Amo parlare, chiacchierare, discutere persino. Se poi lo si fa di fronte a un caffé - e magari anche in compagnia di un po' di tabacco -, meglio ancora. 
In quest'epoca dove i social la fanno da padrone, ahimé si parla sempre meno. Certo, tra messaggi, whatsapp e altre tipologie di comunicazione digitale, pare che siamo sempre in stretto contatto, ma non è così. Si è vicini, ma distanti, tanto distanti. Eh no, qui il covid non c'entra nulla. La politica del distanziamento - che piaccia o meno - è iniziata molto tempo prima di questa maledetta pandemia, andando a perdere così il vero significato di contatto, di vicinanza, di reale scambio. 
Si è arrivati a un punto tale che, a volte, le buone conversazioni di una volta ce le dobbiamo addirittura immaginare. Quelle chiacchierate dove non si guardava l'orologio e mamma sacramentava perché la pasta era pronta. Dove diamine ti sei cacciato? Così ci accoglieva al ritorno e ci si sedeva a mangiare in silenzio, evitando di attaccare lite. Sei il solito perdigiorno... sì, era vero. In quelle lunghe discussioni con gli amici il tempo volava, si perdeva in un certo senso, eppure rimaneva infisso nella tua memoria senza mai perdere un singolo dettaglio. 

Di tanto in tanto, questa bieca nostalgia di quei bei tempi andati mi attacca e la mia fantasia - forse la mia reale ricchezza - prende a macinare senza sosta, ricordandosi, immaginandosi persino delle chiacchierate che non sono mai avvenute e, con ogni probabilità, non si avranno mai. 
In una di queste mie personali macchinazioni, più di una volta mi sono immaginato di condividere un caffé con uno degli uomini di calcio che più ho rispettato e per il quale, sì, pur non conoscendolo veramente, ho nutrito una sorta di reale affetto. Una benevolenza legata al suo essere così casereccio, verace, reale, nonostante ciò gli ha sempre attirato "simpatiche" critiche da ogni dove. Quello che potrà essere amabile quanto vuoi, ma così si vince poco

Ed oggi, qui nel mio personale bar di VxL, mi sembra di intravederlo avvicinarsi all'entrata. Oggi è oramai un uomo di una determinata età. Il tempo maledetto lo costringe a muoversi lento, seppur in maniera elegante, con la schiena un po' ricurva e le gambe che devono stare sempre accorte a dove poggiano il piede. 
Comincia a fare freschetto, anche se l'estate è appena alle spalle. Ciò nonstante lui veste già un paltò abbastanza pesante e porta un borsalino a tesa stretta che, entrando nel bar si toglie. Lui mi vede e, come se ci conoscessimo da una vita, mi lancia uno cenno di saluto. 

- Oh, sor Mazzone - gli faccio un cenno con la mano, sperando che si avvicini per sedersi al mio tavolino. 
- Ah Zardò... come annammo? - mi chiede togliendosi il pesante cappotto e avvolgendolo sulla sedia. Lui ordina un caffé ristretto e scuote la testa quando il barista decide di offrirgli un biscotto per addolcire il palato. 
- No, grazie - dice - Devo sta' attento o 'er medico me legna - 

Nel mentre che il caffé arriva, cominciano così a parlare un po' e, dopo i soliti convenevoli del caso, mi balza alla mente un'illuminazione. 

- Carletto... ma sbaglio o sono passati vent'anni giusti giusti? - 
- Vent'anni da che? - mi chiede lui, sorseggiando il suo caffé. Io mi metto a ridere sotto i baffi. Il ricordo di quel momento mi si palesa di fronte agli occhi e mi è impossibile trattenere l'ilarità. 
- Perché ridi? - mi domanda ancora il grande Mazzone, e io allora gli rispondo prontamente. 
- Ma come? Non ti ricordi la tua cavalcata sotto la curva dell'Atalanta? Quella in cui pareggiaste 3 a 3 - 

I suoi occhi sembrano illuminarsi e, incorniciato in quel suo volto bonaccione e ingrigito, si mette a ridere persino lui. A volte non è necessario che i ricordi siano costellati di vittorie e trofei per poterli ricordare con felicità. Momenti in cui il proprio essere dà il meglio - o il peggio, dipende dai punti di vista - di sé ed entra così nei cuori di quelli che ancora credono, sperano, sognano che l'essere sé stessi sia una cosa bella e non da nascondere a tutti i costi. 

- Ma come fa un milanistaccio come te a ricordarse de' una cosa del genere? - mi chiede, continunando a ridere. 

Come potrei dimenticarmene? Quella era un'epoca d'oro, almeno per quel che mi riguarda. Un'epoca in cui il calcio cominciava a interessarmi veramente. Quella in cui il mio Milan lottava per scudetti e Champions League con frequenza. Un'epoca in cui Roberto Baggio si avvicinava al termine della sua convulsa, ma pur sempre meravigliosa, carriera, la quale finì proprio sotto l'egida del signore lì di fronte a me. 

