Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici: considerate se questo è un uomo che lavora nel fango che non conosce pace che lotta per mezzo pane che muore per un si o per un no. Considerate se questa è una donna, senza capelli e senza nome senza più forza di ricordare vuoti gli occhi e freddo il grembo come una rana d'inverno. Meditate che questo è stato: vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore. Stando in casa andando per via, coricandovi, alzandovi. Ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi.


“NON È LA FAME MA È L’IGNORANZA CHE UCCIDE”
Ricordo ancora quando, liceale, mi beccai tre giorni di sospensione, reo di avere imbrattato un’intera parete del corridoio di scuola con questa citazione musicale (arma del delitto: l’Uniposca azzurro).
Quando tornai in classe, dopo avere scontato la pena, lo stesso professore che me l’aveva inflitta, inaspettatamente e in un certo senso, mi premiò, nel modo in cui io mai avrei immaginato. Era il 27 gennaio, il professore di Latino, Greco e Storia distribuì a ognuno di noi una copia delle memorie di Primo Levi 'Se questo è un uomo'. Ce ne fece leggere un pezzo per ciascuno, senza commenti, parafrasi o esplicazioni di sorta; soltanto, mentre leggevamo, si alzò dalla cattedra, andò alla lavagna e scrisse col gesso quella frase dei Litfiba, dedicandomi, infine, un’occhiata furtiva. E non disse altro e non fece altro. Uscì dalla classe ch’era appena iniziata la lezione e ci lasciò lì, soli con quella poesia e con quella frase.
Non lo scorderò più. Non dimenticherò più l’ordine e la compostezza, che incredibilmente mantenemmo per tutta l’ora, durante la quale parlammo di Levi, della Shoah, di Hitler, del film di Spielberg, Schindler's List, di Fuga per la vittoria e della sorte di alcuni calciatori ebrei. E sì, perché il calcio era un argomento che, specie tra i maschi, non poteva mai mancare, ma che in quel frangente appassionò anche le nostre compagne. Anche il calcio c’entrava con tutta quella storia, sebbene molti di noi non se lo immaginassero neppure. Per fortuna tra di noi c’era Gianni, il secchione della classe, il quale estrasse dal cilindro una delle sue perle di conoscenza, raccontandoci di un calciatore austriaco, Matthias Sindelar, che s’era ribellato al Reich; e, come lui, anche altri calciatori e sportivi italiani.
Non c’era Google e certo il buon Gianni non era onnisciente, perciò, a ricreazione andammo nella piccola biblioteca della scuola e cercammo dei testi che potessero fornirci informazioni, per fare ciò che decidemmo di fare: un tema collettivo. La storia dei calciatori ebrei perseguitati c’incuriosì, a tal punto da utilizzare il calcio come leit motiv del nostro elaborato, che difatti intitolammo: Un Calcio all’ignoranza.
Ci ritrovammo (la classe quasi al completo) quello stesso pomeriggio a casa di Luca (giuro, si chiamava Luca, la canzone non c’entra) e buttammo giù il tema in un paio d’ore, del resto eravamo bene organizzati: alcuni di noi si dedicavano alla ricerca, gli altri, i più bravi in Italiano scritto, si cimentavano nella stesura.
La mamma di Luca pensò alla merenda: brioche e nutella per tutti.
Eccone il testo integrale.

UN CALCIO ALL'IGNORANZA 
(Tema svolto dalla classe VB - Liceo Vittorio Emanuele II. - Palermo, 27 Gennaio 1994)  

