“Chi salva una vita salva il mondo intero”
Dal Talmud

C’è un luogo a Milano che ha una sua storia particolare e che, in qualche modo, è legato a Berlino 1936.
Ma, andiamo con ordine.
Galleria Vittorio Emanuele, primavera del 1944. Un militare osserva tristemente l’ammasso di macerie che invade quello che anche allora era il salotto della città. Via Silvio Pellico è praticamente distrutta. Il quadro è desolante: fili elettrici e pezzi di intonaco che penzolano, la saracinesca di un negozio è accartocciata come una scatola di sardine. La cupola della galleria è praticamente crollata.
Mesi di duri bombardamenti degli alleati avevano ridotto Milano a un cumulo di macerie. Il podestà della città, Piero Parini, lanciò una sottoscrizione per un prestito pubblico. Prestito Città di Milano fu chiamato, ma è ricordato, ancora oggi, con il nome di Prestito Parini.
I milanesi aderirono senza esitazioni e si arrivò alla bella cifra di un miliardo di lire. Allora erano tanti soldi. Parte dei quali era destinata a smaltire le macerie. Si decise di portare i detriti presso alcune cave periferiche. La più grande, tra queste, era quella vicina a San Siro. Divenne La montagnetta di San Siro ed è ricordata anche, con una certa  tristezza, come la tomba delle case dei milanesi.
Tra quanti ci usano la cortesia di leggerci, ci saranno dei milanesi che sanno di cosa parliamo e, forse, soprattutto i meno giovani, ricorderanno una canzone scritta, negli anni ’60, dal cantautore Nino Rossi e interpretata, come soltanto lui sapeva fare, da Nanni Svampa. Il refrain faceva così: Muntagneta de San Sir, tumba dei noster ca’
Sotto quel muntun de tera – cantava Svampa – c’erano le macerie delle case di mezza Milano.

NASCE IL MONTE STELLA
Negli anni dell’immediato dopoguerra la voglia di ricostruire, e anche quella di voltare pagina, era impellente.
Tra i protagonisti della ricostruzione c’era l’architetto urbanista Paolo Bottoni. Le macerie crescevano ogni giorno di più e Bottoni, che progettò il quartiere Q8, ebbe un’idea: perché non trasformare quell’ammasso di detriti in una vera e propria montagna? 
Si cominciò a lavorare nel 1949 e si continuò a farlo per una ventina d’anni. La superficie passò da circa 25 mila metri quadrati a quasi 200 mila per un’altezza di cento metri. Un vero monumento a ricordo degli anni dolorosi e terribili della guerra. Bottoni dedicò la montagna all’amata moglie Stella, scomparsa nel 1956.
La vera trasformazione si verificò negli anni ’70 quando, dalla Toscana, arrivarono olmi, aceri, faggi e pini. Quando nevicava i bambini del quartiere si recavano sul Monte con slittini e sci.
La visione dei bimbi festanti sulla neve fece venire un’idea al Comune. Negli inverni degli anni ’82, ’83 e ’84 il Monte Stella divenne una stazione sciistica. Fu dotato di impianti risalita, neve artificiale e una pista di quasi 250 metri. Si svolsero diverse gare di sci. Ad una di queste partecipò anche un giovane Alberto Tomba, che batté Roberto Erlacher, sciatore alpino che vantava piazzamenti importanti in gare olimpiche e campionati del mondo.

IL GIARDINO DEI GIUSTI
Però è nel 2003 che il Monte Stella trovò un utilizzo coerente con la sua storia. Quell’anno, infatti, venne inaugurato il primo Giardino dei giusti in Italia. Il memoriale ispirato al giardino e Museo di Yad Vashem di Gerusalemme, che ricorda le vittime della Shoah.
I Giardini dei giusti, che si trovano un po’ ovunque nel mondo, celebrano anche chi si è opposto ai genocidi e ai crimini contro l’umanità. Il termine Giusto è tratto dal passo del Talmud che afferma “chi salva una vita salva il mondo intero” ed è stato applicato per la prima volta in Israele con i Giusti tra le Nazioni onorati nel Giardino di Yad Vashem, in riferimento a coloro che hanno salvato gli ebrei durante la persecuzione nazista in Europa.
Gariwo è l’acronimo di Gardens of the Righteous Worldwide e si occupa della creazione dei Giardini dei giusti in tutto il mondo. L’organizzazione ha iniziato la sua attività nel 1999 a Milano. Nel 2003 creò il Giardino dei Giusti di tutto il mondo del Monte Stella.
L’impegno di Gariwo è far conoscere i Giusti educando alla responsabilità personale perché la memoria del Bene è un potente strumento educativo e serve a prevenire genocidi e crimini contro l’umanità.
Nel marzo del 2019, nel Giardino del Monte Stella, viene inserito un nome. Luz Long, con questa motivazione: Atleta tedesco che incarnava lo stereotipo della razza ariana, non esitò, malgrado la competizione sportiva, a suggerire la strategia vincente a Jesse Owens durante le Olimpiadi di Berlino del 1936, abbracciando l’atleta statunitense dopo la sua vittoria. Per tale gesto Hitler inviò Long al fronte in Sicilia dove morì nel 1943. Chiaro esempio di sportività e fratellanza.

