C’è un uomo che scava e scalpella, giù nella radura. È un povero pazzo, dice sempre il padre della piccola Naney, che lo guarda stralunata e incuriosita. Lo osserva, cerca di capire cosa quell’ometto rinsecchito, che veste solo un paio di brache grezze e rattoppate, stia cercando di fare. Non sta arando. Non sta facendo solchi per coltivare. D’altronde cosa si potrebbe coltivare in quella terra così secca, tanto arida che nemmeno i corvi si prendono la briga di calarvi sopra. Su di essa non cresce nulla da sempre, da quando suo padre aveva la sua età e così anche il padre di suo padre. Naney continua a osservarlo, giorno dopo giorno, cercando di risolvere il suo dilemma. Ma più il tempo passa, più la risoluzione rimane coperta da una coltre di nebbia e, a poco a poco, la sua importanza puerile svilisce. Così, giorno dopo giorno, quell’ometto strambo diventa per lei quello che è sempre stato per tutti: un povero pazzo. Naney cresce, diventa adolscente, e poi donna, e poi mamma. Ma quell’uomo è sempre lì, a scavare, a scalpellare, a disossare il terreno. Il suo solco si è allungato di un paio di chilometri e lui si è fatto più vecchio. Lei non lo osserva più da tanto tempo, ma così come aveva fatto anni addietro, ora c’è sua figlia Sarya a fare lo stesso, a porsi la sua medesima domanda. Di tanto in tanto, Sarya le chiede chi sia quell’ometto avvizzito, che scava senza un apparente motivo, e Naney non può che rispondere come farebbe chiunque all’interno del suo villaggio, come fece un tempo suo padre con lei. È solo un vecchio pazzo tesoro, non darci peso. Sarya ha però ben altro da osservare. I capi d’allevamento di suo padre stanno morendo uno dopo l’altro. La terra si inaridisce giorno dopo giorno, gli alberi danno sempre meno frutti. Mamma e Papà ancora non glielo hanno detto, ma lei è scaltra e ricettiva come ogni bambino. Sa che presto se ne dovrà andare, così come hanno fatto molti altri prima di loro; così come hanno fatto molti dei suoi amichetti d’infanzia. Partire, viaggiare, andare, per chissà dove. E mentre tutti abbandonano le loro mansioni in attesa di andarsene, alcuni tra braccianti e agricoltori disoccupati si siedono sul piccolo colle. Lo stesso su cui si siede di tanto in tanto Sarya, dove si sedeva Naney prima di lei, da cui la piccola sente ergersi schiamazzi e risate. Il passatempo dei perditempo. Deridere. Non mancano molti giorni alla partenza, i braccianti di suo padre sono da poco partiti con i pochi rimasugli dell’allevamento. Improvvisamente, dopo quasi trent’anni di insensato lavoro estenuante, il folle ometto si è fermato ed è partito. Forse si è stancato di essere motivo di tanto altrui ludibrio. Forse infine si è stufato di continuare a scavare per nulla. Mamma e Papà sono pronti. È ora di partire e Sarya già sente la mancanza della casa in cui è cresciuta, quando sente un suono provenire dal colle. Un suono diverso dalle urla e le risate dei giorni precedenti. Anche Nanye è incuriosita e, insieme a suo marito, segue la loro piccolina a vedere cosa sta accadendo. Unitisi alla folla, i loro occhi si riempiono di stupore nel vedere come, in quello stretto, ma lunghissimo solco, scorre dell’acqua pura che la terra arida ai lati assorbe con ingordigia. E quando sembra finire, ne arriva dell’altra, e poi dell’altra, altra ancora, come se fosse infinita. È passato poco dal suo arrivo, eppure il terreno tutt’attorno al letto di quel rigagnolo si è già fatto più morbido. Si riesce già quasi a immaginare i boccioli che spunteranno nel giro di pochi giorni. E ne spuntano. Ne spuntano parecchi. I campi tornano a essere verdi. Laddove non c’era altro che pietrisco e aridume, spunta vita e ricchezza. Ma mentre tutti esultano e tornano dal loro esilio per godere dei frutti del lavoro di quel piccolo folle ometto divenuto improvvisamente un eroe, Sarya si fa ancora una domanda. Non si tratta più del motivo per cui quel vecchio, folle, ora anche eroico, ometto fece tutto ciò, ormai è ovvio. Ella si domanda perché nessun’altro a parte lui fu toccato da una visione tanto bella.