- Ti andrebbe di raccontarmela, Carletto? - gli domando con un po' di imbarazzo, ben consapevole che egli avrà dovuto narrarla un numero incalcolabile di volte, al punto di fargli venire la nausea. 

E invece, come una parte di me si aspetto, il caro Mazzone è ben disposto, quasi volesse anche lui ricordare ardentemente quell'episodio così furente, eppur così ricolmo di una sorta di romanticismo casereccio. Quel romanticismo che avevano gli allenatori che portavano ancora il tutone, mentre tutti gli altri si abituavano a vestire giacca e cravatta in panchina. Di quelli che volevano sentire il peso e il calore del gagliardetto di società cucito sul petto. Quelli che non avevano smesso mai di essere calciatori, nemmeno quando l'età gli aveva costretti al ritiro. 

- E che te devo raccontà. Come sono annate 'e cose lo sai. Ma se proprio insisti, ti dico questo... - 

Proprio come un bambino desideroso di ascoltare la favola della buonanotte, incosciamente mi avvicino verso di lui strisciando la sedia, poggiando al contempo gomiti sulle ginocchia e mento sopra le nocche. 

- Mancava a malapena un quarto d'ora di gioco. L'Atalanta stava vincendo 3 a 1 e questo a Brescia, soprattutto perché giocavamo en casa, corrispondeva a una catastrofe. Io, che oramai me so' innamorato de' a città, soffro ensieme a'lloro, inoltre i bergamaschi me stanno a 'nsultà da' inizio de' a' partita. Poi immaginà che me dicevano... 'e solite cose: terrone, panzone... vabbé, sta di fatto che a un certo punto, Roby me fa 'er regalo -

Mentre me lo racconto, le immagini di quella partita mi si palesano di fronte. E' un momento concitato. L'Atalanta si sente la vittoria del derby orobico già in tasta e sugli spalti si ordono i festeggiamenti nerazzurri. Improvvisamente, un campanile spiove dentro l'area dell'Atalanta. Roberto Baggio, quasi come un giocatore di basket, fa un taglia fuori persistente al diffensore, raccoglie la palla e girandosi in maniera dinoccolata la spedisce in rete. 3 a 2, e manca ancora parecchio alla fine gara. 

- Aveva già segnato 'er primo gol, quello der vantaggio. Ora però ha fatto una delle sue magie e questo c'ha riaperto 'a partita. E... l' non c'ho visto più. Stanco di tutte quelle offese che me so' beccato per tutta la gara, stavorta me arzo da 'a panchina e mi rivolgo alla curva ospite e urlo... - 

La mia mente lo ripete insieme a lui. Mo se facciamo 'er terzo gol, vengo sotto 'a curva!

Ovviamente in quel casino nessuno lo può sentire, ma il suo labiale si legge con estrema chiarezza. I tifosi dell'Atalanta infatti lo recepiscono senza alcun problema e, mossi forse anche da un filo di paura, ricominciano a inveire contro di lui con rinomata energia. Le offese stavolta diventano granitiche e imperdonabili. Una cosa che capita spesso nel calcio. Sempre più spesso. 

- Te dico a' verità. Io non ce credevo. Già pensavo ai gastrite che me sarebbe venuta negli spogliatoi. Agli sguardi tristi di tutti. E invece... -

E invece quando si ha in campo Roberto Baggio, che condivide molto con Mazzone anche se i suoi caratteri erano terribilmente diversi, le cose possono cambiare radicalmente nel giro di pochi secondi. 

- Oh, non ho fatto en tempo addirlo che... - 

Che Baggio lancia uno spiovente lento, ma pericoloso all'interno dell'area con una punizione dalla sinistra. Attaccanti e difensori sgomitano, si cinturano, danzano in maniera convulsa tra loro. Il pallone incoccia in maniera strana e si infila in rete. Tripletta di Baggio. 

- Nun ch'o visto più. Non ricordo nemmeno chi tento de fermarmi. Volevo solo andare là, a dijerne quattro a quei maleducati. Penso de non esser stato mai così veloce en vita mia, guarda. Una cosa... una cosa che nun se scorda. O mejo... che se scorda magari nei particolari. Per esempio, che che jo detto nun lo so più. Mah, forse na roba tipo e mo c'avete ancora da ride? Non lo so. - 

A sentire quel racconto, mi accorgo sempre di più come, in alcuni aspetti, io e Carletto siamo simili. Non cattivi, ma roventi quello sì. Impulsivi quando ci vuole. Scatenati all'occorrenza. 

