«Non c’è recipiente più perfetto di un cuore spezzato» 
(detto cabalista)

Nella vita di ognuno di noi, esistono dei momenti precisi in cui la nostra esistenza si trova a dover fare una scelta - consapevole o inconscia -, un bivio in cui è necessario svoltare, cambiare. Di alcuni nemmeno ce ne accorgiamo, altri invece rimangono lividi nella memoria. Per quel che mi riguarda, io sono cresciuto in una piccola cittadina del nord Italia, dove i ragazzini venivano cresciuti tra scuola, oratorio, campi di calcio e aule di catechismo. Ed è proprio in quest’ultima locazione figurativa che io ricordo come, intorno ai 16 anni, fui letteralmente scaraventato fuori dall’aula. Scranno della mia colpa era stato indugiare eccessivamente nella mia naturale propensione alla domanda e all’approfondimento, finendo - come spesso capitava e capita ancora oggi - per toccare lati oscuri e dolenti

Ora, eviterò di ammorbare il lettore con questioni personali legate al mio percorso. Basti sapere che da quel momento aprii la curiosità a ciò che stava al di fuori, sia dimensionalmente che temporalmente, del noto a livello scolastico. Cominciai a leggere con maggiore assiduità gli antichi scritti greci e giudaici - entrambi alla base della nostra cultura -, e lo feci nell’unico modo, che un vecchio professore saggio mi disse essere sensato. Leggerli direttamente in lingua originale. Superata la fatica di dover imparare - almeno sbocconcellare - il greco e l’ebraico antico, un vero e proprio universo a tratti sconfinato mi si aprì di fronte. Se dovessi definire il percorso che si schiuse innanzi a me, l’unico modo per poterlo fare in maniera sintetica sarebbe utilizzando le parole del grande filosofo Levinàs.

«Sulla strada che porta al Dio unico, c’è una stazione senza Dio. Il vero monoteismo ha il dovere di rispondere alle legittime esigenze dell’ateismo. Un Dio per adulti si manifesta per l’appunto attraverso il vuoto del cielo infantile.»

Lo so, può apparire un po’ criptica, ma è proprio qui che sta il bello. In un mondo basato sulla semplicità e la rapidità, la complessità mantiene quel suo velo di magnificenza fatto da un’eterna domanda, a cui la risposta rifugge sempre. Di fatto, traducendola a fini utili per questo mio - spero non troppo corposo - articolo, sta a significare che, per costruirsi relative certezze in cui vivere sicuri, bisogna transitare nell'incertezza. E, io aggiungo, necessariamente.

Tornando a noi, tra le svariate vie conoscitive in cui misi piede, una mi portò ad approfondire uno dei miti più famosi della nostra cultura, ovvero quella della cacciata dall’Eden. Per cause allegoriche - e politiche - in cui eviterò di addentrarmi, tale mito è sempre e solo stato percepito esattamente per come viene rappresentato, ovvero come una punizione da cui l’uomo si deve mondare nel corso della propria esistenza. Interpretazione questa di estrema superficie, perché legata proprio al costrutto del racconto, così come viene narrato. Ne esistono però delle altre, provenienti dagli ambienti più disparati, come quello cabalistico speculativo - di cui vorrei tanto dissertare, ma il rischio di narcolessia indotta raggiuungerebbe livelli da denuncia -, oppure quello psicanalitico. Ed è proprio con quest’ultima accezione che vorrei giungere al succo del pensiero. 

