Alla sua vigilia venne annunciato come il Match della Grande Vergogna e in molti credettero che essa sarebbe andata deserta. La curiosità dell’uomo però è da sempre la forza più potente, se messa a confronto con quella dei suoi principi. Talmente forte che, alla fine, incalcolabili ne furono i milioni di spettatori, collegatisi da ogni parte del globo. E questo nonostante, diciamocelo, quella partita fu ben lontana dal potersi definire un grande spettacolo. Terminò con appena una rete a referto, messa a segno dalla squadra di casa grazie a un rimpallo fortuito.
I veri protagonisti furono piuttosto i classici episodi dubbi, quelli che un tempo scatenavano le reazioni più concitate. Chiaro esempio fu quel contrasto sospetto, avvenuto nell’area della squadra di casa. Fenomeno che, da subito, fu bollato come palese calcio di rigore dalla maggior parte degli spettatori, i quali però si videro rinnegare tale interpretazione, dalle immagini apparse immantinente sugli schermi. Il rigore non c’era, anche se per una questione di centimetri, forse millesimi. Gli ingrandimenti furono inequivocabili anche se, ovviamente, ciò non spense in maniera definitiva tutti i dubbi. Detto ciò, alla fine l’arbitraggio fu perfetto, equilibrato nel metro così come trasparente nel giudizio. E, quando risuonò il triplice fischio, nessuno poté dirsene scontento. Una cosa che sarebbe dovuta apparire normale, ma che invece fu motivo di enorme scalpore. Lo fu in quanto quella fu la prima partita della storia e del mondo che vide la totale assenza di arbitri all’interno del campo. 

Nessun uomo con in mano un fischietto, una bandierina e nemmeno dietro un monitor all’interno di una stanza. Per questo fu un evento epico. Lo fu perché a dirigere quella partita fu, per la prima volta in assoluto, un sistema totalmente automatizzato.
Fu chiamato QAR, acronimo che stava per Quantistic Artificial Referee. In sostanza, si trattava di un complesso sistema di telecamere e nano-sensori sparsi per tutti il campo e nelle divise dei giocatori, i quali erano poi collegati indirettamente a un calcolatore quantistico di ultimissima generazione. Nonostante fosse ubicato presso la sede della FIGC a causa della sua mole, esso era in grado di riceve informazioni ed emettere giudizi sulla distanza del micro-secondo.  Senza dubbio, abituarsi all’idea non fu semplice. Ricordo ancora gli sguardi dei giocatori in quella partita sperimentale. Spaesati e confusi, per i primi dieci minuti si approcciarono all’incontro come a una partitella d’allenamento. Passaggi orizzontali, contasti leggeri, timorosi che il più minimo tra i gesti potesse sollecitare il sensibilissimo sistema del QAR. Ma più i minuti passavano, più il gioco entro nel vivo e si fece persino duro in certi frangenti. E tutto, come già detto, alla fine andò bene. Ciò nonostante, l’aver messo fine all’epoca dei colletti gialli creò non poche irritazioni, sia dentro che fuori la vecchia classe arbitrale. Scoppiarono infatti simboliche ribellioni. In un breve frangente addirittura, i più stoici e resistenti al cambiamento cercarono di organizzare una sorta campionato alternativo, sperando che la UEFA lo riconoscesse legittimo. Ciò però non avvenne e, ben presto, anche questo ultimo ed estremo tentativo di ritorno alle origini finì nel dimenticatoio. 

Ma come si era potuti arrivare a tutto ciò?
Sebbene faccia fatica a ricordarmene, di trambusto ce ne fu parecchio. In sostanza, la classe arbitrare aveva perso tutto il credito di cui aveva goduto per diversi decenni. I tempi di Agnolin, Collina e Rizzoli, come dissero in molti, erano finiti da un pezzo. Persino quando si cominciò di unire calcio e tecnologia, con l’entrata in gioco della VAR, le cose non si sistemarono. Anzi, se possibile, andò pure peggio. Dopo un inizio incoraggiante infatti, errori palesi tornarono a far parlare di sé sui campi di gioco. E, sebbene alcuni pensarono come ciò si dovesse proprio alla stessa tecnologia, alla fine a prevalere furono i detrattori della classe arbitrale. Se ne dissero molte sull’argomento e, così facendo, il complottismo trovò terreno fertile sul quale crescere.  Hanno utilizzato il VAR male affinché noi lo potessimo odiare. Così scrissero numerosi rotocalchi e in molti vi credettero. Timorosi di perdere un campionato importante come quello italiano, gli organi competenti di IFAB, FUFA e UEFA decisero di correre ai ripari. L’associazione arbitri fu così destituita e il suo presidente costretto alle dimissioni. Al fine di non espandere uno scandalo già di enormi proporzioni, si fece passare il tutto come una buona occasione di sperimentare nuove metodiche. Tolti così di mezzo gli arbitri, ci si prodigò a trovare una valida alternativa.  

