È mattina. Un rumore fastidioso e ridondante crepita nelle tenebre del mondo onirico in cui sei immerso. Lentamente il trillo della sveglia ti fa riemergere dal lungo sonno, con la mente ancora imbolsita e incapace di connettere. Ciò nonostante, le tue gambe ti portano a raggiungere la posizione seduta, i piedi inforcano le ciabatte e - con malavoglia - ti alzi. Percorri qualche metro per stanze e corridoi. Non sai quanti in precisione, in realtà non sai nemmeno se lo stai facendo per davvero.
Vai in bagno. Espliti le tue sacrosante funzioni biologiche poi, con la stessa cadenza di poco prima, raggiungi la cucina, apri la credenza, prepari la moka e la metti sul fuoco.
Da lì succederanno altri eventi e azioni, ma fino a quando non avrai allacciato l’ultimo bottone della camicia o allacciato la stringa delle scarpe, la tua mente se ne sarà rimasta conglobata in una nebbia densa ancora legata al mondo onirico. 

Ognuno con ovvie differenze d’abitudine potrebbe descrivere il proprio risveglio in questo modo. Un periodo che oscilla tra i trenta e i sessanta minuti, in cui sostanzialmente compiamo tutta una serie di azioni - anche complesse - in balia di una sorta di pilota automatico.
Una cosa simile si potrebbe descrivere anche in altri momenti della giornata, tra cui il tragitto che compiamo con l’auto per andare al lavoro, e viceversa. Questo per dire che, quando pensiamo a noi stessi come esseri coscienti sempiternamente, in realtà non è così. Peggio ancora, quando pensiamo all’essere umano come “creatura dotata di libero arbitrio”, quantomeno dovremmo fare una digressione per cercare di comprendere che cosa tenda a significare un’espressione del genere. Se la intendessimo come semplice capacità di fare delle scelte, comunque dovremmo cercare di capire che c’è sempre un qualcosa che influenza tali scelte: educazione, istruzione, cultura, passioni, odi, visioni del mondo.
In altre parole, i cosiddetti limiti - e non in senso di mancanza - che definiscono la nostra identità, entro la quale i nostri comportamenti, così come il modo di pensare sono sostanzialmente ripetitivi, sebbene possano evolvere. 

Da un certo punto di vista, la descrizione che ho fatto del nostro essere umani potrebbe essere facilmente equiparata ad una macchina, ovvero un artificio che - sebbene non ideato per uno scopo preciso - funziona con una programmazione semirigida. Preso per assodato, ciò ci portà a considerare l’ovvietà conseguente: l’essere umano - a suo modo e con tutte le eccezioni - è prevedibile

Il sistema Moneyball, inventato da tal Bill James - guardia giurata con laurea in economia - e applicato al baseball americano, sostanzialmente si basa su questa concezione. Le persone, non importa di quale cultura o provenienza, tendono a ripetere allo spasmo le proprie azioni. Persino le loro decisioni sono influenzate da questa ciclicità meccanica. E questo può essere tranquillamente applicato allo sport. Anzi, soprattutto allo sport. 

Chi ha fatto qualche attività agonistica, sin da bambino ha imparato che la via dell’efficacia e dell’efficienza è la ripetizione. Il sottoscritto - giocatore di pallacanestro per oltre vent’anni - riuscì a raggiungere in una stagione una buona media al tiro da tre e negli assist per una semplice ragione. Il mio coach del tempo - ti ho sempre nel cuore Daniele, anche ora che non sei più tra noi - mi costringeva a ripetere in estrema monotonia ogni tiro, ogni passaggio, ogni palleggio per intere ore. Ripetere, ripetere, ripetere. E una volta che avevo ripetuto ogni esercizio per - letteralmente - centinaia di volte, scartavo i movimenti che mi portavano lontano dall’obiettivo e mi focalizzavo su quelli invece più efficaci. Dopo di che, si ricominciava.
Ripetere, ripetere, ripetere. Il movimento giusto doveva entrare nel mio modo di fare in maniera meccanica, senza che la voce fastidiosa del pensiero cosciente potesse interferire. Far diventare il giusto movimento un’abitudine. Far diventare il giusto movimento una cosa naturale come mangiare, bere e… beh potete immaginare. 

Ora, posso ammettere come il sottoscritto non sia arrivato lontano nel proprio sport, ma c’è anche da dire che ero appena un metro e settanta con tanta voglia di crescere nonché, a un certo punto, questa mia voglia di ripetere, ripetere, ripetere… si è interrotta. Presi semplicemente un’altra strada.
Ma che dire di coloro che sognano letteralmente di diventare sportivi professionisti, calciatori di massima lega? 