Con l’Eden, il paradiso terrestre biblico in cui l’Adam - l’Uomo inteso come umanità, nella sua sfaccettaura maschile e femminile - venne posto in origine, portiamo con noi un senso di allegorica perdita. Prima o poi, nel nostro percorso di vita, perdiamo tutti un qualcosa. Tutti. Usciti dai miasmi dolci dell’infanzia, in cui ci sentiamo immersi in una sensazione di pienezza e totale collegamento alle cose, ecco che con la maturazione sentiamo come una frattura in noi. Il momento in cui sorgono le domande chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo e perché. Quesiti atavici a cui difficilmente troviamo risposta - solitamente non accade - e che generano in noi sofferenza.
Proprio come nell’Eden, dove l’Uomo - ancora una volta inteso come umanità - infrange il divieto di cogliere il frutto dall’Albero della Conoscenza del Bene e del Male, ricevendo appunto la capacità di discernere.
Attenzione, cosa significa discernere? Perché questo atto viene visto come spinto, suffragato dall’inganno del serpente, sempre - anche a torto - identificato come il diavolo? Proprio perché in tali due termini, discernere e diavolo, vi è la base etimologica di cosa è la conoscenza. Capacità di dividere, separare, disgiungere ciò che prima era unito e non diversificato. Secondo una delle tante allegorie - con la a maiuscola, niente di dogmatico - cabalistiche, più che una punizione, ciò corrispose al principio del percorso di rettifica dell’Uomo - inteso ancora una volta come umanità - che tutti intraprendiamo nella nostra esistenza. Tornare al senso di completezza dell’unità, ma che deve passare necessariamente da questa fase, che giunge con la fine dell’infanzia, in cui la conoscenza ci porta a separare il mondo in parti infinitesime e a porci la domanda focale: che senso ha tutto questo? Conoscere, voglio ribadirlo, significa separare, delimitare. Quando conosciamo una cosa, agiamo per principio di non contraddizione, dando così dei limiti ben precisi, delle de-finizioni - mettere fine, un limite - a ciò che vediamo e comprendiamo, che sostengono come “quella cosa è quella e null’altro”. E il separare, ovvero dare autonomia e vita propria disgiunta a due cose, è sempre un atto che porta con sé un certo grado di dolore. Dolore esistenziale che vogliamo superare, a ogni costo. A volte affrontandolo con la ricerca costante. A volte distogliendo lo sguardo. A volte - purtroppo - chiedendo aiuto al farmacista. 

Più conosci, più soffri. Ma così come la filosofia da una parte, la psicologia sua digressione insieme a essa, e la cabala speculativa da un’altra sostengono, questo percorso di dolore non si può, ma soprattutto non si deve aggirare. Anche perché - ribadisco - non si può. Possiamo forse, come degli indomiti Peter Pan, invertire la nostra maturazione biologica? No. Possiamo evitare al nostro cervello e al nostro corpo di modificarsi? No. Possiamo - in ultima istanza - aspirare all’immortalità statica in senso fisico? No. Ci sono situazioni, questa in particolare, che avvengono, si presentano alla nostra porta e decidono di entrare nelle nostre vite. Tutto cresce, cambia, si trasforma nel corso della sua esistenza. Capita alle persone, capita alle idee, capita persino alle realtà imprenditoriali. Capita ai blasoni. Tutto cambia, che lo si voglia oppure no. Anche nel calcio e nelle realtà che lo animano. E qui, perdonate il ritardo, entriamo nel vivo. Sbaglierò, ma io credo che il ventennio che va dal 1990 al 2010 sia stata come una sorta di prima infanzia moderna per il nostro calcio. Un calcio fatto di sogni e di esagerazioni, di grandi risultati e abnormi sprechi, di soave spensieratezza e truculenta inconsapevolezza. Il tutto e il suo contrario, indiviso, confuso. Proprio come nell’infanzia. Questo non a dire che quando si è bambini si è deficienti, tutt’altro. Poi però si cresce e con la crescita arrivano dilemmi. Il calcio stesso ha avuto i suoi dilemmi, e con noi amanti passionali all’interno