Guarda caso, pochi anni più tardi da quell'episodio, avevo cominciato a sedere anche io in panchina come allenatore, ma di pallacanestro per essere precisi. Allenavo una squadra di dodicenni del mio paese, che quell'anno partecipava al campionato CSI della zona Lecco e Laghi. Proprio contro la compagine del capoluogo di provincia, durante un inverno particolarmente piovoso, si ebbe una partita che capitano raramente in una carriera dilettantistica come la mia.
Essendo tornei di giovani ragazzi, gli spalti non erano mai gremiti di tifosi, tanto che di solito si contavano a malapena i genitori degli stessi, più qualche amico stretto. Quel giorno invece, causa lo spostamento di una partita del Lecco calcio di circa un'ora per un problema di cui non ho memoria, gli spalti erano stracolmi dei suoi tifosi. Una tifoseria quella del Lecco che definire calda sarebbe un eufemismo. 
Morale della favola, al termine del secondo quarto, stiamo perdendo contro i padroni di casa di quasi 25 punti. Dalle piccole gradinate piovono insulti pesanti e a dir poco violenti, tanto che i miei ragazzi sono un po' spaventati. L'arbitro, parlando con me e il mio collega avversario, pensa che sia meglio dire un paio di parole ai tifosi e manda qualcuno per cercare di calmare gli animi. Al di là di promesse da marinaio e orecchie da mercante, il terzo quarto ricomincia con lo stesso cannovaccio, almeno per quel che riguarda gli spalti, perché in campo gli equilibri si invertono. 
Tutto comincia nel momento in cui il giocatore di punta degli avversari, saltando male in mezzo all'area, cade sulla caviglia ed è costretto così a uscire. Nei sette minuti che seguono, il gap maturato nei primi due quarti si assottiglia tanto da assestarsi su un misero - 4. Se già in precedenza la tifoseria improvvisata non si era comportata bene, i toni trascendono brutalmente da quel momento in poi. Insulti, minacce e persino sputi piovono in campo. Guardo l'arbitro al tavolo, cerco di conversare con quello in campo, faccio di tutto per farla sospendere. Niente, come se fosse una finale mondiale, bisogna andare avanti. Mancano solo quattro minuti, continua a ripetermi l'arbitro nell'ultimo quarto. Quattro minuti che non vogliono passare più e che segnano un costante sorpasso e controsorpasso. 
Mancano sette secondi alla fine della partita. Siamo in vantaggio di due punti e un giocatore del Lecco, forse troppo caricato dalla curva, fa un fallo tecnico e l'arbitro ci assegna tre tiri liberi. A tirare tocca al piccolo Fabietto che ha subito il fallo e lo deve fare proprio sotto gli spalti di quelle bestie scatenate. Prende così tanti insulti che, in quel momento, non ci vedo più nemmeno io e lancio un urlo. Se ci porta sul +5 vi rincorro uno per uno. Manco a dirlo... 
Fui espulso per tre turni, ma almeno in quella giornata - che fortunatamente finì senza risse, anche se per miracolo - mi sentii un piccolo Mazzone pure io. E il Lecco calcio perse tre a zero in casa. 

- Che ti ricordi di quei giorni, Carletto? Cos'è che ti è più caro? - gli domando. 
- Maaaa, tante cose. Lo spogliatoio, quei ragazzi, l'atmosfera, il presidente Corioni che me voleva bene. Ma soprattutto Roby. Pensa che quando cercai di portarlo a Brescia, molti me chiamarono per dirme guarda che questo non va d'accordo con gli allenatori, occhiooo. Ma io non volevo ascoltare, anche perché Baggio svincolato; e quanno te recapita un'occasione del genere - 

E che occasione, penso in quel momento. Insieme a Baggio, quel Brescia riuscirà a raggiungere risultati straordinari per le Rondinelle, e tutti meritati. 

- Sai Baggio a volte te poteva irretì, nun dico de no. Però lo era perché amava er calcio e avrebbe fatto tutto per giocà. Com'ero io, com'erano i giocatori di una vorta, quelli veri. Non sai quanto m'è dispiaciuto quando Trapattoni nun l'ha convocato per l'europeo. Lì capii che era finita. Se sarebbe ritirato - 

A ricordarlo Carletto si rabbuia. Voleva bene a Baggio, anche perché fu forse la medaglia tanto meritata per la sua lunga carriera. Oggi infatti Mazzone è nel cuore di tanti italiani anche per quelle stagioni al Brescia, per l'esser riuscito a comprendere, prima ancora di allenare, un talento innato come il Divin Codino... e anche per quella corsa a per di fiato che è entrata nei cuori dei bresciani e non solo. Come a certificare che, a volte, conta più essere veri, che vincenti.

Carletto si rialza. Si è fatto tardi. Riprende il cappotto, mi saluta e se ne va, sparendo attraverso quella porta della mia immaginazione e lasciandomi un sapore dolciastro nella bocca dei miei pensieri. 

Un abbraccio
Igor