«Ricordare. Ricordare per non morire! Non morire d’indifferenza, non morire di disumanità, non morire, ancora, per mano violenta di nostalgici estremisti e revanscisti al contrario.
Ricordare per non morire dentro. E un Paese, una comunità che non ricorda, specie quando il ricordo è un monito che echeggia dal buco nero del passato, è un paese che muore.
Anche noi, “comunità” del pallone, innamorati dello sport e di questo sport in particolare, abbiamo il sacrosanto dovere di ricordare, poiché anche noi siamo morti mille volte d’ignoranza. Neanche il calcio, infatti, è mai stato immune dal virus dell’antisemitismo. È così ancora oggi, è così sin dagli inizi di questo crepuscolo dell’umanità che si chiama Shoah (che in ebraico vuol dire “catastrofe”).
L’olocausto sterminò milioni di ebrei e non risparmiò nessuna nazione; men che meno il nostro Paese, il quale, anzi, se ne rese teatro calamitoso con l’infame promulgazione delle leggi razziali fasciste. La pretesa superiorità di una razza, l’aberrazione più disumana della storia dell’uomo che risponde al nome di eugenetica, il totalitarismo di leaders pazzi epperò capaci d’un carisma demoniaco, la massificazione di principi che divengono dogmi dati in pasto a coscienze fiaccate da decenni di guerre mondiali (la prima era finita da poco): su questo humus marcio attecchì l’erbaccia, ruvida e scolorata, dello sterminio.
In quel mondo senza lume e in quei tempi, bui come il fondo d’un pozzo senza fine, furono arati campi senza vita, concimati con resti umani saponificati; mentre dai cunicoli dell’orrore sbuffava ignominiosa morte; e filo spinato e neve insulsa si mischiavano a cieli ricolmi di pioggia sporca e minacciosi uccelli di metallo; che svolazzavano, reboanti, sopra cani latranti, al guinzaglio di soldati mostruosi, avidi di umana carne da macello.
Ad Auschwitz, e in ogni altra sua proiezione, l’orologio dell’umanità si fermò per sempre, le sue lancette caddero giù come appassite, i numeri divennero matricole di morte su pigiami a righe, la rotondità del mondo si deformò irrimediabilmente, il tempo e lo spazio si contesero l’ultimo disperato frammento di luce, un puntino lontano, sempre più lontano, sempre di più… 
E in questa Europa orrenda, dove l’aria puzzava di paura, dove ogni acqua era torbida, dove la terra brulicava di vermi e mele marce, dove il fuoco conosceva solo libri e coscienze da divorare, anche il calcio conobbe le catene della sopraffazione.
Questo sport, già allora così popolare, e quegli sportivi, già allora così idolatrati quasi come divinità scese dall’Olimpo, conobbero gl’inferi. E non c’è nulla di più paradossale in questo. Lo sport, e il calcio in particolare, è per sua stessa natura portatore sano di principi sani e poggia su un assunto assiomatico: il più forte è chi vince sul campo; ed è, questa, una straordinaria forma di libertà. Conta solo il valore, quello è l’unico recinto.
Purtroppo, però, il totalitarismo di quel tempo impiantava ben altri recinti e non conosceva altra libertà all’infuori di quella dei suoi profeti, di far ciò che volevano, di piegare ogni persona alle abiette ragioni di Stati canaglia, di far strame della dignità degli atleti, della loro libertà, della loro individualità.
Alcuni di essi, tuttavia, non arretrarono, non abbassarono il capo, non tremarono. Al cospetto di quel gigante chiamato prepotere costituito, loro, piccoli giganti chiamati coraggio, non si piegarono.
E per questo, oggi, giorno della memoria, meritano di essere ricordati.
Ricordiamo.
Un famoso ciclista trasportò documenti, fotografie e lettere nel telaio della propria bicicletta, utilizzando l’alibi dell’allenamento per le sue scorrerie clandestine tra le colline toscane: si chiamava Gino Bartali. Non era un calciatore, ma ricordiamolo.
Ricordiamo.
Arpad Weisz, il giovane e vincente allenatore ungherese dell’Ambrosiana Inter e del Bologna, fu vittima, in quanto ebreo, delle leggi razziali in Italia e della “innata perfezione” sportiva. Rifugiatosi nei Paesi Bassi, con l'occupazione tedesca durante la Seconda Guerra Mondiale fu arrestato e deportato, dapprima nel campo di transito di Westerbork, quindi ai campi di lavoro e infine ad Auschwitz, dove trovò la morte per mano nazista. Ma non rinnegò mai né cerco di nasconderla la stella di David, anche quando dovette portarla sulla sua giacca, come una lettera scarlatta che significava morte.
Ricordiamo.
Bruno Neri, mediano di Fiorentina e Torino, si rifiutava di “fare il saluto”. Gli stadi durante il fascismo erano diventati veri e propri “teatri di massa”, dove si radunavano folle oceaniche, cui poteva facilmente rivolgersi la propaganda del regime, che si esprimeva anche attraverso gesti simbolici, come, per l’appunto, l’imposizione dell’obbligo del saluto romano prima dell’inizio delle partite. Neri no, e da mediano lottatore si trasformò in combattente partigiano.
Ricordiamoci di loro e di altri che, come loro, veicolarono, attraverso le proprie imprese sportive, un messaggio netto di ribellione.
Ricordiamo, sì. Non per un mero, sterile esercizio rievocativo o, peggio ancora, di retorica, e neppure perché meritano gli onori della storia (e sì che lo meritano!); ma affinché il loro esempio sia da insegnamento per noi giovani e monito per le classi del potere che ci governano. Le spinte estremiste, infatti, ancora oggi e nonostante, appunto, la storia, non mancano di far sentire il loro pesante alito sulla tenuta democratica delle nostre istituzioni, civiche e politiche; ricordare è il miglior antidoto alla venefica ignoranza, che di queste è certa progenitrice.
La memoria non è, non deve essere una giornata (che come Giornata auspichiamo possa comunque essere presto istituzionalizzata), dev’essere un codice indicizzato sulle nostre coscienze.
Ricordiamo. Quando andiamo a fare la spesa e c’è qualcuno in abiti lerci, all’uscita dal Supermercato, che chiede cibo.
Ricordiamo. Quando siamo fermi al semaforo e ci battono sul finestrino delle nostre confortevoli automobili.
Ricordiamo. Quando, per banale e stupido dileggio, apostrofiamo qualcuno dandogli dell’ebreo.
Ricordiamo. Quando l’incomprensione ci fa paura e la esorcizziamo prendendone le distanze.
Ricordiamo. Quando un barcone è fermo al largo di un mare di disperazione e ci lasciamo suadere dal demagogo di turno che sia giusto così. Ricordiamo. Quando imponiamo o profittiamo d’una superiorità o preminenza che non discenda dal merito né da un diritto acquisito.
Ricordiamo. Quando udiamo allo stadio un “Bu” che stona peggio della nota di un tenore ebbro. E ricordiamo le vite e le imprese degli sportivi perseguitati. Ricordiamo la violenza che subì lo sport, tutto, utilizzato come mezzo di propaganda e strumento per inquadrare in maniera militaresca la gioventù, attraverso la disciplina del corpo.
Oggi, 27 Gennaio 1994, è il giorno della memoria. Ricordiamo. Perché “un popolo senza memoria è un popolo senza futuro”. Il futuro. Quante volte noi giovani sentiamo questa parola! Ci viene propinata ad ogni occasione, sia essa d’insegnamento, di rimprovero, di persuasione, d’incitamento o di semplice esercizio oratorio. E a noi sembra di vivere come sospesi a mezz’aria, tra un presente non vissuto fino in fondo e un futuro da conquistare, da costruire, da vivere. “Il futuro non si aspetta, si prepara”: ci avete insegnato questo, maestri di vita o di scuola.
Ma perché non c’insegnate mai abbastanza il coraggio d’immaginarlo, il futuro? Quanti di noi hanno il coraggio d’immaginarlo, il futuro? Immaginare un futuro diverso, ecco il valore della memoria. Ecco la speranza dell’umanità. Rimaniamo al nostro amato pallone (preso in questo tema a metafora icastica del mondo e delle sue follie) e immaginiamo una partita di calcio, dove nessuno faccia il saluto romano sotto una curva e dove nessuno pensi, anche solo lontanamente, d’esclamare “Boia chi molla” e dove le maglie nere siano solo quelle degli arbitri e comunque non facciano più paura. Immaginare un futuro che apprenda dal passato e sia migliore. Nel calcio, nella vita, tra la gente. Perché vi sbagliate, illustri detentori di verità per niente assolute: il futuro non si aspetta e non si prepara. Il futuro s’immagina e così, d’immaginazione in immaginazione, di generazione in generazione, l’uomo si evolve, progredisce, migliora.
Oggi noi siamo il futuro immaginato da Gino Bartali, da Arpad Weisz, da Bruno Neri…
Ci piace vederla così, perché così tutto sa di speranza, anche questo giorno della memoria»