Dai tifosi ai dirigenti societari, non c’è una singola persona che non sogni di avere nella propria squadra dei fenomeni, dei fuoriclasse. Perché non sempre accade? Si potrebbero citare svariate ragioni, ma la principale è quella statistica: sono fenomeni perché sono pochi, pochissimi, quasi più unici che rari.
Ce n’è poi un’altra: molto spesso i fenomeni possono fare quello che fanno, perché circondati da buoni, se non ottimi giocatori. E, per ottimo giocatore - non un fenomeno, non un fuoriclasse, non un campione -, s’intende quel professionista che non sa fare molte cose, ma ben poche… ma le fa in maniera perfetta o comunque con alte percentuali di riuscita.

Il moneyball cerca proprio questi agonisti. Non giocatori fenomenali, ma giocatori i cui numeri dicono che sanno fare alla perfezione, a tratti inconsciamente, una serie ristretta di operazioni che possono essere congeniali al gioco di una squadra. 
Quale capacità deve avere una buona ala? Attaccare la fascia con ostinazione e crossare in the box a doppia cifra, per servire una buona punta centrale che tiri a doppia cifra, di cui almeno un terzo in porta. Potrà sembrare un esempio palese, ma non sempre in fatto di calciomercato - non ancora almeno - si ragiona così. Anche perché, diciamolo chiaramente, non è una cosa facile. Il moneyball, soprattutto se calato nel mondo ancora vergine del calcio, non è un semplice algoritmo che indica i futuri campioni. È tutt’altro. È una serie di ragionamenti basati sui numeri, tanti numeri, infiniti numeri che devono essere ordinati, modellati e analizzati nel modo giusto per cercare il buon giocatore in una determinata posizione, in un ruolo preciso. Non è un lavoro semplice, né facile. Credere ciò è forse uno dei motivi per cui nessuno lo prende in seria considerazione, non come dogma - perché ciò che diviene dogma alla fine è deleterio -, ma quantomeno come valido strumento. 

Una volta, molto tempo fa, il calcio e la maggior parte degli sport funzionavano in maniera differente. Lo scouting era una pratica molto seria, non che oggi non lo sia più, ma di certo è meno tenuto in considerazione perché poco mediatico. Se qualcuno non è d’accordo, spero che mi spieghi allora la ragione per cui in Italia, un tempo patria di giovani talenti, oggi si fa fatica a contare su una sola mano cinque ragazzini di belle speranze.
Che dire poi delle nazionali giovanili? Negli anni ‘90 vincevamo solo noi. Oggi non superiamo il girone iniziale. Questo però è un altro discorso. 

Inutile mentirsi. Il calcio italiano è diventato un campionato povero e in decadenza. Non possiamo permetterci di proporre grandi salari ai nostri campioni per trattenerli, figurarsi andarli a comprare dall’estero. Come ripartire? Come rifondare? Bisogna tornare alle basi, a quello che facevamo un tempo e nell’era dei dati questo lavoro può diventare molto più performante. 
Io non so se il moneyball diventerà un qualcosa di utilizzato e rispettato nel nostro sistema. Nel baseball, sport molto più meccanico e prevedibile del calcio, ha fatto parecchia fatica e, ancora oggi, è bistrattato da buona parte degli addetti ai lavori. Ma Billie Bean, il primo a utilizzarlo con una squadra di media categoria - leggasi povera in canna - come gli Oakland Athletics, ci raggiunse il record di vittorie di tutti i tempi in MLB. I Boston Red Sox, che non vincevano dal 1918 pare a causa della maledizione di Babe Ruth, vinsero il titolo nel 2004, ottantasei anni dopo, proprio grazie a questo sistema astruso e cervellotico. Non acquistando campioni, ma estraendo da un nembo di statistiche giocatori semi sconosciuti, ma con numeri interessanti e ripetitivi. Nessuno ci avrebbe puntato un penny… eppure. 

Posso solo dire che quando il mercato non lo puoi comandare, allora lo devi raggirare. Guardare dove nessuno guarda. Tralasciare chi viene inseguito da chiunque e focalizzarti su chi invece ha qualcosa da dire, ma nessuno se lo fila. Il moneyball potrebbe essere il metodo per farlo? Lo affronteremo insieme in quella che desidererei far diventare una rubrica periodica, su questo stupendo spazio offerto da Calciomercato.com. 

Un abbraccio
Igor Z. 

Un ringraziamento a due veri conoscitori del calcio come i dottori Nava e Mapelli, la cui esperienza e amicizia sono motivo di orgoglio per il sottoscritto. Spero di citarli spesso in questa nostra rubrica, che auspichiamo possa interessare a molti di voi.