LA VERA VITTORIA SUL RAZZISMO
L’amicizia tra Luz Long, campione tedesco di salto in lungo, e Jesse Owens (il vero protagonista delle Olimpiadi di Berlino, con le sue quattro medaglie d’oro in altrettante specialità) rappresentò la vera, importante vittoria sul razzismo nazista e sull’ideologia lugubre che gli faceva da supporto. Avrebbero dovuto essere nemici acerrimi. Non solo in ambito sportivo, ma soprattutto per via delle concezioni della vita e del mondo di cui erano i simboli. Nacque invece un rapporto di stima e affetto.
Le cose andarono cosi.
Owens, nelle batterie del salto in lungo, stava per essere eliminato per via di due salti nulli. Allora Luz gli suggerì dove ‘staccare’ e così i due arrivarono in finale e la gara si trasformò in spettacolo.
I due continuarono a rincorrersi fino a quando Owens spiccò il salto vincente. “Ricordo che, nell’istante in cui toccai terra dopo il mio salto finale, - rammenta Owens nelle sue memorie  Luz mi fu a fianco per congratularsi con me. Nonostante Hitler ci fulminasse con gli occhi dalla tribuna a non più di un centinaio di metri, Luz mi strinse fortemente la mano: e la sua non era certo la stretta di mano di uno che vi sorride con la morte nel cuore. Si potrebbero fondere tutte le medaglie e le coppe d’oro che ho e non servirebbero a placcare in oro a 24 carati l’amicizia che sentii per Luz Long in quel momento».
I f
otografi presenti immortalarono l’evento in una foto, che sarebbe diventata contemporaneamente l’icona simbolo di quelle olimpiadi e della fratellanza tra i popoli.

Finita l’Olimpia berlinese, l’amicizia tra i due continuò attraverso uno scambio di lettere.
Verso la fine del 1942, Long fu arruolato in fanteria con il grado di sergente maggiore. Nel 1943 venne inviato in Sicilia, in quell’anno fronte caldissimo. Ovviamente si trattò di una punizione. Qualcuno non dimenticò la sua amicizia con il ‘nero’ Owens. 
Quattro giorni dopo lo sbarco alleato rimase gravemente ferito e venne trasportato in un ospedale da campo inglese a San Pietro Clarenza, dove però ai medici militari non restò che constatarne il decesso. Solo nel 1950, la Croce Rossa rinvenne i suoi resti nel cimitero di guerra di Ponte Olivo, nei pressi di Gela, per poi traslarli in quello di Motta Sant’Anastasia, dove si trovano tuttora.

Dove mi trovo sembra - scrisse nel 1942 in una lettera a Owens - che non ci sia altro che sabbia e sangue. Io non ho paura per me, ma per mia moglie e il mio bambino, che non ha mai realmente conosciuto suo padre. Il mio cuore mi dice che questa potrebbe essere l’ultima lettera che ti scrivo. Se così dovesse essere ti chiedo questo: quando la guerra sarà finirà, vai in Germania a trovare mio figlio e raccontagli anche che neppure la guerra è riuscita a rompere la nostra amicizia. Tuo fratello Luz”.
Owens, dopo l’armistizio del settembre 1943, volò più volte per incontrare la moglie e i figli di Long.

(SEGUE)

qui per la prima parte:
Berlino 1936 (I) - I nazisti e i Giochi Olimpici come strumento di propaganda