Essere trasformisti non è mai una buona cosa. O almeno così mi è stato raccontato quando mi sono affacciato nel mondo del lavoro. Una massima, se mi si passa il termine, a cui ho anche creduto per un certo periodo di tempo, qualche anno a dire il vero, nonostante la mia indole andasse da tutt’altra parte. Basterebbe vedere un po’ la mia vita degli ultimi vent’anni, per intravedere il paradosso della cosa.
Studente magistrale, perché volevo fare l’insegnante, come insegnante era la mia nonna materna. Ragioniere improvvisato per necessità, causa crisi del credit crunch che aveva praticamente desertificato l’offerta lavorativa, più o meno a tutti livelli settoriali. Controller e consulente aziendale divenuto nel corso dell’esperienza accumulata. E poi data scientist, con un forte approccio all’utilizzo di business intelligence e intelligenze artificiali. Nel substrato infine, scrittore per passione. 

Insomma, come direbbe il mio caro, carissimo - sebbene interista - Ligabue, ma anche il nasuto Cirano, uno che è un po’ tutto e infine un po’ niente. Perché in effetti il rischio del trasformismo sincopato, a limiti della patologia, è proprio questo: essere talmente tante cose che, alla fine, dall’altra parte il messaggio riguardo ciò chi sei - attenzione, chi e non che - non arriva e il richiamo del nulla si fa forte sullo sfondo
Ciò nonostante, al di là di tutti i richiami e i consigli ricevuti, alla fine la mia indole ha vinto. Ha vinto a tal punto che, per quanto la mia realtà professionale mi piaccia moltissimo, so che prima o poi il cambiamento, questa biologia così camaleontica che fa parte di me, tornerà a bussare alla porta. Ricordando i miei studi magistrali, mi viene quasi da citare il saggio Erikson - no, non l’allenatore dello scudetto laziale - che sosteneva come la vita sia costellata da periodi di crisi. Attenzione, con crisi non s’intende necessariamente un qualcosa di negativo, sebbene l’idioma corrente ci porti a farlo. Con crisi infatti Erikson intendeva una necessità di cambiamento. Necessità che non riguardano solamente l’età evolutiva, ma l’intero percorso di vita. Come una crisalide sempiterna che, prima o poi, deve risbocciare in una nuova farfalla in grado di adattarsi alla nuova fase esistenziale. 

Potrà sembrare strano, ma vedendo il Milan degli ultimi tempi - ai limiti della catastrofe, diciamolo sinceramente - mi è venuto da pensare a tutto questo. Abituati com’eravamo alla stagione precedente, al cuore sempre infiammato dei giocatori, alla solidità di gioco, ma soprattutto alla spensieratezza vista, il mese di gennaio è stato un po’ come un gelido risveglio da un bel sogno. Ecco il vero Milan. Ecco la fine di una bellissima e fortunosa illusione. Ecco che la verità è venuta a galla. 

Ma poi… poi… ecco il cambiamento. Ogni volta, quasi si trattasse di un ciclo di vita impossibile da spezzare.
Il passaggio al 3-5-2 - o 3-4-2-1, se preferite - è stata una sorpresa neanche troppo gradita ai più. Quasi un messaggio di resa, il tentativo di non far colare a picco definitivamente una barca che pareva imbarcare acqua da ogni parte. Una soluzione di comodo, per capirci meglio, cosa che anche io avevo pensato in partenza. Ma si è trattato veramente di questo? Per quanto la partita contro il Torino, momento in cui Pioli ha sfoderato per la prima volta - con qualche trailer già durante il derby - questo nuovo sistema, abbia lasciato molte perplessità, già quella contro il Tottenham ci ha fornito qualche dato in più. Informazioni che, sostanzialmente, mi hanno portato a rispolverare l’intera storia di Pioli da quando giunse a Milanello in quell’inizio d’inverno alla vigilia della pandemia. 
Possiamo dire che il Milan di oggi sia ancora quello di allora? Sarebbe da TSO d’urgenza affermare una cosa del genere; le differenze sono abissali sotto numerosi aspetti: tattico, strategico, motivazionale. Non solo: tali cambiamenti non sono venuti tutti assieme, ma attraverso precisi periodi di crisi in cui Pioli non ha fatto altro che, con sudore e fatica, adattarsi alla situazione. La prima di tutte queste crisi fu di certo quella dell’identità: chi siamo noi? Cosa vuol dire essere il Milan? Come dobbiamo approcciare le partite?
Diciamocelo, prima di quello straordinario post lock-down in cui il Milan macinò più punti di chiunque, a San Siro le avversarie arrivavano sempre con il coltello tra i denti. Il Milan non era dominatore del campo, anzi spesso vestita volente o nolente gli abiti della vittima sacrificale. Tornati in campo, ecco un primo cambiamento sostanziale, segnato da una profonda coesione di spogliatoio, nonché spensieratezza. 

