Se i soldi facciano o meno la felicità, credo sia un problema di prospettive. Il vecchio lento ben noto a tutti è serafico in tal proposito, ma non sempre i saggi del passato hanno necessariamente ragione di se stessi. Se non fanno la felicità, di sicuro i soldi generano benessere e allontanano brutti pensieri… se si sa amministrarli, questo va detto. Potrei perdere giornate a raccontarvi di come clienti e amici, fortunati sotto l’aspetto economico e finanziario, siano giunti alla fine a rovinarsi sull'inerpicato terreno della cupidigia. Terreno che è lastricato di storie tremende. Un sentiero che sebbene sia asfaltato in oro zecchino, è a volte assai cedevole o quanto meno scivoloso. E per saperci camminare, bisogna avere un buon senso dell’equilibrio. 

In effetti, se gli studi di neuroscienze e di alcuni psicologi comportamentali hanno ragione, in realtà il denaro genera felicità sino a un certo punto. La curva delle endorfine cresce entro certi limiti, entro certi redditi, per poi appiattirsi e, in alcuni casi, giungere persino a scendere. Alcuni pongono questo limite agli 80.000 dollari. Altri a 120.000. Ma tant’è, comunque sia siamo ben lontani dalle cifre monstre che guadagnano i calciatori professionisti, nei campionati maggiori d’Europa. Cifre che, in particolare negli ultimi anni, sono state protagoniste di una curva ascendente molto ripida. Una crescita talmente spropositata, che ha portato a una vera e propria deflagrazione del calciomercato così come lo conoscevamo. Un tempo si parlava e si trattava a lungo sul valore dei cartellini. Oggi non è più così. Non ce n'é più bisogno. Strangolate da richieste di rinnovo troppo onerose, le società non possono che chinare il capo e lasciare andare i propri giocatori. Uno scenario che, mi spiace per i più speranzosi, diverrà il vero leit motiv dei prossimi anni, se qualcuno - chi? - non deciderà di metterci una pezza. 
Ciò non significa che tale situazione sia sbagliata. In verità, sul tema società, procuratori, giocatori e soprattutto tidosi si sono infatti divisi in due scheriamenti ben precisi. Da una parte coloro che difendono questa nuova china presa dal mercato; che difendono l’essere professionisti dei calciatori, di come i lati emotivi contino ben poco nel mondo moderno. Dall’altra, quelli che vorrebbero rivedere un calcio fatto di bandiere, di attaccamento alla maglia, in cui non è una questione di soldi, non solo almeno. Certo, i soldi spesso fanno la differenza. Per un impiegato come il sottoscritto, per un operaio, per un quadro, per un libero professionista, cento euro in più sono pesanti come un macigno. Un paio di verdoni in più in busta paga saldano bollette, coprono parte della rata di mutuo, dell'affitto, ti aiutano a pagare il nido della bambina. In estrema sostanza, ti danno un'ora in più di sonno a notte, sperando sempre che la lavatrice regga, l'auto continui a camminare e che la traiettoria dell'asteroide che domani entrerà nell'atmosfera finisca nel campo a fianco casa e non sul tuo tetto. 
Questo per noi poveri mortali. A livelli più alti - molto più alti, quando il conto in avere dell'estratto conto annuale raggiunge i sei zeri - si potrebbe dire lo stesso? In tal caso, scegliere tra uno o due milioni in più su uno stipendio già milionario, farebbe veramente la differenza?
Ovviamente, per saperlo bisognerebbe vivere in prima persona tale situazione. Eppure, sperando di non sembrare superbo o ipocrita, sono persuaso che le cose siano emotivamente differenti. Di certo, più aumenta il reddito, più la qualità della vita migliora. Ciò nonostante, qualcosa dentro di me mi vuole convinvere che, oltre un certo limite, l'apporto di felicità, quella vera, quella che ti fa ringraziare di essere venuto al mondo, cominci a scemare. Ricordo infatti i miei anni di liceo. Allora come oggi, ero affamato di buone letture e, nel mio percorso didattico, incappai in uno scritto che, insieme a pochi altri, credo mi abbia segnato profondamente. Quel Mastro Don Gesualdo del buon Verga che, di tanto in tanto, torno a rileggermi. La storia di questo ometto divenuto estremamente ricco, stereotipo del povero arricchito come si dice dalle mie parti, che tanto si era innamorato delle sue ricchezze, da inaridire la sua stessa esistenza. Questo personaggino tanto intimorito dal poter perdere quanto guadagnato, da decidere di volersi portare tutto nella tomba, giungendo persino a sgozzare le sue stesse oche. Robba mia, vieni con me.  
Un mio caro, e vegliardo amico, un giorno me lo commentò così. Alla fine Gesualdo era divenuto la sua ricchezza. Niente altro. Se non se la fosse portata nella tomba, sapeva che di lui non sarebbe rimasto altro che un sepolcro vuoto...