Fu proprio così che nacque il QAR, in fretta e furia, dall’idea di un equipe di esperti di robotica e intelligenze artificiali. Poteva una macchina essere in grado di sostituire un compito da sempre in mano all’uomo? Potevano dei freddi circuiti valutare un qualcosa che, nella stragrande maggioranza di casi, aveva ben poco di oggettivo? I dubbi erano molti e continuarono a permanere molto a lungo, ma contro ogni pronostico fu la tecnologia stessa a rispondere a simili quesiti. E lo fece dimostrando come, sebbene non fosse dotata di emozioni o soggettività tipicamente umane, essa era comunque in grado di valutare il calcio in ogni sua sfaccettatura. Al di là delle semplici regole, nei suoi calcoli complessi e infinitesimali, il QAR si dimostrò in grado di andare ben oltre, di saper valutare anche variabili come la volontarietà, la violenza, l’atteggiamento. Una macchina in grado di imparare insomma, come la definirono i suoi inventori ai suoi albori. Una tecnologia in grado di mettersi sullo stesso piano dell’uomo e ad esso adattarsi. I risultati che ne seguirono furono talmente straordinari, che gli ultimi ribelli delle situazione furono costretti a rassegnarsi. La tecnologia aveva vinto perché era riuscita a fare una cosa che, in realtà, è prerogativa naturale dell’uomo. La capacità di adattarsi all’ambiente e agli avvenimenti. 

Fu così dunque che finì l’era della classe arbitrale.
José Luis Coll disse un giorno: “Un paese che avrà raggiunto il suo massimo grado di civiltà, quando le partite si terranno senza arbitri”. In realtà, sebbene all’inizio furono in molti a gioirne, dopo un po’ gli stessi cominciarono a provare una sorta di nostalgia. Un sentimento che permane ancora oggi, anche se il tempo del vecchio modo di arbitrare, fatto da esseri in carne e ossa, è lontano per potersene ricordare con chiarezza. Sarà forse perché, errori a parte, gli arbitri stessi erano parte integrante dello spettacolo. Si dice che un tempo fossero numerosi gli epiteti affibbiati a tali figure. Ladri, cornuti, orbi. Eppur quanto doveva essere difficile il loro lavoro? Quanto coraggio era necessario, a fare un mestiere dove si definiva una giornata proficua quella in cui si erano presi meno insulti del solito? Di certo gli arbitri furono colpevoli, ma forse lo furono perché costretti a esserlo. Costretti da una cultura che li portò a credersi un qualcosa di altro. Non più direttori di gara, ma giudici di singoli episodi. Non più valutati sulla base della conduzione globale della gara, ma piuttosto per aver giudicato male un contrasto; aver sancito un rigore non chiarissimo; essere stato troppo severo o magnanimo nel singolo episodio. Sarà per questo che forse gli arbitri videro nella VAR un qualcosa di indesiderato. Sarà per questo che essi videro nella tecnologia, e nella sua applicazione, una sorta di rivale, quando in realtà essa fu creata per coadiuvarli, e non sostituirli. Se si avesse avuto un po’ di buon senso su ambo le parti. Se gli arbitri avessero accettato un semplice aiuto laddove lo necessitavano. Se noi tutti avessimo avuto pazienza e compreso che l'uomo è uomo perché in grado di commettere errori. Forse tutto ciò non sarebbe accaduto, ma col senno di poi si può fare ben poco, purtroppo. Perché ciò che è stato è stato, come si dice, e tornare indietro per sistemare le cose non è possibile. Oppure sì?


Dedicato a coloro che ogni domenica si fanno odiare perché il gioco più bello possa esistere. Che esso non sia a loro di monito, ma di ispirazione.


Un Abbraccio
Novak