Mi formai per fare l’insegnante. Per me è oramai un vecchia storia trita e ritrita, che ogni tanto torno a raccontarmi al fine di tenerlo sempre bene a memoria. 
Non c’è, così come non c’è mai stato, un vero e proprio perché. Il motivo per cui ci sentiamo portati per una passione o una professione, spesso trova il suo fondamento non tanto su ragioni logiche, ma in aspetti più strettamente legati alla nostra indole. Ma se proprio volessi fare uno sforzo in tal senso, posso solo dire che, sin da bambino, ho sempre amato raccontare. E, a mio modo di vedere, l’arte del racconto non è poi così distante dall’arte dell’insegnamento. Gli insegnanti e i formatori più bravi infatti sono quelli che NON spiegano, ma narrano. Aggiungete poi una nonna maestra - una delle persone più importanti della mia vita - e una psicotica passione per l’approfondimento, e forse avrete capito il motivo di questa mia tendenza. Ma tant’è. 
Purtroppo, fui costretto ad abbandonare questa mia ambizione. I motivi sono vari e non mi dilungherò nell’elencarli inutilmente. Troppe cose erano cambiate lungo il mio percorso formativo, dal punto di vista accademico e giuridico. Ma soprattutto credo che fossi giunto a un punto, in cui avevo compreso come la mia personale idea d’insegnante cozzasse brutalmente con quella che la scuola moderna richiedeva. 
Come diversi stage e tirocini me ne avevano dato un assaggio, senza voler offendere niente e nessuno, ancora oggi - e più di allora - definisco la scuola media-superiore italiana come un enorme esamificio. E, se non si è sentito leggendo semplicemente la parola, sappiate uso questo termine con un’accezione radicalmente negativa. La vera esperienza che me ne diede certezza capitò poco dopo il mio diploma quando, per guadagnarmi due lire, passai un quadrimestre come supplente di filosofia e storia, in una scuola privata. Fui scelto io in quanto avrei insegnato una materia NON di indirizzo - trattandosi di un istituto scientifico - e perché le mie pretese di stipendio allora erano sotto la media. Alea iacta est
Senza mezzi termini, fu un’esperienza meravigliosa, sebbene segnata da numerosi avvenimenti che potrebbero essere interpretati come poco piacevoli. Vi basti sapere che, dopo appena un mese, ricevetti il mio primo richiamo dalla direzione. Causa del richiamo fu il fatto che, sino ad allora, non avevo ancora testato l’apprendimento degli studenti. Perché gli studenti non si formano, si testano… vabbé, andiamo avanti. Decisi allora di ovviare organizzando la prima prova scritta che, come anticipai alla classe, sarebbe stata incentrata su un tema ben preciso: Il primo dopoguerra e i prodromi del secondo conflitto mondiale in Germania. In altre parole, quanto avvenuto in terra teutonica tra il 1918 e il 1939. 
Ricordo che ci misi tre giorni per preparare il compito, essendo di fatto alla prima esperienza. Quando però mi presentai in classe il giorno della verifica, fui investito da uno spettacolo assai ilare: il notare con un solo colpo d’occhio i classici escamotage di cui tutti gli alunni si sono avvalsi, almeno una volta nella vita, per darsi un aiutino durante i compiti in classe. Bigliettini sapientemente incollati nel sottobanco, tatuaggi di indubbia bellezza sugli avambracci, cantilene mantriche costante suggerimento a mò di sottofondo. 
Sorridendo sotto i baffi, non ebbi il pudore di tenermi la cosa per me e cominciai a riderne insieme agli studenti. Al di là delle risate però, decisi di cambiare registro e così misi via i compiti preparati nel corso di diverse notti insonni. Dissi allora di prendere un foglio bianco su cui scrivere alcuni quesiti, su cui li avrei - usando il gergo dirigenziale - testati.
Piccolo spoiler: a posteriori, i miei alunni l’avrebbero definita una maligna bastardata. Ancora oggi ne ridiamo. 

I quesiti - li ricordo bene ancora oggi - furono i seguenti: 

  • Secondo lo studente, quali sono le ragioni storiche e culturali, per cui il nazismo riuscii a prendere il potere nella Germania del primo dopoguerra

  • Indicare se ci furono momenti in cui si sarebbe potuto fermare Adolf Hitler prima della sua salita al potere e, nel caso, argomentarne le motivazioni

  • Indicare quale gerarca nazista, a detta dello studente, è stato il vero pilastro dell’intero sistema nazionalsocialista e argomentarne le motivazioni

