Ho amato il calcio. A dire il vero, lo amo ancora oggi. Per natura, sono una persona competitiva. Da giocatore (basket per la precisione) e da tifoso, sono uno di quelli che ama l’odore del sangue, metaforicamente parlando. Mi piace lo scontro definitivo, quello che non contempla forme di pietà o compassione, sebbene sempre all’interno della dimensione sportiva. Odio i calcoli. Detesto l’atteggiamento del difendere il pareggio, tanto ci basta. Ma soprattutto non sopporto il fatto che, per quanto improbabile, per quanto sia statisticamente irrealistico, una squadra di periferia, la classica piccola e insignificante, non possa sognare. Non possa sognare che, con fatica e dedizione, sudore e speranza, si possa arrivare in fondo.  Questa è la vera essenza dello sport, almeno per come noi che siamo i lontani eredi del pancrazio e delle arene lo abbiamo sempre vissuto. Lo sport è competizione, agonismo allo stato puro,  tutto il resto sono solo chiacchiere. Per questo ho amato il calcio. Prima di lui amai profondamente l’NBA, un tempo massima espressione della pallacanestro a livello mondiale. Il tempo in cui semi-dei quali Grant Hill, Dennis Rodman, Charles Barkley, Dikembe Mutombo, Amar’e Stoudemire, Michael Jeffrey Jordan calcavano il sacro parquet.  Quel tempo non c’è più. Se n’è andato da parecchio, soffocato da un desiderio di entertainment, da sempre presente nel concetto di sport all’americana, fattosi sempre più ingombrante al punto di oscurare il puro aspetto sportivo. Ovviamente questa è solo la mia opinione, ma tant’è.  Per quanto avessi sempre immaginato che una cosa del genere sarebbe potuta accadere anche al calcio, mi sono sempre detto anzi, mi sono sempre illuso, che il nostro sistema avesse sufficienti anticorpi per respingere il pericolo. Respingere l’infezione del it’s just a business, quello spirito malsano che poco ha a che fare con lo sport. A quanto pare, mi sbagliavo. 

La superlega è la morte del calcio, almeno così come lo conosciamo e lo abbiamo amato.  E’ un assioma assai semplice da comprendere. Se prendiamo per vere le ipotesi che il calcio sia competizione, sia agonismo, sia possibilità per tutti di vincere, compresi i più piccoli e invisibili, possiamo allora affermare che la superlega non sia calcio. Se infatti la superlega è un’organizzazione che “invita” solamente determinati eletti al suo desco, tenendo tutte le altre fuori dalla porta perché inferiori, perché poco appetibili, perché aventi poco business appeal, allora essa è la negazione di tutte le ipotesi riguardo a cosa il calcio sia, ergo non è calcio. Semplice. Matematico. Tremendo. Da bambino vidi trasformarsi una competizione sportiva che adoravo, come l’NBA, in una pura forma di intrattenimento. Oggi sta succedendo la stessa cosa con il calcio europeo, ma con un’enorme differenza. L’NBA era ed è uno sport americano. Era nel suo destino, così come avvenuto per la MLB, la NFL e la NHL, affondare nella melassa dell’entertainment. Come mi disse un mio caro amico statunitense, gli americani non tifano, assistono. Noi siamo profondamente diversi. Il nostro calcio, la nostra idea di sport è diversa. Per questo tale trasformazione è ancora più scioccante, oserei dire contro natura, perché non solo cerca di cambiare un’idea ultrasecolare, ma perché non ha alcun legame col nostro essere.  Per quanto ci si stia arrendendo ad esso, per noi europei che abbiamo (ancora) qualche regola, il mercato NON ha sempre ragione. O almeno così dovrebbe essere. 