 

 

Scrivemmo questo tema circa trent’anni fa, ne conservo ancora una copia e ogni anno, il 27 Gennaio, lo rileggo.
Un po’ per nostalgia, un po’ per spirito civico e un po’ non so perché.
E ogni volta faccio le stesse considerazioni, anno dopo anno sempre le stesse.
Eravamo giovani, come tali affetti dalla meravigliosa frivolezza di quell’età, eppure evidentemente lungimiranti, poiché a distanza di un trentennio ancora forte è il sentimento di chi ricorda e la falsità di chi si scorda.
Forse avremmo dovuto scrivere qualcosa pure sul 10 febbraio; o forse no. È meglio forse attribuire un valore universalmente trasversale a quelle righe, vergate da una classe di ragazzi e ragazze col sole in tasca, tanta speranza e per nulla disposti ad alimentare la viziosa pertinacia d’uno schierarsi in questa o in quella metà campo, come se le foibe meritassero maggiore o minore considerazione, storica ed evocativa, dei campi di concentramento o viceversa.
Questo becero tifo da stadio, che s’è ormai creato nel nostro Paese, tra due opposte ideologie politiche e le loro pretese d'essere migliori, allora non era così spudoratamente presente nel dibattito politico e culturale, ma, ne sono sicuro, ci avrebbe letteralmente fatto vomitare.
Mi fa letteralmente vomitare.

Oggi è la Giornata della memoria, il professore Lauricella non c’è più, ma io ne serberò per sempre il ricordo. Il ricordo di un uomo capace di dare al silenzio d’un gesto più valore ed efficacia che a mille spiegazioni. Capace d’insegnarmi l’umiltà: avrebbe potuto utilizzare auliche citazioni, testi letterari o sue personalissime concioni; e invece fece della “malefatta” di un suo alunno una frase da scrivere alla lavagna e trasformare nella più bella lezione che io abbia mai ricevuto. Capace di punirmi e premiarmi alla stessa stregua e per lo stesso onestissimo motivo: insegnare, misurando la qualità del suo ruolo non con un voto, bensì con un esempio.
Quel giorno imparai un’altra cosa: che la forma è sostanza, che quella frase andava scritta su una lavagna, non andava usata per imbrattare un muro.
I muri vanno, semmai, abbattuti, non imbrattati.
Ma no che non è un’altra cosa.