Ogni cosa cambia, muta, si trasforma in questo universo. Lavoisier semplificava tale ovvietà con una frase divenuta storica. Nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. È un principio fisico. Universale. Insindacabile. Così come però è equamente incontrovertibile un principio totalmente opposto. Per sua natura, l’essere rifugge e combatte il cambiamento con tutte le sue forze.

Il calcio è cambiato. È un’ovvietà, proprio come è ricolmo di ovvietà il primo paragrafo di questo mio articolo.  Lo sappiamo tutti e ce lo sentiamo ripetere costantemente. Tuttavia, non vogliamo farcene una ragione. Continuiamo a sperare che sia un po’ come una malattia di stagione. Ci tedia per qualche giorno, magari un paio di settimane, poi se ne va. Ci convinciamo che, presto, il calcio così come lo abbiamo conosciuto e amato per vent’anni, tornerà. Resistenza al cambiamento. In una parola singola e ancor più tetra: illusione

Le illusioni sono pericolose, anche se belle e piene di colori. Sarebbe bellissimo pensare che viviamo ancora in un universo calcistico in cui le bandiere corrono in campo, invece che sventolare sui pennoni. Sarebbe meraviglioso credere che il denaro delle società, le nostre società, sia sostanzialmente infinito e che alla loro guida vi siano patron sempre disposti ad accontentare i tifosi. Sarebbe incantevole credere che la Serie A sia ancora il campionato-obiettivo dei grandi d’Europa e del mondo, così come lo era vent’anni fa. 
Sarebbe… sarebbe… sarebbe… ma non lo è e - a scapito di veri e propri miracoli - non lo sarà per molto tempo. Possiamo strepitare, arrabbiarci, strapparci persino i capelli, ma la situazione è questa, e questa rimarrà. 

Ora, brutto dirlo, ma poco conta cosa ne pensiamo noi tifosi. Per definizione, noi abbiamo una memoria bipolare. Quando le cose vanno male, le vecchie ferite tornano a sdolorare. Quando le cose vanno bene… in quel caso ogni pregiudizio e convinzione del passato sfuma nel vento. 

Ben diversa è la situazione legata a ciò che pensano gli addetti ai lavori. Cosa stanno facendo le società, gli enti, i manager e persino i giornalisti di fronte a questa situazione?
Giudizio serafico: poco o nulla. Sino a poche settimane fa, quando avevamo tre squadre italiane nelle tre finali europee, in FIGC e sui giornali si paventava di una fantomatica rinascita del calcio italiano.
Oggi siamo qui, al gelido risveglio dopo un bel sogno. E non perché di quelle tre finali non ne abbiamo vinta nessuna, quello potrebbe anche essere un incidente di percorso dovuto alla semplice sorte. Ci siamo accorti - o almeno spero che sia così - di quanto fossero illusorie tali speranze, per il semplice fattore che non riusciamo a trovare una sola buona ragione, che possa motivare questa fantomatica rinascita. Nemmeno una, tirata per i capelli. Troviamo invece con estrema semplicità tutte motivazioni che paiono andare in direzione opposta. Quali? Ne elencherò solo alcune, le più ovvie e dolorose: 

  • strutture fatiscenti e proprietà senza stadi;

  • scouting ridotti all’osso e vivai svalutati; 

  • bilanci in emorragia e ricolmi di debiti;

  • sponsor e TV che ogni anno riducono le loro proposte economiche.

Vista la situazione, su quali basi si dovrebbe poggiare la rinascita del nostro movimento? Possiamo veramente parlare di un simile fenomeno, solo per una coppa vinta l’anno scorso e tre finali quest’anno?
Possiamo sognare quanto vogliamo, ma se i risultati non sono figli di una strategia, allora è inutile esultare più di tanto. È come giocare al gratta e vinci. Quando trovi il biglietto vincente, te ne sei bruciati qualche centinaia in precedenza… e fatti i conti, quanto hai speso è superiore a quanto hai vinto. 

Eravamo grandi, questo è vero. Eravamo il principale campionato d’Europa, quello in cui tutti volevano venire a giocare. Oggi? È già un lusso essere considerati ancora all’interno dei Big 5, i cinque principali campionati del continente. A dimostrarlo il fatto che non abbiamo né l’attrattiva, né le possibilità economiche per trattenere o richiamare i campioni in erba, per non parlare di quelli già affermati. Tonali è solo l’inizio. Per un po’ di soldi - a dire il vero tanti -, alcuni giocatori nemmeno troppo in là con l’età preferiscono andarsene in Arabia. Quelli con del potenziale e il tempo dalla loro, viaggiano verso lidi molto più pregiati, sia dal punto di vista tecnico che economico. 

Esiste un modo per fermare questo effluvio di talento e di valore? No. Non nel breve termine. E rassegnarsi è il primo passo che può darci veramente qualche speranza per il futuro. Ci siamo accorti che il calcio è cambiato; ora dobbiamo accettarlo, equipararci e agire. Possiamo starcene quanto vogliamo nelle nostre torri d’avorio, a cantilenare quanto fossero belli i bei tempi andati. Lo abbiamo fatto per molto tempo, guadagnandoci ben poco e perdendoci molto.  Possiamo invece cercare di capire come potrebbe essere il nostro futuro tra cinque, perché no, anche tra dieci anni. C’è qualcosa di sbagliato voler diventare grandi, non oggi, ma a distanza di un decennio? Quale progetto nasce, cresce e raggiunge gli obiettivi in poco tempo? 
Certo, questo significa rimanere dietro le fila ancora per diverso tempo. Significa veder partire, oggi o domani, i nostri migliori a seguito di offerte monstre, sempre che i procuratori non ci mettano lo zampino in sede di rinnovo. A Tonali ne seguiranno altri. Perderemo i Leao, gli Hernandez, i Bennacer, i Barella, i Brozovic, i Chiesa, e così via, così via. Laddove ci saranno soldi, il nostro talento se ne andrà là. Ma se c’è qualcosa che queste due ultime stagioni dovrebbero averci insegnato, è che i soldi non sono tutto... soprattutto se non ne hai. Ok, come battuta non è il massimo. 

Scherzi a parte, nelle ultime due stagioni, lo scudetto è finito in mano alle uniche due società che, tra le grandi,  hanno tagliato i costi, messo un serio tetto agli stipendi, evitato d’indebitarsi per prendere nomi altisonanti sul mercato e cercato di affidarsi allo scouting come un tempo. Se due indizi non fanno una prova, quantomeno ci sono vicini. Molto vicini. 

Ecco una buona base da cui partire. Un dato - povero o ricco che sia - che ci dice come essere organizzati può essere meglio di possedere fiumi di denaro. Guardate il Chelsea la scorsa stagione? Se fosse bastato spendere del denaro, avrebbero vinto titolo, champions e Dio solo sa cos'altro già a metà della stagione... hanno terminato a metà classifica e oggi sono lì a cercare di rivendere buona parte dei giocatori, per rientrare nel Fair Play Finanziario. 

Sì. Potrò sbagliarmi, ma credo che quanto fatto da Milan e Napoli nelle ultime due stagioni sia la strada giusta. Credo nella forza dell’equilibrio finanziario, della programmazione e, perché no, anche delle statistiche. Se c’è del metodo, se c’è consapevolezza dei propri mezzi, prima o poi i risultati arrivano. Se si accetta di cambiare, il cambiamento forse non ci lascerà indietro

Un abbraccio 

Igor Z.