"Ho demoni nella testa, devo pensare alla mia salute mentale." Le parole di Simone Biles, 24enne ginnasta statunitense, plurimedagliata alle passate Olimpiadi di Rio 2016, suonano come un pugno nello stomaco. La dimostrazione di come, per quanto una stella come lei possa risplendere nel firmamento sconfinato dello sport, vi siano sempre ombre tremende, la cui tenebra è direttamente proporzionale alla sua luce, in grado di inghiottirla. 

Più che il suo inatteso errore in pedana, a stupire è stato il profondo senso di smarrimento che ne è seguito, portando Simone a ritirarsi anche dalle gare successive che l’attendevano. E il fatto che ciò abbia stupito è forse il terribile segno che sancisce come, noi tutti, ci siamo dimenticati qualcosa. Basterebbe infatti riudire le parole refluite dalle sue dichiarazioni, sentirne il messaggio nascosto tra virgole e pause, per comprendere questa verità tremenda che non possiamo, o forse non vogliamo, intendere. 

“A volte mi sento davvero come se avessi il peso del mondo sulle spalle.” Così ha detto in tempi non sospetti, prima ancora di commettere quel comprensibile errore. Dichiarazione che, già da principio, era parsa come incompleta, carente di una chiusura che rimarcasse il concetto.E infatti, a seguito della sua rinuncia, ecco che Simone ha deciso di mettere i proverbiali puntini sulle i. 
“Faccio le Olimpiadi per altri, non per me. Mi fa male nel profondo che fare ciò che amo mi sia stato portato via.”

Se solo ci dimenticassimo per un istante chi ha pronunciato queste parole piene di tristezza e dolore, escludessimo il soggetto dall’equazione, il risultato sarebbe ancor più agghiacciante. Nelle parole di Simone infatti c’è qualcosa che non riguarda solamente lei. Quasi il puro spirito olimpionico, l’anima più vera che un tempo albergava lo sport, avesse sfruttato bonariamente la frustrazione di una giovane donna per gridare un monito. Una richiesta di aiuto o, più che altro, un richiamo a riflettere, a ricordare. Ricordarci tutti come lo sport, un tempo, fosse qualcos’altro. 
Fenomeno di massa, evento di portata globale, industria miliardaria. Lo sport di oggi potrebbe essere facilmente definito con una qualunque di queste espressione, magari tutti all’unisono. Lo sport della nostra epoca si è tramutato in una professione. Sebbene ciò possa sembrare naturale o, quantomeno, una comprensibile conseguenza dell’evoluzione societaria, in realtà stona con ciò che esso ha rappresentato nel corso dei secoli. 
Quando Pierre De Coubertin giunse a idearle in quel fine ‘800, le prime Olimpiadi moderne dovevano essere dedicate esclusivamente allo spirito ludico e agonistico. Niente professionismo. Nessuna rincorsa al denaro o al successo. Solo desiderio di mettersi in gioco, sfidare prima sé stessi e il gioco stesso, che la platea di avversari. Una manifestazione per dilettanti. Sebbene al tempo non esistessero ancora televisioni e media just in time, il professionismo aveva già cominciato a infettare l’universo sportivo, tanto che pochi resistettero al suo richiamo. Uno fra questi fu il grande, e indimenticabile, Bobby Jones, campione di  golf che non accettò mai finanziamenti da sponsor o società. Un dilettante che incantò il mondo con i suoi swing.
De Coubertin cercò di evitare tutto ciò. Cercò in maniera alquanto disperata di salvaguardare lo sport da quello che stava diventando la società. Evitare che lo sport uscisse dalla sfera del dilettantismo, parola in cui non vi è nulla di brutto o infamante. Dilettante discende dal latino delectare, intensivo di delicere che potrebbe tranquillamente tradursi come allettare, desiderare o, spingendoci un po’ oltre, amare. In parole povere, il dilettante è colui che ama ciò che fa. Per carità, anche un professionista può essere mosso dal medesimo nobile sentimento, ma unisce il potenziale - e sottolineo, solo potenziale - piacere alla necessità di risultato. Il risultato, nel professionismo, viene prima di ogni cosa, ed è proprio qui che nasce lo spartiacque. Il reale aspetto attraverso cui lo sport si snatura, diventando qualcos’altro. Lo sport evolve dall’attività ludica, dal gioco, che è un aspetto innato della nostra natura umana. Giochiamo per sfogare energie. Giochiamo per creare mondi e universi di fantasia. Giochiamo per divertirci. Lo sport unisce a questo bellissimo istinto un’impalcatura di regole condivise e una spruzzata di agonismo. Lo sport non è più propriamente gioco, ma è il mettersi in gioco. Al di là di questa differenza, entrambi condividono il medesimo centro di gravità permanente - come direbbe il compianto Battiato -, ovvero il diletto. Ogni giocatore è un dilettante. Lo è nel profondo. Perché ama ciò che fa. Ma quando, come in un’equazione in cui viene cambiata o inserita una variabile nuova che ne muta irrimediabilmente il risultato, ecco che lo sport perde il suo collegamento con il gioco, perde la sua natura. Quando la necessità del fine, del risultato a tutti i costi, si insinua con la sua subdola ombra, lo sport cessa di esistere. Per quanto divertimento e guadagno non siano necessariamente avversari, alla fine il loro connubio porta sempre a un rapporto squilibrato tra le parti. Inutile dire quale delle due infine soccomba all’altra. Simone Biles insegna. 

