Juventus-Napoli non sarà mai una partita normale per la famiglia Lucignano, della quale sono un esponente di medio livello, senza infamia e senza lode. Non tanto perché, per un tifoso partenopeo, giocare e magari vincere contro la Juve rappresenti da sempre un risultato di tutto rispetto, specialmente negli anni in cui non si poteva ambire a vincere trofei e battere i bianconeri poteva significare “salvare ‘a staggione!”. Juve – Napoli, nella mia famiglia, significa padri contro figli. Per l’esattezza, mio padre, juventino classe 1954, contro di me.

Mio padre diventò juventino da piccolissimo, quando iniziò ad appassionarsi alle vicende pallonare. Il suo primo idolo fu Sivori, El Cabezon, sinistro fatato e cazzimma da vendere, irridente e irritante mago del pallone, angelo dalla faccia sporca e dall’anima non proprio di bucato. Argentino di nascita e italiano per genealogia, Omar Sivori giunse a Torino nel 1957 e vestì la maglia bianconera fino al 1965. Quando mio padre aveva, quindi, undici anni, il mancino di San Nicolás de los Arroyos, provincia di Buenos Aires, salutò la Juventus ed Heriberto Herrera, col quale aveva un rapporto che definire conflittuale è dir poco, e si accasò all’ombra del Vesuvio. “Omar” divenne “Omàr” e il cambio di accento permise svariati giochi di parole e canzoni partenopee che elogiavano, ad un tempo, “o màr ‘e Napule” e “Omàr ‘e Napule”.

Mio padre seguì il suo idolo. Sivori avrebbe indossato la Dieci del Napoli (maglietta destinata, decenni dopo, ad un altro cabezon argentino nato in provincia di Buenos Aires, Diego Armando Maradona), quindi mio padre avrebbe tifato i colori azzurri. Contraddicendo il principale comandamento del tifoso pallonaro, ovvero che due cose non si cambiano in tutta la vita, la mamma e la squadra di calcio, decise di accantonare nell’armadio la sciarpetta bianconera e di indossare quella azzurra.  Con quella stessa sciarpetta era allo Stadio San Paolo il primo dicembre del 1968. Era un Napoli – Juventus, of course, perché il Destino non esiste, ma si diverte a giocare a dadi con le umane vicende. L’arbitro Pieroni sventolò sulla faccia di Sivori il cartellino rosso e le giornate di squalifica furono sei. El Cabezon decise di non tornare mai più a calcare l’erba di un campo da calcio: venti giorni dopo, annunciò il ritiro in diretta tv, con un collegamento dagli studi Rai di Napoli durante il programma Canzonissima.

Un dilemma afflisse mio padre, ora che il suo idolo aveva appeso le scarpette al chiodo: tornare a tifare Juventus oppure continuare a sostenere i sacri colori azzurri? Scelse la prima opzione, forse perché il primo amore non si scorda mai. Da juventino ha attraversato gli anni Settanta, pur continuando a frequentare il San Paolo e non solo in occasione di Napoli – Juventus. Ha goduto del calcio di Vinicio, ‘O Lione che ruggiva di zona e pressing alto ben prima di Sacchi e compagnia, e poi ha visto Maradona. Tutte le volte che poteva. Perché tu puoi essere juventino, milanista o interista, ma se vivi a Napoli e ogni due settimane puoi andare a vedere Maradona al San Paolo… beh, che ve lo dico a fare. E molte volte portava anche il maggiore dei suoi figli, ovvero il sottoscritto.

Se gli chiedete quale scontro tra Napoli e Juventus gli è rimasto più nel cuore, non vi citerà qualche roboante vittoria dei bianconeri e nemmeno l’episodio di Sivori che, volente o nolente, ha segnato la sua vita di tifoso. Vi parlerà del 3 novembre 1985. Il giorno dopo la festività dei Morti, che a Napoli conta, conta assaje. Giornata di pioggia imperterrita, campo pesante e magliette attaccate alla pelle. San Paolo senza copertura, gli ombrelli impediscono la visuale a quelli che stanno dietro e allora, se non si ha un giubbino con cappuccio, bisogna arrangiarsi con buste di plastica e affini. I più duri e temprati, invece, se ne stanno sotto la pioggia a capo scoperto, capelli bagnati e probabile bronchite in arrivo, ma c’è la Juventus da battere e “nuje tenimm a Maradona!”. Un gioco pericoloso determina un calcio di punizione di seconda, nell’area di rigore della Juventus. Sul pallone Eraldo Pecci, a cinque metri (non di più, forse di meno) una folta barriera di calciatori juventini. “Eraldo, toccamela”, dice una voce nel silenzio sempre più greve del solitamente rumorosissimo stadio partenopeo. Era la voce di Diego. Eraldo gli tocca la palla. Il piede sinistro del Pibe la sfiora, a mo’ di pennello la accarezza, le leggi della fisica vanno a farsi benedire e il resto è Storia. 

Venne giù il San Paolo. La gioia non esplose, si frantumò. Migliaia di schegge impazzite e invisibili attraversarono ogni singolo gradone dello Stadio. Su uno di quei gradoni c’era anche Saverio, mio padre. Non esultava, da buon juventino stava morendo dentro. Ma aveva gli occhi lucidi e applaudì. “Nun aggio mai visto ‘na punizione accussì”, non ho mai visto una punizione così, mi confidò quando tornò a casa. E lo ripete ancora oggi, ogni volta che le immagini di quel capolavoro passano in televisione.

Maradona quante gliene ha intossicate, di domeniche. Il Napoli del primo scudetto andò a vincere 1-3 a Torino. Due anni dopo arrivò persino un incredibile 3-5. Cinque goal in trasferta, alla Juventus di Agnelli. La Supercoppa italiana vinta al San Paolo con un sontuoso 5-1, in quella che fu l’ultima notte in cui Maradona alzò un trofeo in maglia azzurra. Quella sera finirono anche i Napoli – Juventus di mio padre. Da allora se n’è visti tanti, ma tutti in televisione. Partite di campionato, di coppa Italia, finali e Supercoppe italiane, ma senza più mettere piede al San Paolo.  I suoi Napoli – Juventus dal vivo cominciano con Sivori e si concludono con Maradona. Due argentini con la faccia da scugnizzo, il piede sinistro baciato dalla Dea Eupalla, la chioma gonfia e il Vesuvio nel destino.
Buon Juve – Napoli, papà.