E al di là della notte mi aspetterà
spero il sapore di un nuovo azzurro.
(Nazim Hikmet, poeta turco)

Si approssima la notte e le luci delle 140 villette, a due piani, di Elstal, dove si trova il villaggio olimpico, a soli 20 km da Berlino, cominciano, lentamente, a spegnersi. Fanno pensare a un presepe. La notte è fresca, serena e i sogni degli atleti sono cullati dalle note di una chitarra e da quelle più struggenti di una fisarmonica. Provengono dalla villetta che ospita la nazionale di calcio italiana. Domani, ferragosto, li attende una partita decisiva. La finalissima contro la fortissima Austria. “Finale delle Olimpiadi contro l’Austria! Chi se lo sarebbe mai sognato? – un inquieto Vittorio Pozzo continua a chiedersi andando su e giù per la sua stanza –. Di nuovo il nervosismo che tenta di impadronirsi dei nostri ragazzi! Giungere fin lì e poi perdere? Questo no, vero? 
Poi sente le risate dei suoi ragazzi e lo strimpellare della chitarra e sorride sereno e dice: Grazie Jessie! Qualche tempo dopo, Vittorio Pozzo, rammentando quella serata, vigilia di una partita importantissima dirà: "In quei cinque giorni di attesa, fra la semifinale e la finale, ad aiutarci fu Jesse Owens. Sì, proprio lui, il nero che aveva vinto o stava vincendo i 100 metri, i 200, il salto in lungo, la staffetta 4 per 100. Abitava nel villaggio olimpico in un’altra casetta, a due passi da noi. Veniva a visitarci, dopo cena, con una chitarra e  una fisarmonica. E suonava, e ballava la danza del ventre. Gli piaceva la nostra compagnia, perché diceva che gli italiani ridevano sempre, e così rumorosamente".

LA DURA REGOLA DEL CIO
Nessun calciatore professionista, solo dilettanti. Su questa regola il Comitato Olimpico Internazionale non ha mai ammesso deroghe. Il calcio italiano schierava, già allora, assi del ‘professionismo’, anche se in Italia non era ancora stato ufficialmente formalizzato.
Però gli atleti erano lautamente ricompensati. Non a caso gli azzurri di Pozzo due anni prima avevano vinto i Mondiali. Per approntare una squadra competitiva, da mandare a Berlino, bisognava reperire calciatori non di fama consolidata, certo, ma che avessero, almeno, una qualche confidenza con il pallone. Ma dove andare a pescarli, se le regole erano quelle?
La Federcalcio allora pensò di aggirare il problema. Per la verità non eravamo i soli a trovare escamotage per dribblare le norme. Insomma, fatta la legge trovato l’inganno, come si dice. Vittorio Pozzo venne invitato dai vertici federali a mettere in piedi una squadra di universitari o di iscritti alle scuole superiori, bisognava trovare elementi che potessero essere, in qualche modo, etichettabili, ameno sulla carta, come dilettanti.
Dovevo attenermi agli studenti e chiamai i giocatori uno ad uno individualmente - ricorda nelle sue memorie Vittorio Pozzo - ben deciso a non mandare indietro chi avevo convocato. Dovevo anche in quel caso arrivare al numero di ventidue. Ero stato in precedenza ai Giochi Universitari a Bologna, e con l’ambiente studentesco non avevo mai perso in realtà contatto. A Firenze, a Bologna, a Livorno, ma principalmente a Pisa, in una partita appositamente organizzata, avevo visto dei ragazzi tecnicamente bene impostati, e che facevano al caso nostro. Avevo assunto informazioni, e qualcuno lo avevo anche seguito da vicino. Uno per uno, affluirono tutti: Piccini della Fiorentina, Baldo della Lazio, Biagi del Pisa, Marchini della Lucchese, Cappelli del Viareggio, Scarabello dello Spezia, Venturini della Sampdoria. Tutti studenti autentici, e ragazzi di buona famiglia. Poi vennero Foni e Rava della Juventus, e Bertoni del Pisa, e buoni ultimi Frossi e Locatelli, già in procinto di essere accaparrati dall’Ambrosiana".