Infine, sotto le tre domande, un’ultima frase da me dettata: NON esiste una risposta esatta per definizione. Immaginate lo sguardo di quei poveri disgraziati… gli occhi persi nel vuoto. 
Il risultato fu apocalittico. Su circa venti studenti, cinque - una bella manona aperta - consegnarono il foglio in bianco. Una dozzina si cimentò invece in un’ottima cronistoria del nazismo, purtroppo per loro totalmente fuori contesto rispetto ai quesiti. Di quelli che rimanevano, abbozzarono qualche risposta infiorettata con un buon grado di fantasia.  Contro ogni aspettativa - degli altri almeno - quest’ultimo gruppetto fu l’unico a raggiungere la sufficienza (scarna). Quattro in tutto. 
Dichiarati e certificati i voti, ecco dunque piovere su di me il secondo richiamo della direzione. Di fatto, la ghigliottina che strappava il mio contratto di rinnovo, prima ancora che esso venisse scritto. Non è possibile che così pochi studenti prendano una sufficienza. Se è così, il problema è il professore. 
Dirigenti irretiti, genitori furiosi. Una Caporetto per la mia nascente - e già morente - carriera di insegnante. Con i ragazzi però andò invece in maniera molto diversa. 
Sebbene in molti l'avessero presa come una sorta di punizione - che sarebbe stata totalmente immotivava - in realtà con quella mia iniziativa avevo voluto fare l’esatto contrario: dare totale libertà di ragionamento ai miei studenti. Considerandoli persone dotate di intelligenza, volevo slegarli dal tedioso processo valutativo-mnemonico a cui ero stato costretto io per molto tempo. Invece che focalizzarsi sui come e quando - che, per carità, sono molto importanti - volevo che si domandassero il perché delle cose che stavano studiando. 
Perché… perché le cose accadono? Perché una cosa funziona in modo, piuttosto che in un’altra? Perché due più due fa quattro, e non cinque, o tre, o nove? Ma, soprattutto… perché decidere di prendere una strada di vita, piuttosto che un’altra? 
Domande a cui non c’è mai una risposta precisa. Ecco il motivo per cui feci mettere quell’ultima frase così strana sotto i quesiti. Ciò che conta è la domanda. Cercare di capire, dare un senso, un proprio significato, alle cose. E per farlo è necessario metterci del proprio o, detto in altre parole, far emergere un po’ della propria identità. La scuola è sede di formazione della persona in senso globale: nozionistico certo, ma non solo. La formazione comporta anche i lati emotivi, sentimentali, ispirazionali. Il capire chi si è, il cosa si desidera fare e il perché

Perché voglio fare il medico, lo scrittore, l’avvocato, l’operaio, l’impiegato… Per il come e il quando c’è sempre tempo, se il perché è chiaro. Se invece manca il perché, manca il motivo o, meglio ancora, la motivazione stessa. E il come e il quando non hanno più alcun senso. 
Parlavamo anche di questo, io e i ragazzi. Più volte domandai loro interessato cosa volevano fare nella vita. E, come spesso capita, le strade erano molteplici e variopinte. Sul cosa, sul come e sul quando, le loro idee erano chiarissime. Quando poi però domandavo il perché volessero seguirne una piuttosto che un’altra, si calava un silenzio sepolcrale. E, per evitare l’imbarazzo dell’incertezza, si salvavano poi in calcio d’angolo uscendosene con risposte quali: 

  • credo di esserci portato

  • perché è la professione di famiglia

  • perché si guadagna (risposta legittima, non facciamo i finti ipocriti)

Perché mi piace… nessuno mi rispose mai in questo modo, esattamente come non lo fanno tuttora gli studenti delle classi a cui dò ripetizioni massive per diletto. Peggio. Rispetto ad allora - dove il cosa e il come almeno erano chiari - oltre al perché, molti ragazzi non sanno nemmeno cosa fare. Un problema che è davanti agli occhi di tutti, ma a cui non si dà importanza. Un problema non da poco. Mi piacerebbe dire che gli studentelli che mi chiedono aiuto di tanto in tanto siano tutti tranquilli e spensierati, ma purtroppo non è così. Il loro guardare al futuro non è solare ed entusiasta, non sempre almeno. Un futuro di cui addirittura a volte hanno paura. Cosa farò? Boh… 
Sempre con maggior frequenza si parla di come la scuola debba preparare al lavoro. Per molti è quella la sua funzione. Il che significa che tutte le motivazioni dei ragazzi devono incentrarsi su quella dimensione lì, quella professionale. Eppure, correggetemi se sbaglio, la vita non coincide strettamente con il concetto di lavoro, il quale quest’ultimo fa piuttosto parte della prima. E se sbaglio lavoro? E se me ne accorgo troppo tardi? E se non sono adatto? E… se poi mi accorgo che non sono felice? E se fallisco… come se il fallimento fosse una colpa, un qualcosa di cui vergognarsi.
Possiamo illuderci che le nuove generazioni siano composte da scemi, ma non lo sono. Loro queste domande se le pongono, anche se non ce lo dicono. E non lo fanno è perché se ne vergognano, perché gli facciamo capire che non li vogliamo ascoltare. L’importante è che porti a casa buoni voti, altrimenti che figura ci faccio… L’importante è che ti si possa valutare rapidamente, facilmente, oggettivamente. Di chi sei tu, di cosa vuoi, a cosa aspiri, non gliene frega niente a nessuno. E se non gliene frega niente a nessuno, alla fine si convincono che nemmeno a loro importa poi così tanto.

Morale della favola, mi ero formato per fare l'insegnante, ma fallii miseramente. Non ero portato per la docenza, questo è quanto. Tuttavia, porto il ricordo nell'esperienza nel cuore e quando, di tanto in tanto, al telefono si palesa uno di quei ragazzi mi emoziono, così come mi emoziono a ogni sessione di ripetizioni che dò a una classe. A ogni volta che ho a che fare con menti grezze, ma bellissime; con aspirazioni celate, ma pulsanti; con desideri abbozzatti, eppur meravigliosi. Una cattedrale di motivazioni stentate, perché là fuori non c'è orecchio che si voglia prestare all'ascolto. E che infine, nel silenzio abissale in cui vengono relegate, si perdono nella nebbia del nulla che qualcuno chiama realtà moderna
Sì, mi formai per fare l'insegnante, ma fallii. E mai fallimento fu più gioioso nella mia vita, perché fu fonte di una motivazione che ancora oggi arde dentro di me. 

Dedicato ai ragazzi che hanno la sfiga di sentire le mie amenità di tanto in tanto.
Un abbraccio
Igor