Nel 1511 Erasmo da Rotterdam scrisse Elogio della Follia. In realtà, almeno in principio, tale opera doveva essere un semplice elogio all’altrettanto grande Tommaso Moro, con cui condivise la residenza di Bucklersbury per qualche tempo, ma tant’è. Non sempre la gente comprende le reali intenzioni di ciò che facciamo.
Io lo lessi pressappoco intorno ai diciassette anni e ne capii poco o nulla. Per quello avrei dovuto aspettare ancora qualche anno e un po’ più di ordine mentale. Tuttavia, in tutte quelle volte che mi sarebbe ricapitato di leggerlo, e di capirlo un po’ di più, non avrei più trovato quanto aveva assorbito, a mio modo intuìto, in quella prima e inesperta lettura. Una cosa che potrei tradurre come la felicità insita nell’inseguire l’irrazionale o, meglio ancora, nell’inseguire ciò che è oltre il nostro razionale limitato, potremmo dire pure autoimposto. Quel razionale che dà un valore, a volte smodato, alle cose terrene. Cose che un giorno, presto o tardi, abbandoniamo. Per quanto siano tante o poche, per quanto si sia accumulato in vita, alla fine rimangono in questo mondo, mentre noi ce ne andiamo. E mentre accade, quel grande valore che abbiamo loro affibbiato si svuota del tutto.
Un giorno una persona mi disse, quanto più stringiamo qualcosa con forza, più la morte ci strapperà da esse; quanto più doniamo a questo mondo gratuitamente, più questi doni incondizionati ci strappano dalla morte. Il dono incondizionato è di per sé irrazionale. Nella nostra logica secolare, dare senza ricevere è un’eccezione, a volte persino sgradevole. E io lo capisco per carità. Quando si è un umanista prestato alla ragioneria per motivi di necessità come me, bisogna capirlo. Dare e Avere devono coincidere nel libro mastro. Ciò nondimeno a volte l’equilibrio non deve per forza risiedere nelle nostre mani. E, allo stesso modo, squilibrare all’esterno i vantaggi ha un non so che di magico. Ti sembra di aver perso qualcosa. Peggio ancora, ti sembra di aver fatto qualcosa per nulla, eppure quel nulla detiene l’aroma agrodolce della bellezza. Una bellezza tutt’altro che estetica e che appartiene all’eternità. 

Lo so, ora qualcuno mi dirà cosa c’entra tutto ciò con un portale di calcio e sport. Probabilmente niente, ma forse anche tutto. Di per sé, nella loro parte più intima e germinale, calcio e sport sono bellezza, portano bellezza. E di tanto in tanto mi piace pensare, immaginare, forse sognare che tale bellezza possa andare al di là della semplice estetica. Possa essa travalicare le porte dell’astratta apparenza, entrare nel mondo concreto portando con sé una follia di sottofondo, ovvero che la ricchezza possa essere non solo assorbita - per non dire consumata -, ma anche dispensata. Dispensata laddove il terreno è arido e non dà frutti. Laddove non c’è nulla, ma potrebbe esserci molto. Un’impresa così lontana nel tempo e così ricolma di fatiche da apparire impossibile, quasi indesiderabile. Un’impresa impossibile proprio come il voler scavare a mani nude il letto di un torrente lungo chilometri, metterci anni, decenni, forse una vita intera, magari non vederne nemmeno i risultati persino, perché un giorno il fiume possa portare acqua a terre che non l’hanno mai conosciuti. E tutti ne possano godere equamente.

Pura follia, amici miei. Tremenda, irrazionale… bellissima follia. 
Un abbraccio. 
Igor Z

P.s.: la storia narrata nei primi paragrafi è vera. È accaduta a Kolitwa, nell’India orientale, dove il “pazzo” Loungi Bhuiya scavò un canale di irrigazione lungo 5 km, nel corso di ben 30 anni, per portare l’acqua del fiume alle terre del suo villaggio.