Espanolito qui vienes / al mundo/
te guarde Dios /Una de las dos Espanas/ha de helarte
el corazon.

(Piccolo spagnolo che vieni al mondo che Dio ti protegga
Una delle due Spagne ti gelerà il cuore )

(Antonio Machado scrittore e poeta spagnolo)

Francisco Paulino Hermenegildo Teódulo Franco y Bahamonde, meglio noto, anzi, tristemente noto, come Francisco Franco o Caudillo de Espana, seguiva il calcio con una passione quasi compulsiva. Identica maniacale attenzione dedicò alla guida del governo, della Spagna, dal 1° ottobre del 1936 al 20 novembre del 1975. Trentanove anni di dittatura! Il Generalismo (generale dei generali) (titolo in uso nell’esercito bizantino), che il Franco gradiva in particolar modo, era in grado di recitare le formazioni del Real Madrid di decenni prima. El Caudillo, dunque, improntò tutta la sua vita, pubblica e privata, ad un solo stile: l’ultrà. Paul Preston, uno dei massimi esperti di Storia della Spagna contemporanea, ha scritto: ”Franco era particolarmente sensibile alla coreografia pseudo medievale che caratterizzava molti dei grandi eventi pubblici ai quali prendeva parte. Il suo ritratto, comunemente diffuso come re guerriero o, più precisamente, come El Cid aveva lo scopo sia di lusingare lui in persona, sia di rendere il nucleo centrale di quella che passava per l’ideologia della dittatura.
Da bravo merengue (tifoso del Real Madrid) Franco detestava, ma è più esatto dire odiava, i culès ( tifosi del Barca). Le ragioni di tanta animosità non erano solo calcistiche. La Catalogna era stata l’ultima ad arrendersi alle sue truppe che avevano conquistato l’intero paese. Una resistenza accanita che, nelle suggestive Ramblas di Barcellona, assunse le caratteristiche di una sanguinosa guerriglia urbana.
Le truppe d’occupazione entrarono in città – ha scritto Manuel Vàzquez Montalban – e quarta nelle organizzazioni da purgare, dopo i comunisti, gli anarchici e i separatisti c’era il Barcellona Football Club.”
Agli inizi della rivolta franchista le truppe nazionaliste arrestarono e giustiziarono il presidente del Barca Josep Sunyol, simpatizzante della sinistra. Nel corso dell’offensiva finale, per piegare la ribelle Catalogna, il palazzo che ospitava la sede del club blaugrana, dove erano custoditi i trofei conquistati dalla squadra, fu bombardato e praticamente raso al suolo. Ma la vendetta franchista non si limitò alla distruzione materiale della sede societaria. La punizione doveva essere completa. Andava dunque annientata l’identità del club barcellonese. Il nuovo regime impose il cambio di denominazione. Da Futbol Club Barcelona in Club de Futbol Barcelona. Una sottile perfidia per imporre la versione castigliana del nome.

DUE SPAGNE
Real Madrid
e Barcellona non rappresentano solo due modi di intendere il calcio. Incarnano due modi di intendere la Spagna. Sono due Spagne, due popoli con storia e tradizioni diverse. Senza contare poi la lingua. A Madrid si parla il castigliano, che è quella ufficiale del Paese, della Casa Reale. A Barcellona si parla il catalano che a Madrid viene considerato, con un certo disprezzo, più o meno un dialetto. Il Real Madrid è da sempre la squadra del potere politico, governativo.
Nel 1920, re Alfonso XIII, grande appassionato di sport e di calcio in particolare, patrocinò diverse società calcistiche che presero il titolo di Real, tra queste, oltre al Real Madrid, anche la Real Sociedad, Real Betis e Real Union. Un onore che, ovviamente, il Barcellona non ha mai rivendicato.
Sotto il suo regno il Primo Ministro era Miguel Primo de Rivera, che odiava il Barca con lo stesso accanimento del suo successore Francisco Franco. De Rivera bandì dal Regno il catalano e la bandiera della Catalogna. Ovviamente, in virtù del suo valore simbolico, il Barca subì una feroce repressione.
Nel 1925, prima di una partita amichevole, i tifosi catalani fischiarono l’inno nazionale. De Rivera chiuse per sei mesi lo stadio e inflisse una pesante pena pecuniaria alla dirigenza. In Cuore di ghiaccio – il grande romanzo di Almudena Grandes, in realtà un affresco epico delle due Spagne – un personaggio prende a prestito il verso di Machado e dice: "Difenditi dalle domande, dalle risposte e dalle loro ragioni, o una delle due Spagne ti gelerà il cuore. Il mio cuore era di ghiaccio e bruciava.”