FROSSI: GLI OCCHIALI CHE GIOCAVANO AL CALCIO
Annibale Frossi, friulano, ala destra velocissima, studente in Giurisprudenza, portava degli occhiali tondi fissati dietro le orecchie con un elastico, pativa una forte miopia. Ma la porta avversaria la vedeva benissimo. A Berlino si rivelerà il trascinatore della squadra. Realizzò sette pesantissimi goal che lo proclamarono capocannoniere del torneo. La madre, Rosina Concina, avrebbe voluto farne un medico, per onorare la memoria del padre Cesare Giuseppe, morto prematuramente. Però, nel cortile del collegio Bertoni, dove studiava, e in quello della Parrocchia del Redentore, sta già nascendo un mito cui era stato affibbiato un soprannome Piè Veloce. Non solo sul campo, ma era lesto anche a cogliere le opportunità che il calcio già allora cominciava ad offrire. Giocava, da due anni, con i bianconeri di Udine. In campo si era fatto notare e cominciava a girare il suo nome. L’eco delle sue imprese arrivò fino a Padova dove gli ambiziosi bianco scudati seguirono l’iter che da sempre scandisce le transazioni pedatorie. I padovani andarono dal patron bianconero Gino Roiatti e misero sul tavolo la cifra giusta. Il passaggio di Annibale al Padova sembrava cosa fatta. Salvo un dettaglio – e il diavolo è sempre nel dettaglio – e si chiamava Rosina Concina, madre del Piè veloce, che chiamò i carabinieri e fece riportare immediatamente il figlio, minorenne, a Udine. Alle Olimpiadi di Berlino, Annibale, ci arrivò da studente di legge e come neo acquisto dell’Ambrosiana Inter che lo aveva strappato all’Aquila con un’offerta, non male per quei tempi: di 50 mila lire. Realizzava così il suo sogno di sempre: giocare accanto a Peppino Meazza, il suo idolo. Jesse Owens, che come abbiamo visto si recava nella villetta degli azzurri tutte le sere, quando Pozzo gli presentò Frossi, rimase meravigliato delle doti di centometrista del friulano. Jessie correva i 100 metri in 10 secondi e 2’. Frossi impiegava un secondo e due decimi in più. Ma solamente perché – dettaglio non trascurabile – doveva portarsi dietro anche il pallone. Jessie Owens aiuterà i nostri uomini a preparare atleticamente la finale contro la più quotata (e più tifata) Austria. Proprio quella finale in cui Annibale segnerà una doppietta decisiva.

UNA COMITIVA DI GOLIARDI
Quando Vittorio Pozzo rese nota la lista dei convocati per Berlino l’accoglienza da parte dell’opinione pubblica non fu benevola. La stampa ancor meno, parlò di una comitiva di goliardi, fatta di esordienti con scarsa esperienza, che si accingeva a sfidare paesi che avrebbero, in pratica, schierato la loro prima squadra nazionale. Ora, diciamoci la verità, l’Olimpiade calcistica era, sicuramente, di livello alto, ma non assoluto. Mancavano squadre come l’Uruguay, il Belgio e la Cecoslovacchia. Quasi a confermare le perplessità e i dubbi, di stampa e opinione pubblica, l’esordio degli studenti di Pozzo non fu esaltante. Piegammo a stento (1 a 0 goal di Frossi) i non irresistibili Stati Uniti. Giocammo in dieci gli ultimi 35 minuti del match perché Rava era stato espulso cinque minuti prima del goal del vantaggio azzurro. La trascinammo fino al 90’ con tanta apprensione perché la regola del torneo prevedeva l’eliminazione diretta. Pozzo non la prese bene, come racconta lui stesso nelle sue memorie. “Presi cilindro. In una riunione, appositamente convocata, nella veranda della nostra casetta il giorno dopo, battei i pugni sul tavolo. Dissi che non ero abituato a parlare a vanvera, e che, se qualcuno aveva l’intenzione di fare quello che gli pareva e piaceva, che me lo dicesse subito: io avrei piantato baracca e burattini, e me ne sarei tornato a casa, dove mi attendevano compiti ugualmente impegnativi e più soddisfacenti forse.” Il prossimo match ci vedeva opposti al Giappone. La strigliata diede i suoi frutti e anche copiosi. Travolgemmo i nipponici 8 a 0! Segnarono 4 reti Biagi, 3 Frossi e una Cappelli. Gli asiatici si rivelarono molto meno pericolosi del previsto nonostante la loro precedente impresa con la quotata Svezia ( 3 a 2) .Ora, non restava che attendere l’esito di Germania-Norvegia.
C’era poco da scegliere o augurarsi uno piuttosto che un altro. Pozzo lo disse subito: Sono due clienti difficili”.

(SEGUE)