Arriva così l’anno del ritorno in champions. Un ottimo girone di andata, molte paure del passato messe in archivio, per fare posto a nuove, in particolare una: quella di vincere. La crisi del fiato corto, come la chiamo io. Ma siamo veramente una squadra che può vincere? Essere spensierati può bastare per vincere uno scudetto, o almeno entrare in champions dopo quasi un decennio? Con un po’ di fatica, Pioli la sfangò ancora una volta. Come? Facendo leva sulla voglia e l’identità. Guarda caso, l’accesso in Champions fu seguita immediatamente da addii pesanti come quelli di Donnarumma e Chalanoglu. Assenze che furono viste come una perdita di valore molto difficile da colmare, ma che invece forse furono parte integrante della vittoria che sarebbe giunta poi, anche se con un po’ di fortuna. L’individuo non conta. Conta il collettivo. Mi sbaglierò, ma credo che sia stata questa la chiave dello scudetto scorso. Identità, spensieratezza e gioco di squadra. 

Veniamo così al gennaio a tinte horror del 2023. La fiacchezza della pancia piena. La maggior parte delle crisi di panico nascono da una cena mal digerita, come diceva spesso un mio caro amico. E questo è più o meno quello che è successo al Milan, o almeno credo. La crisi da ossigeno rarefatto quando ti trovi in cima alla montagna, che porta con sé grande euforia, ma anche il grande pericolo di ruzzolare giù per il declivio a causa dell’ipossia. 
Si è raggiunta la meta troppo in fretta, ecco il problema. Lo scudetto era totalmente inatteso e - per quanto molto gradito - ha sbilanciato molto la crescita graduale che stava vivendo la squadra. Una squadra che ha vinto, prima ancora di diventare una squadra vincente. E questo ha sparigliato le carte. Ecco la nuova crisi da affrontare. Come riprendere il discorso da dove lo si era interrotto? Tornando alle basi, cambiando alcuni dettami: trasformare la spensieratezza in cattiveria, la proposizione in solidità, l’adrenalina in agonismo. In poche parole, far crescere la squadra e i suoi giocatori. Dunque, prima di tutto, chiudere la difesa, a costo di segnare qualche gol in meno. Ridare fiducia nei mezzi, far tornare l'idea che, come non si era campioni l'anno scorso, non si è divenuti improvvisamente scarsi oggi. 
Per carità, è ancora un esperimento in divenire, dunque la questione è ancora molto aperta. Una questione dove però, nelle ultime tre gare, l’unico gol subito dal Milan è stato da calcio d’angolo. Certo, le vittorie sono state molto striminzite, causa una comunicazione tra i reparti ancora refrattaria e poco oliata. Ma se già tra Torino e Tottenham una differenza si è vista, chissà… 

Che il trasformista Pioli ce la faccia ancora, di certo non ci è dato sapere con anticipo. Tuttavia, qualcosa mi dice che - sebbene ci siano molti allenatori molto più rinomati - in tale frangente sia uno dei migliori o, quanto meno, a sentirsi a proprio agio. Uno che sa vivere il cambiamento e sa trarne sempre qualcosa di buono. Strane similitudini che mi portano a provare una sorta di affetto per il caro Stefano, e a dargli sempre - forse anche a torto - una possibilità in più. 
In bocca al lupo. 

Igor