Identità e felicità sono concetti estremamente connessi tra loro. Entrambi assai difficili da definire. Entrambi forse legati a una sorta di senso di appartenenza. Sarà forse per questo che i tifosi gioiscono in maniera così estrema e illogica - che hanno da guadagnarci? - quando la loro squadra del cuore vince? Perché si sentono legati a quei colori? E, se così fosse, da dove nasce questo legame e perchè?
Domande a cui nessuno riesce a dare una piena risposta, ma tant'é. È un fatto. 

Da anni mi capita di riflettere su tali aspetti, al punto da domandarmi se questi giocatori, questi beniamini sempre alla ricerca di una salario più ricco - chissà che diamine vorrebbero comprarsi, che già non possono - provino la medesima felicità dei loro supporters. E, se lo volete sapere, non ne sono così convinto. Ovviamente, non ne posso essere sicuro, però di un'altra cosa sono invece certo. Che più i flussi di denaro sono cresciuti nel mondo del calcio, più l'attaccamento dei tifosi è andato a scemare, o comunque a mutare in peggio almeno in Italia. 
Ricordo infatti quando ero bambino. Ricordo quando andavo nel piccolo stadio in cui la squadra locale giocava le partite di Eccellenza. Duemila posti sempre pieni. Mai una domenica che non terminasse col tutto esaurito. Ricordo questo e lo confronto a quanto vedo quando vado a Meda, per godermi qualche partita del Renate. Lì si è in serie C e da un paio d'anni il Renate naviga in zona alta. Spettatori paganti... poche centinaia... Ricordo come un tempo, bastava parlare di calcio che subito attaccavi bottone con tutti. Oggi al massimo mi si risponde con frasi melense quali Ah, mi scusi, non seguo molto il calcio...
Che cosa è successo perché il virus della disaffezione riuscisse a infettarci così tanto?
Dove sono finiti i bambini che un tempo indossavano le magliette dei propri beniamini? I beniamini, già... quali? Oggi non ci sono più beniamini. Oggi ci sono professionisti, che giocano per il miglior offerente. 
In realtà, forse queste mie parole lasciano un po' il tempo che trovano. Ne sono consapevole. Forse questo mio lamentarmi non ha alcun senso, oltre che non aver alcuno scopo. Eppure, tra le poche cose che rimpiango del mio passato c'è quello strano senso di attesa, quell'adrenalina che percepivo per l'intera settimana prima di un derby, di una semifinale di champions. Quell'irrequietezza che provavo la notte precedente il match, tanto che non aspettavo nemmeno che la sveglia suonasse; anzi, ero io a gridarle SVEGLIA! con un'ora di anticipo. Oggi invece è necessario che sia mia moglie a ricordarmi quando il Milan gioca. Sarà la vecchiaia che galoppa? Forse, ma non solo. 

Comunque sia, al di là di queste mie parole fiacche, il calcio continuerà sulla sua strada. Per quanto possa essere iniquo, continuerà a esistere e noi continueremo a guardarlo. E guardandolo continueremo a gioire delle vittorie dei nostri colori, a disperarci nelle sconfitte e a commentare le svarionate di arbitri e interpreti. Ci lasceremo ammorbare dallo spettacolo, così come è sempre stato...
... di tanto in tanto però, in qualche sogno di mezz'estate, ci ricorderemo di quel tempo. Il tempo in cui, oltre ai professionisti, quei campi venivano calcati anche da leggende che, come tali, si consacrarano all'immortalità della memoria. E racconteremo le loro storie, sino a che non si faranno mito e l'orecchio delle nuove generazioni si porgerà a esso come si fa con le fantasie dei vecchi. 
Sì, ci fu un tempo in cui c'era qualcosa che contava più del denaro...
Peronatemi se posso essere sembrato retorico. 

Un abbraccio
Igor