Mi manchi, mi manchi...
Posso far finta di star bene, ma mi manchi...

Questo affermava cantando, con quel tono di voce inconfondibile, caldo, graffiante, caratterizzato da un'estensione canora eccelsa, uno dei più grandi cantautori italiani, in quell'edizione del Festival di Sanremo del 1988, condotto da Miguel Bosé e Gabriella Carlucci. Di chi stiamo parlando? Di Fausto Leali e del suo brano entrato nella storia della musica italiana, Mi Manchi, arrivato al quinto posto dietro ad altri personaggi illustri del panorama musicale del Bel Paese, tra questi, Perdere l'amore di Massimo Ranieri che quell'anno arrivò primo, aggiudicandosi di fatto il Leone d'oro.  

Che meraviglia! Perdonate l'entusiasmo, ma quando ci si ricorda di questi patrimoni artistici Made in Italy, il fatto di essere italiano mi rende inevitabilmente orgoglioso!

Torniamo a noi, e cerchiamo di capire cosa mi porta quest'oggi a fare un viaggio nel tempo. Per quale motivo canticchio, anche condizionato da uno stato di malinconia cronica, che dura da ben 3 anni (tra qualche riga vi spiegherò meglio, anche se forse qualcuno ha già capito da dove parte questo stato d'animo), tra me e me, il ritornello di questo brano in particolare?

Ed ecco che mi viene in mente un pezzo di un altro capolavoro di Massimo Ranieri: Simmo' e Napoli paisà. In particolare, una parte, una strofa in cui afferma: 
Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto
Chi ha dato, ha dato, ha dato Scurdámmoce 'o ppassato...

Scurdámmoce 'o ppassato... facile a dirsi, difficile a farsi!  
Ed ecco che di nuovo un altro brano mi vien spontaneo rammentare, un nuovo ritornello mi risuona nelle orecchie:
Nostalgia, nostalgia canaglia!
Un'altra celebre affermazione, frase, presente nella canzone di Albano e Romina di Sanremo '87.   

Ebbene sì, tanta musica, ma vi starete chiedendo se sono diventato un Jukebox...
Come posso biasimarvi? Posso giustificarmi affermando che l'accostamento a tutto questo mi viene automatico per delle ragioni fondate. 

Ciò che mi invade in questi giorni, mesi, anni, è uno stato di malinconia per non avere più un allenatore in panchina, degno di questo titolo: faccio riferimento a Simone Inzaghi, l'attuale tecnico della squadra nerazzurra meneghina, l'Inter. Nel Calcio, le vedove, non sono mai state viste di buon occhio (perché così vengono soprannominati quei tifosi che dopo tempo ancora invocano il nome di ex giocatori o allenatori parte costituente di un passato di glorie per la propria squadra del cuore, un vissuto agonistico di felicità, un passato radioso, la cui luce sembra ormai essere stata inghiottita dal buoi pesto di una foresta nera, dove il sole non vi sorge più) ma ritengo opportuno che ogni caso è a sé.   

Ebbene si, non posso fare a meno di vederla in questo modo, poiché la Lazio, dall'estate 2021 non è stata più la stessa. Gioco, divertimento, passione, coesione in campo, e fuori, spensieratezza, felicità, sembrano peculiarità svanite. Da quando il ciclo Inzaghi è terminato, solo tante aspettative poi tradite. Una squadra con un potenziale più forte riesce a fare meno di quella che aveva a disposizione Simone Inzaghi nel suo lustro sulla panchina biancoceleste. Adesso solo scuse su scuse, come:  

Partite troppo attaccate.
Terreno dell'Olimpico ingiocabile.
La Coppa Italia? Un evento clandestino! 

E poi altre contraddittorie:
Il Calcio inglese è l'unico rimasto ancora di livello.
Allora mi chiedo:
Ma come, in Inghilterra, i ritmi non sono più serrati?
Non giocano più partite?
Mi sono perso qualcosa? Chiunque, ad occhio, nota delle incongruenze tra le varie dichiarazioni di Mister Sarri, non trovate?
Per non parlare del fatto di snobbare competizioni abbordabili come la Coppa Italia, che consentono di scrivere un pezzo di storia nel club. A quanto pare si preferisce fare presenza nei tornei senza mai mettere mano sul trofeo.

E poi si parla del non difettare di mentalità provinciale solo perché il tifoso vuole vincere o prevalere sui cugini?
Se viene data solo questa opportunità di gioire, il supporter cosa deve fare, sopprimere perfino ciò? A quel punto cosa rimarrebbe da fare?
Che senso avrebbe seguire una squadra se già si parte sconfitti su tutti i fronti?
Non sarà che la mentalità provinciale viene alimentata dalla mancanza di alternative?

Sicuramente, ai tempi di Simone Inzaghi, la sponda nord del Tevere ha avuto modo di gioire diverse volte, a prescindere dal prevalere sui cugini giallorossi: 2 Supercoppe e 2 Coppe Italia in 5 anni, e uno scudetto che sarebbe potuto arrivare se non ci fosse stata la pandemia del 2020 che scosse gli equilibri.

Discostandoci dal discorso Lazio, ciò che sta facendo il tecnico piacentino, dal suo arrivo a Milano, è sotto gli occhi di tutti: altre 2 Supercoppe e 2 Coppe Italia, e la vittoria sfiorata della Champions League lo scorso anno. Tutto questo in soli due anni.  
Trovate differenze?
Sì, molti diranno che il potenziale a disposizione non è lo stesso, non si può paragonare, ma in realtà non è proprio così...

Le squadre di Inzaghi, oltre ad offrire un gioco limpido, esprimono in campo sicurezza e tranquillità, il tutto tenendo sempre in alto la concentrazione agonistica, un elemento di fondamentale importanza per lo sport. Inoltre, a rendere univoco questo allenatore, è l'atteggiamento: i calciatori, oltre a Mister, lo possono considerare un amico, un fratello con cui confidarsi, superare le difficoltà e uscire da periodi difficili con una base solida, una struttura sicura tenuta in piedi dall'armonia e dalla coesione di gruppo. Egli è l'unico capace di mettere in atto questa atmosfera serena, è fra i pochi a non utilizzare un linguaggio volgare o aggressivo. Forse il suo più grande pregio è proprio questo: non far evolvere la tenacia agonistica in sfoghi eccessivi e improduttivi, lo ha e lo sta dimostrando.

Tutto questo si può notare vedendo come gioca la sua Inter: dopo aver demolito la squadra campione in carica, il Napoli, per 3-0 al Maradona, la classifica vede i nerazzurri in vetta con 35 punti e un girone di Champions largamente superato. Se poi si pensa che potrebbe diventare l'autore del ventesimo scudetto per l'Inter e della seconda stella sullo stemma...
Insomma, 47 anni sulla carta d'identità sinonimo di un futuro professionale ancora lungo. Un avvenire accompagnato da premesse molto concrete ed importanti, così tali da poter auspicare al raggiungimento di traguardi da record.  

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