Tuttavia, sarebbe menzognero affermare che un simile cambiamento fosse inatteso. E’ giunto all’improvviso, inaspettato nelle tempistiche , senza dubbio. Ma sapevamo che prima o poi avrebbe bussato alla nostra porta. La reazione alla notizia di UEFA e FIFA, scocciata e violenta, appare ovvia, ma dietro di sé nasconde delle numerose colpe, a mio modesto parere. Tutto infatti si potrebbe dire del calcio degli ultimi dieci anni, tranne che fosse funzionale o, quantomeno, godesse di ottima salute. Il calcio è stato un malato terminale e nessuno, UEFA e FIFA in primis, ha fatto nulla per cercare di salvarlo. Possiamo infatti considerare le diversità di giudizio applicato dalla UEFA in numerose contrapposizioni come una cosa bella? Il mondiale in Qatar, assegnato dalla FIFA in maniera a dir poco opaca, promotore di numerose morti sul lavoro, come simbolo di una rinascita? Senza contare i numerosi scandali finanziari, legati a volte persino alla corruzione, di cui sarebbe mortificante anche solo parlarne. 

Andando un po’ controcorrente, penso che a un certo punto all’inizio del secondo decennio di questo secolo, ci sia stato un momento in cui si è cercato di fare qualcosa. Il Fair Play Finanziario, per quanto odiato e imperfetto, aveva lo scopo di mantenere vivo lo spirito competitivo. Al di là delle sue zone grigie e l’apparente spigolosità, il FFP aveva un fine nobile: quello di rendere il calcio sostenibile ed equo. Non contava chi fossi e quanti soldi avessi per vincere, come era invece un tempo. Contava quanto fossi in grado di autofinanziare la tua potenza, il che avrebbe potuto ripianare parte delle enormi differenze tra società. Come ben sappiamo, il Fair Play Finanziario ha fallito miseramente. Non perché fosse ingiusto, ma proprio perché era contro la medesima filosofia entrante da cui nasce la stessa Superlega, invisa a UEFA e FIFA. Era contro il desiderio egemonico del mercato. Combattere contro il mercato è dura, forse impossibile. La creazione della superlega, per quanto mi disgusti, ha delle motivazioni logiche dietro di sé. Le parole di Perez non sono messe lì a caso, anche se possono disgustare. Senza questa rivoluzione, andremo a morire. E’ vero. Ma è vero a causa di una pura perversione, ovvero quello di una costante ricerca di crescita priva di uno scopo, che ha portato con sé il devastante lievitare dei costi. E di fronte a un simile problema, quali soluzioni: seguire il nobile intento di un macchina fallimentare come il Fair Play Finanziario, ovvero un’utopica decrescita felice; oppure creare una competizione sempre meno agonistica e sempre più intrattenitrice, al fine di attirare grandi capitali. Non c’è via di mezzo. Quale delle due sia più plausibile? Rispondo con un eufemismo. Secondo il lettore, è possibile convincere il principale protagonista del settore, il calciatore, nutrito per anni a nettare e ambrosia, accettare da un momento all’altro di accontentarsi del panino con la porchetta? Al lettore la risposta. 

Questo breve articolo non contiene soluzioni. Mi dispiace se qualcuno si è aspettato di trovare una possibile opinione riguardo a come si possa uscire da una simile situazione. D’altronde, chi sono io per poterla trovare o consigliare? Posso però dire una cosa. Si tratta di una terribile sensazione che da domenica continua ad accompagnarmi: finirà male. Molto male. UEFA e FIFA, per quanto possano alzare i toni, sanno che non si può più tornare indietro. Il clan della superlega si è troppo esposta per rimangiarsi parole pesanti come macigni. Ciò non significa che tale progetto nascerà, a discapito di tutto e tutti. Ma anche un possibile mappazzone, una via di mezzo diplomatica, nella mia immaginazione porterebbe comunque a un’enorme sconfitta per l’attuale sistema. Un po’ come quando si riceve una ricca proposta di lavoro dall’azienda concorrente a quella in cui si lavora. Si tornerebbe indietro per un’offerta di aumento meno cospicua? 

Forse, da questo punto di vista, sarebbe allora meglio che la superlega nasca, ma al triste prezzo che le sue partecipanti rinuncino, o vengano escluse, da tutte le altre competizioni sotto il marchio UEFA. Forse si avrebbe un calcio meno appetibile, ma con ancora un barlume di agonismo e di sportività (e a dirlo è un milanista nell’anima). Per concludere, ribadisco quanto detto in principio a questo articolo. Ho amato il calcio, e continuerò ad amarlo anche con la superlega… ma come si fa quando si ama un caro estinto. 

Un abbraccio
Igor