Forse sto esagerando nel dire tutto ciò. Forse, che il professionismo sia la spina dorsale dello sport è una cosa normale, almeno ai giorni nostri. Il nostro mondo attuale si è consolidato sul fine, sullo scopo, sulla tecnica come se tutto ciò che sta a monte, quell’anima dimenticata da cui tutto nasce, avesse perso importanza o, peggio ancora, non sia mai esistito. Sì, potrei prendere in considerazione a questa possibilità, rassegnarmi a essa. Eppure, di tanto in tanto, mi ricordo come madame storia abbia spesso raccontato qualcosa di diverso. Racconta come vi sia stato un tempo in cui lo sport fosse un universo parallelo. Un universo ludico, ma comunque importante. Una dimensione che, in epoca antica, portava a fermare guerre e conflitti, a dimenticare asti e rancori, anche se per poco. Non perché fosse un momento particolare, ma fosse IL momento per antonomasia. Il momento in cui ci si ricordava cosa contasse veramente a questo mondo. Un universo meraviglioso dove illusioni come guadagno, supremazia ed egemonia venivano ricacciate nell’insensatezza da cui erano emerse. 
Ebbene, quell’universo non si può raggiungere. Non se si applica lo zeitgeist, lo spirito del tempo moderno, che è una irreprensibile volontà di potenza. Per farlo in effetti ci vuole qualcosa di opposto e, per le logiche moderne, di completamente insensato. Nello Zohar, splendido libro partorito dal millenario sapere cabalistico, si dice che la Creazione avvenne attraverso sacrificio e rinuncia; la rinuncia dell’Altissimo a parte di Sé stesso, affinché vi fosse spazio per qualcos’altro. Quasi a dirci come la grandezza non stia nell’aggiungere, ma nel togliere. Non si trovi nel desiderio di avere, ma in quello di donare. Affinché qualcosa di bello e meraviglioso possa tornare a nascere, la nostra società dovrebbe fare lo stesso: lasciare spazio. Non si può disegnare su un foglio pieno di scarabocchi. C’è bisogno di un angolo puro, anche se piccolo, in cui la fantasia possa viaggiare. 
Sì, per poter rivivere, c’è bisogno che la società rinunci a una parte di sé stessa, al suo insensato orgoglio. Che crei uno spazio sacro e inviolabile, in cui le sue folli leggi e logiche perdano di senso. Un luogo in cui lo sport smetta di essere professione, smetta di essere scopo e liberi la sua natura, quella vera. La natura del diletto, della passione, dell’Amore. 
Se prima o poi ciò avverrà, forse sarà il momento in cui una ragazza giovane e leggiadra non proverà più paura, ma solo piacere nelle sue movenze; il momento in cui nessun atleta si rifiuterà di scendere in pedana, solo perché l’avversario è cittadino di una nazione “nemica”; il momento in cui nessuno più rifiuterà di partecipare, solo perché il guadagno è minimo. In quel momento, se mai il suo tempo arriverà, riscopriremo qualcosa che tutti abbiamo dimenticato e, se ciò accadrà, cominceremo a nutrire una speranza. Quella in cui lo sport possa espandersi, moltiplicare il suo spirito affinché giunga a influenzare quello della società stessa, cambiandolo, purificandolo. 

Concludo con una citazione da un film semplice, quanto stupendo interpretato superbamente da Will Smith e Matt Damon. La leggenda di Bagger Vance. 
“Quello di cui sto parlando io è un gioco; un gioco che non si può vincere, ma solo giocare. [...] Adesso gioca il tuo gioco, quello che soltanto tu eri destinato a giocare, quello che ti è stato donato quando sei venuto al mondo.”
Sto cominciando a capirlo. 

Un abbraccio
Igor