BATALLON DEPORTIVO
Nell’autunno del 1936 le truppe dei nazionalisti avanzavano in maniera inesorabile. L’Andalusia e l’Extremadura erano sotto il controllo dell’Armata Sud di Franco. L’obiettivo vero, strategico, ma anche simbolico, era la capitale. A Madrid si lavorava alacremente per organizzare la resistenza. Per contrastare l’offensiva nemica migliaia di lavoratori si organizzarono in corpi volontari. Ma, non solo lavoratori, anche il mondo dello sport volle unirsi allo sforzo.
Nacque il Batallon Deportivo. Era costituito da atleti di varie discipline, professionisti e dilettanti. Furono parecchi i calciatori che chiesero di farne parte. Alcuni anche di prestigiosi club.
Emilín1, Espinosa, García de la Puerta, Lekue, Quesada e Villita (Madrid CF); Cosme (dirigente, ex attaccante) e Marín (Athletic de Madrid); Fraisón (Sporting de Gijón); Gómez, Paquillo e Trinchant (Ferroviaria); Moleiro (Carabanchel); Alcántara e Pablito (Club Deportivo Nacional); Cotillo (Tranviaria); Pedrín (Salamanca); Rocasolano II (Mirandilla de Cádiz), più altri giocatori di squadre minori.
I calciatori furono attivi anche nelle attività di propaganda. Più famosi degli atleti di altre discipline esercitavano un forte richiamo sulla popolazione. Si organizzavano, ad esempio, amichevoli e gli incassi venivano devoluti agli orfani di guerra.
Verso la fine di settembre di quell’anno una formazione del Batallon disputò una partita contro l’Athletic di Madrid (antica denominazione dell’attuale Atlético), vinta 2-0 grazie alle reti di Trinchant e Pablito. Il calcio svolse un ruolo di rilievo nelle attività dello speciale reparto. Una compagnia prese il nome di Josep Sunyol, presidente del Barca assassinato dai franchisti Le mostrine, sulle divise dei soldati-sportivi, erano giallorosse, i colori delle maglie della nazionale spagnola di calcio.

LE GRANDI SFIDE DEI CLASICOS
El Clasico espanol
è il derby delle due Spagne. Derby è una definizione non idonea, vi abbiamo fatto ricorso per dare una definizione immediata dell’evento, ma non è sufficiente.
Ogni anno, Real Madrid e Barcellona, si affrontano in due partite che fermano il tempo della nazione iberica. Si tratta di una sfida, tra due club portatori di una forte identità, che, naturalmente, non è solo calcistica. Alcune di queste sfide hanno fatto storia e quando diciamo storia intendiamo quella con la S maiuscola. Il Clasico del 1943, nei libri di Storia, ci è entrato dalla porta principale.
Franco è saldamente al potere. La Spagna, rammentiamo, non partecipò alla 2a guerra Mondiale. Si dichiarò neutrale. Era reduce da una sanguinosissima e lunghissima guerra civile e, nonostante le insistenze di Mussolini e di Hitler, non si unì all’Asse.
La partita di andata si disputò il 6 giugno del 1943, a Barcellona, allo stadio Les Corts. Davanti a 60 mila spettatori i blaugrana inflissero una severa lezione di calcio alle merengues: 3 a 0 il risultato finale. La stampa madrilena, com’era prevedibile, si scatenò. Critiche a non finire sull’arbitraggio. Il signor Fombona, secondo la stampa della capitale, era stato intimidito dal pubblico. Non solo, la prima rete, in mischia, era stata preceduta da molti falli. Il rigore, seconda rete, era inesistente. Inoltre al Real non era stato convalidato un goal validissimo. Infine, l’inevitabile complotto (la dietrologia è una storia antica ndr). Secondo i furibondi articolisti le manovre intimidatorie, a danno del Real, erano state orchestrate da un giornalista catalano. Un certo Juan Antonio Samaranch il futuro presidente del Comitato Olimpico Internazionale.
Ad ogni modo, il 13 giugno 1943 si giocò la partita di ritorno.
Lo stadio Chamartin di Madrid era una bolgia infernale. I tifosi del Real accorsero in massa. Prima della partita, agli ingressi, furono distribuiti dei fischietti i cui trilli acutissimi accolsero l’entrata in campo della compagine catalana. L’arbitro, il sig. Celestino Rodriguez, si presentò subito e si rivolse al capitano del Barcellona per chiedergli, con cipiglio severo, di mantenere la calma, altrimenti ci avrebbe pensato lui con qualche espulsione.

LA CORRIDA DELLO CHAMARTIN
L’intemerata del sig. Rodriguez fece capire subito ai barcellonesi che piega avrebbe preso il match. Gli avanti blaugrana, appena s’affacciavano nell’area madrilena ,venivano fermati da qualche strano fuorigioco. Riuscirono, tuttavia, a fare un goal, ma venne prontamente annullato dall’ineffabile senor Rodriguez. Ma, come si dice ,poiché le disgrazie non vengono mai da sole, il Barcellona perse due uomini. Uno espulso, l’altro infortunato e in più il portiere catalano fu costretto a stare fuori dall’area di rigore in quanto oggetto di una fitta sassaiola da parte dei tifosi madrileni, dotati peraltro anche di una buona mira. Ovviamente, in tali condizioni di gioco, il Real Madrid impiegò poco più di venti minuti per pareggiare i 3 goal subiti a Les Corts. Si andò, dunque, al riposo con gli spagnoli in vantaggio per 3 a 0.
E fu durante l’intervallo che accadde l’incredibile.
Il capitano dei catalani, si recò dal signor Rodriguez e lo informò che non sarebbero tornati in campo per la disputa del 2° tempo. Non intendevano mettere a repentaglio la loro incolumità fisica.
L’arbitro riferisce a chi di dovere e, nel giro di un minuto, fece la sua comparsa negli spogliatoi il Capo della Polizia di Madrid.
Senza giri di parole, con un tono che non ammetteva repliche, l’alto funzionario fece loro capire che il rifiuto di tornare in campo avrebbe avuto un prezzo altissimo
.
Intanto, la prosecuzione della loro carriera poteva finire quel pomeriggio, e, aspetto ancor più grave, la loro permanenza sul territorio iberico sarebbe dipesa dalla magnanimità del regime franchista. In pratica li minacciò di esilio forzato.
Rassegnati i giocatori barcellonesi tornarono in campo e il risultato finale è ancora oggi ricordato: 11 a 1 per il Real Madrid.
Ma riteniamo che il trofeo del 1943 non sia esibito, dai merengues, con fiero orgoglio.
O no?

(Segue)