Si pensa che lo sport, e forse più in generale il gioco, sia un’invenzione moderna. Quando si cerca di guardare al passato, a epoche in cui le meraviglie - o le maledizioni - della tecnica si susseguivano ancora a passo d’uomo, pare quasi incredibile che l’essere riuscisse a trovare il tempo per dilettarsi vanamente. Tra le fatiche dei campi o delle botteghe, tra le brutture di conflitti sempre in agguato e vite sin troppo brevi, con quali forze - o quale leggerezza - ci si poteva estraniare per dedicare il momento al gioco? Verità vuole che il rapporto tra l’uomo, inteso come specie, e il gioco affondi le proprie radici in un passato remoto, ancestrale; tanto antico da essere andato perso nei meandri della memoria collettiva. E che, in questo suo strano rapporto, abbia spesso deciso di avere compagna proprio lei: la palla

Sebbene la storia del calcio, anche se non come lo conosciamo noi oggi, identifichi dei momenti precisi in cui posizionare le proprie origini - ne parleremo più in là -, riuscire a contenere la sua progressione in dei limiti marcati è impresa ardua, se non impossibile. 

In ogni epoca, e in ogni dove infatti, si rammentano sfaccettature sempre più vetuste del gioco con la palla, che affonda addirittura le proprie fondamenta nei millenni. Alcune raffigurazioni cinesi riportano nobili di un passato quasi mitico che uccidevano la noia calciando un pallone fatto di stracci. Tornando verso le nostre terre, si narra come i greci, tra cui persino i severi spartani, si confrontavano nel maschio episkyros che, tra l’altro, la FIFA ha riconosciuto ufficialmente come antenato del calcio. Una decina di giocatori per squadra, ognuno con un proprio ruolo, ne sfidava un’altra allo scopo di lanciare il pallone oltre la reciproca linea di fondo. Gioco che pare fu adottato dai romani - che dai seri greci presero molto altro - dando a questo tempo soave una discreta importanza. Basti pensare che lo storico Svetonio, riferendosi al grande Augusto imperatore, sostenne come “alla fine delle guerre civili, rinunciò all’esercizio bellico dell’equitazione e delle armi” preferendogli quello del gioco della palla. Lo sport, anche se nella sua versione forse più ludica e meno agonistica - per quello prima ancora vi erano state le mitiche olimpiadi -, riusciva a fare breccia nel cuore degli uomini che, tra una guerra e l’altra, un complotto e quello successivo, vi dedicava la propria attenzione. Non solo. A volte persino il periodo di guerra poteva divenire periodo buono per tirare fuori un pallone, formare due compagini avversarie, e dare così il via a una sfida nella sfida. Come se lo sport e la competizione avesse il potere di esorcizzare la funesta tirannia della paura, persino di quelle più estreme: l’essere soggiogati e, ovviamente, la morte. Ed è proprio in questo truculento contesto, che credo ci si possa soffermare un secondo per narrare una storia che, in qualche modo, potremmo porre alle radici di questa nostra storia del calcio. 

E’ il 17 febbraio del 1530. In una Firenze che vive forse l’epoca del proprio massimo splendore, la popolazione è strangolata dall’angoscia della guerra. Alle porte infatti battono ritmicamente le alabarde e gli scudi dell’imperatore Carlo V, che da diversi mesi ha messo sotto assedio la stupenda - quanto ribollente - città toscana. La fierezza dei fiorentini ha reso quella che, almeno sulla carta, doveva essere una facile conquista, un vero e proprio spreco di truppe, vettovagliamenti e sangue nelle fila imperiali. Tuttavia, la stanchezza della battaglia serpeggia velenosa tra le vie e le piazze dell’Atene italica, anche se - loro ancora non lo sanno - mancano ancora mesi prima della definitiva presa della città. Il timore che questa stanchezza possa portare i cittadini a chiedere, forse persino imporre, una resa dignitosa, è forte e i valorosi capitani di battaglia non lo possono accettare. E, allora, proprio come ci si aspetterebbe ancora oggi da dei buoni toscani - magari alla Amici Miei -, si decide di combattere il nemico con un’arma impropria e sdegnosa della situazione. Quasi a voler sbeffeggiare le sterminate truppe che assediano le mura, cinquantaquattro uomini vestiti in livrea, ventisette di un colore, ventisette di un altro, si presentano in piazza Santa Croce, sotto sguardi accesi di un’inconsapevole orgoglio. Uno di loro tiene in mano un pallone fatto di stracci pregiati, mentre ai lati brevi e opposto della piazza degli uomini ergono delle reti da pesca abbandonate. Tamburini e trombettieri si appropinquano ai bordi del campo, seguiti dall’interezza della cittadinanza che, sì, per un momento sembra dimenticare il richiamo del tiranno, là fuori. 

Probabilmente - o almeno mi permetto di immaginarla così - gli accorsi non sanno bene a cosa stanno assistendo, quando la tromba dà il via ufficiale alle caccia, così come si chiama in gergo l’inizio del gioco oggi noto come calcio storico fiorentino. Un nugolo di azioni solo in apparenza disordinate, segnate da una profonda violenza repressa, in cui calci e pugni sono permessi, e il pallone, vero protagonista occulto dell’azione, gira come un ossesso alla ricerca della sua prima segnatura. Non c’è tifo. C’è baraonda. Il conflitto tra le due compagini, tutti ne sono certi, è puramente illusorio - sarà forse l’unico caso nella storia - perché il vero fine è lasciare che le urla di giubilo, l’apparente serenità, si dipanino all’esterno, verso quelle mura assediate, e irridano gli invasori. Nessuno può dire con certezza se l’impresa abbia raggiunto l’esito sperato. Di certo, per quanto smargiassi, i fiorentini del tempo non erano stupidi. Sapevano che, presto o tardi, l’inevitabile sarebbe giunto tra loro e non vi era nessuno che vi avrebbe potuto porre rimedio. Ma da lì a quel 12 agosto dello stesso anno - il 1530, giusto per ricordare -, data in cui infine le truppe imperiali avrebbero ottenuto la tanto agognata resa fiorentina, nel cuore e nelle menti di tutti si sarebbe solidificato un ricordo e, con esso, una consapevolezza. Quella che l’essere è forse più portato per il confronto sportivo, anche quando aspro e segnato dal primo sangue, che per il conflitto definitivo. Che nello spirito umano c’è molto più desiderio di gioco, che di guerra. Che lo sport, sebbene al tempo ancora così non si poteva definire, porta con sè un qualcosa di magico, di mistico. Non a caso spesso tra le nostre mura diciamo che è il calcio la vera religione del nostro popolo.

Fu così che da quel giorno, per circa un centinaio d’anni almeno, il carnevale del 17 febbraio e la sfida del calcio in livrea, come fu denominato inizialmente, sarebbe stato ricordato e ribadito ogni fine inverno. Quasi a ricordare, stampare bene nella memoria di coloro che vi assistettero, ma soprattutto di coloro che vi sarebbero succeduti, che il gioco ha un potere enorme, con cui nessun tiranno, nessun esercito e nessuna ingiustizia può competere. Il potere di zittire ogni paura e di dare un calcio sonoro anche a madame morte

Iniziò così, o quanto meno trovò una tra le più importanti delle sue molteplici origini, la storia del calcio che tutti amiamo e che, se ce lo concedete, andremo a esplorare assieme nelle prossime pubblicazioni.

Un abbraccio

Igor Z.

 

Questo articolo è stato redatto dal sottoscritto, grazie all’aiuto fondamentale dei dottori Nava e Mapelli, la cui conoscenza della storia calcistica è, senza mezzi termini, è sconfintata.