Tutto d’un tratto si è capito che il denaro era una risorsa scarsa - quando mai - e che non si poteva spendere e spandere senza limite. D’improvviso si è compreso, o qualcuno ci ha fatto notare, che è la differenziazione, e non l’egemonia, a rendere i campionati competitivi. Inaspettato, come inaspettata e improvvisa è il passaggio dall’infanzia alla pubertà, giunse il momento in cui ci si accorse che per crescere, per rimanere competitivi, servivano regole intra-campo ed extra-campo da rispettare. Potenziare lo scouting, portare dei valori nelle scuole calcio, far crescere i giovani, superare certi pregiudizi idiotici - che perdurano ancora oggi purtroppo -, investire per farlo, tenere sotto controllo i conti per investire. Giunse infine il momento in cui cogliemmo il frutto della conoscenza e da esso rimanemmo folgorati. Ricordate cosa succede ad Adamo ed Eva, sempre allegoricamente, quando colgono il frutto? Si accorgono di essere nudi e se ne vergognano. Corrono a coprirsi non per risolvere la situazione, ma per nasconderla. Guarda caso quando giungiamo all’adolescenza, c’è sempre una sorta di senso di vergogna che ci accompagna, legata alle sfaccettature più differenti. 
E il calcio italiano, d’improvviso, si sentì proprio così, nudo, spogliato delle sue prerogative, spogliato del suo passato che noi tifosi - facciamolo ogni tanto un mea culpa - continuiamo a rivangare, come se potesse tornare. Il mondo è andato avanti, è cresciuto - non necessariamente in bene, ma tant’è - mentre noi siamo rimasti fermi. A confermarlo, un palmares da terza categoria negli ultimi quindici anni. C’è chi dice che stiamo uscendo da tale situazione, visto che abbiamo vinto un europeo - ed evitato due mondiali -, così come raggiunto tre finali europee per club - e vinta nessuna -.
Per come la vedo io, un orologio rotto segna sempre l’ora giusta due volte al giorno, ma nulla più. Qualcuno penserà che sono troppo pessimista. Probabilmente è vero. Il mio professore di filosofia diceva che appartenevo alla categoria psicologica definita da Nietzsche come esistenzialismo attivo. In effetti, non mi fido degli ottimisti e ho le mie buone ragioni per farlo. Tuttavia una realtà “pessima” non la vedo come una cosa che non può essere cambiata. Può esserlo, certamente, ma solamente attraverso fatica, sudore e soprattutto consapevolezza. Colto il frutto della conoscenza, giunti a essere consapevoli delle condizioni critiche - e crisi etimologicamente non è un termine negativo - in cui navighiamo, non c’è altro che affondare in tale conoscenza per cercare di capire.
Conoscenza e saggezza sono due termini differenti, molto differenti. Se leggete sulla Treccani, tra le svariate definizioni della saggezza ne troviamo una affascinante: equilibrata prudenza nel distinguere tra il bene e il male. In altre parole, una conoscenza equilibrata dalla prudenza. Prudenza: capacità di valutare il peso e la conseguenza delle proprie azioni. Se lavoriamo un po' di oratoria, giungiamo dunque alla sintesi in cui la saggezza ti porta a staccare gli occhi lacrimosi dal passato e cercare di immaginare, e organizzare, il proprio futuro

Quindici anni fa, violenta come lo fu la crisi del credit crunch che vi si accompagnava, la conoscenza è stata sbattuta in faccia al mondo del calcio italiano e a noi suoi tifosi soprattutto. Forse è giunto il momento di ricercare o costruirsi un po’ di saggezza.
Sono passati quindici anni e magari è troppo presto, proprio come quando abbiamo noi questa età e siamo ancora immersi nella caotica adolescenza. Forse c’è bisogno di ancora un po’ di tempo. C’è bisogno di tempo e lo vediamo, osservando i nostri capricci esistenziali. Vorremmo vedere squadre sempre titolate, campioni calcare i nostri campi, proprietari danarosi dare fondo alle loro tasche per comprarli. Non ci preoccupiamo di capire perché non si può più, e qui ci finiscono dentro non solo i tifosi come noi, ma anche veri e propri giornalisti, il che è aberrante. Se a non comprendere il mondo per com’è sta andando sono parte di coloro che ce lo devono narrare, figurarsi come possono andare le cose. Siamo ancora ancorati ai capricci smodati e immotivati dell'infanzia, dove non si vuole accettare ciò che si comincia a conoscere. Prima o poi - sperando di non farlo troppo tardi - dovremo accorgerci che i cambiamenti che stiamo vivendo sono irreversibili. Starà allora a noi scegliere se adattarci e, chissà, magari fare in modo che portino a un qualcosa di bello, oppure sopperire alla situazione. 

Potrei concludere qui. Terminando senza terminare. D’altronde non c’è una vera e propria consecutio a questo mio sfogo - perché di questo si tratta -, perché il suo fine, sempre che uno ne abbia, non era trovare una risposta, ma cercare di far emergere una domanda.
Potrà sembrare un discorso un po’ retorico per una dimensione come il calcio, ma non è così. Il calcio muove le nostre emozioni, i nostri sentimenti, i nostri stati d’animo. Altrimenti nessuno sarebbe qui a scrivere o a leggere.
E dove c’è emozione, che è la base su cui dovrebbe partire la nostra formazione di vita, allora c’è un substrato importante su cui trovare una retta via di ragione. 

Chiedo scusa per la prolissità. 
Un abbraccio. 
Igor Z.