la più brava, fatemelo dire. Avevo talento ma ci ho lavorato molto, eh. L’allenatore non mi regalava nulla e nelle giornate in cui mi sentivo svogliata mi ricordava sempre che non ero ancora nessuno per cullarmi sugli allori. Funzionava. Mah, allori ne ho vinti pochi, non ho fatto in tempo. Il giorno dopo la mia morte, nella gara dei 200 rana, nella mia corsia c’era uno spazio vuoto. Beh, almeno non si può dire che quella gara l’abbia persa. Bisogna pur vedere il lato positivo delle cose, diamine.

DANIELA SAMUELE (17 anni). Ero la riserva e mi avevano convocato per la prima volta. Dicevano che ero la classica milanese, concreta e lavorativa, ma non era del tutto vero. Avevo i miei sogni, piccoli sogni, quelli di una ragazzina come me. Facevo il liceo artistico e avevo due modi per sognare: disegnare e nuotare. In valigia avevo messo un abito da sera di chiffon. Non me lo sarei mai tolto, per nessuna ragione al mondo.

DINO RORA (20 anni). Andavo anch’io a dorso, ma non perché fossi un tipo controcorrente. Mi piaceva.E poi a dorso stabilivo i miei tempi migliori, tutto qui. A Torino mi conoscevano tutti, gareggiavo per la Fiat Ricambi. Ai Giochi del Mediterraneo del ’63 fui grande. Arrivai terzo nei 200 ma soprattutto vinsi l’oro con la staffetta mista. Alle Olimpiadi di Tokyo non ero ancora maturo, ma avevo il tempo dalla mia parte. Ho una piccola confessione da fare: Dino è il diminutivo. Mi chiamo Chiaffredo ma non ditelo a nessuno. Un po’ mi vergogno.

PAOLO COSTOLI (55 anni). Quanto mi piaceva essere il loro allenatore, erano ragazzi fantastici. Con loro ho passato i momenti di sport più belli della mia vita. Perfino più belli di quando in vasca ci andavo io. Tra nuoto e pallanuoto, in piscina praticamente ci vivevo. E che soddisfazioni! Sono nato a Firenze ma mi sentivo cittadino del mondo. Mi piacevano due cose: lo sport e viaggiare. La vita mi ha permesso di farle entrambe, fino alla morte. Ce ne siamo andati insieme, io e miei “bischeri”, quella sera. Nello stesso lampo che da terra è salito fino in cielo. Forse è stato giusto così, chissà. Ma almeno Nico, il destino lo poteva anche risparmiare.

NICO SAPIO (36 anni). No Paolo, non sono d’accordo. La vita è spesso una cooperazione senza merito per chi ne gode i frutti e la morte non fa altro che invertire questa logica. Io facevo il giornalista e vi seguivo. Era il mio lavoro e ogni lavoro espone a rischi. Al Centro RAI di Genova volevano che facessi la diretta del meeting di Brema e io puntualmente ci sono andato, senza discutere. Il nuoto e la vela erano le mie specialità. Non sentirti in colpa per me, tu non c’entri nulla. Ti ricordi quando feci quel servizio radiofonico sulla morte di Fausto Coppi? Mi fecero tanti complimenti. Parlavo del destino, quel giorno, e mi veniva in mente “Per chi suona la campana”. Ma per chi vuoi che suoni, la campana? Ci siamo dentro tutti, Paolo. E quell’attrice tedesca, quella che stava tre posti avanti a noi? Se n’è andata con lo stesso lampo e non è mica colpa di nessuno. Pensa piuttosto che forse il nostro sacrificio è servito a qualcosa. Ci sarebbe stata la Pellegrini, Magnini, Fioravanti, Battistelli, la Quadarella e tutti gli altri, senza di noi? Io dico di no e già per questo dovremmo essere felici. La gente dimentica, è nuoto, mica calcio. Ma se il CONI e la Federazione si sono dati da fare per ricostruire un intero movimento e i risultati alla fine sono arrivati, dobbiamo esserne contenti. È con i risultati che si lascia memoria di sé. Non farti cattivi pensieri. Guardiamo avanti, il meglio deve ancora venire. Forse.

Diego Mariottini